L’Advaita è una via alquanto particolare, diremo, un sentiero contro corrente; mediante la comprensione di ciò che non è realtà perviene all’accettazione di ciò che è Assoluto. Con il rigetto della dualità soggetto-oggetto, base del processo pensativo, perviene a trascendere il pensiero, la stessa mente e l’intero tessuto speculativo, compreso quello metafisico. Questa strada ci conduce alla vera pienezza, alla Gioia-Beatitudine senza oggetto, al sat-cit-ananda (Esistenza pura, Intelligenza-Coscienza pura, Beatitudine-Gioia pura).
Il mondo dei nomi e delle forme è una produzione della Mente cosmica e l’avidya emerge quando consideriamo questo mondo come separato dal sognatore cosmico, come una Realtà a sé, un assoluto. Con la spada del discernimento il discepolo jnani separa il fenomeno dal noumeno, il prodotto dal produttore, il divenire dall’Essere.
È un processo a ritroso perché occorre ritirarsi con gradualità al Centro dell’Essere e ciò senza sforzo, senza opporre alcuna resistenza, senza forzare la psiche o determinare una attività volitiva, ma semplicemente usando l’osservazione, il discernimento intuitivo e la meditazione senza oggetto.
Ogni desiderio umano tende verso la felicità, ma questo “impulso alla ricerca” di ciò che produce Pienezza è diretto erroneamente verso l’esterno, verso ciò che la percezione sensoriale definisce mutamento: da qui il conflitto e la conseguente sofferenza. Quello che è mutevole non può dare mai qualcosa di stabile, di durevole, di costante.
Il desiderio non è che il riflesso di una gioia obliata, di un paradiso perduto. Quando sapremo dirigere le nostre energie verso il Centro immutabile dell’Essere, allora potremo riavere quello che abbiamo perso.
Quando riconosceremo che la mente estrovertita non produce altro che separatività e conflitto, la riporteremo allo stato di quiete o di silenzio ricco di Vita.
Raphael
tratto da Alle Fonti della Vita (pp. 64-65)
Edizioni Asram Vidya 1979