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506. Il ritiro spirituale

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Il Pensiero-Intenzione è una “Forza”. La Sadhana è la messa in pratica di un Pensiero-Intenzione. La “Forza” è ciò che determina un “cambiamento” o una “trasformazione”. Ciò vale sia nel mondo materiale (immanenza) sia nel mondo spirituale (trascendenza). La “Forza” è invisibile ma i suoi effetti sono sempre visibili o percepibili. La “Forza” è conoscibile attraverso una nozione mentale ma non è solo un concetto astratto intuibile ma “qualcosa” che può essere sperimentata in ogni momento. La “Forza” è un’influenza che può cambiare lo stato di una qualsiasi cosa a cui venga applicata. Tutto ciò è quanto il Sadhaka deve apprendere sin dai suoi primi passi nel “sentiero realizzativo” (Sadhana) scelto.
L’uso consapevole del Pensiero-Intenzione tende a connettere alla Sorgente Fondamentale: innesca un “processo” di risveglio tutto da consolidare mediante la corretta azione nella Sadhana. Lo “spazio” in cui una forza è percepita si chiama il “campo” di quella forza. Quindi un “campo di forza” è dove l’”energia” (quantità di lavoro che può essere compiuto da una forza) viene trasformata. La “Forza” ha una “direzione” in quanto Intelligenza. La “Forza” sembra seguire la propria “direzione” mediante onde di forza. La “Forza” è Intelligenza nella Sorgente Fondamentale e può, quindi, operare consapevolmente prendendo come proprio veicolo la “materia”, la “non-materia”, le bolle inconsistenti delle “illusioni” (la scatenante potenza dell’immaginanazione) che provocano comunque sensazioni-emozioni-sentimenti (vrtti, onde nella sostanza mentale), e le “formazioni egregoriche”.

Il pensiero è forza, il desiderio è forza, ogni emozione è forza; ma anche la fame è forza, la sete è forza, il sesso è forza, il piacere e il dolore sono forze. Le espressioni della “Forza” sono infinite ma in effetti la “Forza” è Una: “quella” che il Sadhaka deve trovare, riconoscere e consapevolizzare per consolidarvi la propria connessione. La forza è “Forza Divina”, invisibile e indivisibile. Il Sadhaka è con la propria Sadhana che scopre, ad un certo punto, l’unica e sola “Forza” che sta dietro a tutto, contemplandola. Per questo, ad un certo momento della Sadhana, comincia a sentire il bisogno (ma in realtà è un richiamo dell’Anima) di ritirarsi periodicamente per contemplare la “Forza”, dentro e fuori di , la Forza-Uno senza-secondo, la sola unica Realtà.
La “Forza” è onnipresente, non vi sono tante forze.
È la “Forza” che, se riconosciuta e consapevolizzata, al di là di come la si voglia chiamare, è causa di esperienza, o di tutte le esperienze trasformative.
La “Forza” oltre ad essere onnipresente è onnipotente. La “Forza” è il creatore dei suoi stessi mezzi di espressione nell’immanente e nel trascendente. Il Sadhaka è tale perché ha riconosciuto l’irrealtà dell’ego separativo (ahamkara) comprendendo i motivi per i quali, nonostante la consapevolezza acquisita, continua a sperimentarne il dominio. Egli ormai sa di non essere l’ego, il “personaggio” sospinto dai guna, le tre qualità costitutive della Sostanza Universale, o dagli spostamenti dell’equilibrio Yin-Yang, ma l’Anima. Egli sa come non essere trascinato dal frutto delle proprie azioni (Karma). La buona Sadhana risveglia e illumina le funzioni dell’Antahkarana (l’Organo interno, cioè la mente nella sua intera estensione), buddhi, ahamkara, citta e manas, e con questa consapevolezza cerca di non alimentare più il piano di esistenza dei prodotti egoici. È a questo livello che il Sadhaka si appresta a sperimentare la quintessenza della spiritualità, può trascendere completamente l’ego individualizzato e divenire Uno con la “Forza” Fondamentale (il Brahman), l’Uno-senza-secondo.

Un “ritiro spirituale” è un Pensiero-Intenzione (Idea-Progetto), cioè una “Forza” che può determinare una “trasformazione” mediante un’intensa esperienza. Può essere di qualche giorno, di una settimana o più, svolto anche periodicamente.

Il “ritiro spirituale” presso un luogo apposito è, in realtà, uno stato-condizione interiore del Sadhaka. È un uscire dal mondo illusorio per contemplare la luce interiore. È uno stato coscienziale in cui il ritiro fisico, dal mondo profano, rivela una profonda chiamata dell’Anima.

Fare un “gruppo di studio” ricopre il punto di vista teorico di una Sadhana; vivere un “ritiro spirituale” assume la valenza del punto di vista realizzativo di una Sadhana.

Un “ritiro spirituale” non è solo un incontro di qualche giorno tra “ricercatori della verità”, tra devoti di un Maestro, tra fedeli di un credo per raccontarsi le proprie esperienze, mostrare le proprie opinioni, fare gruppi di studio, mimare qualche rito di cui si sa poco o nulla e bisbocciare fraternamente con il solito pretesto del pasto comunitario che concilia gli animi.
Il “ritiro spirituale” è la più antica ed efficace “pratica” esoterico-spirituale che un gruppo di enti umani, animato sinceramente da devozione spirituale, possa fare: rispettando tutti i sacri crismi che l’esperienza richiede.
Il “ritiro spirituale” infatti non è l’occasione di raccontare, inebriandosene, le proprie esperienze passate ma di sperimentare un’importante esperienza spirituale trainante verso gli elevati livelli della propria Sadhana (Sentiero spirituale, disciplina spirituale).
Un “ritiro spirituale” assume tutto il suo significato e tutta la sua reale potenza quando si pone a rappresentazione simbolica di una Sadhana ideale espressa nella sua interezza:

  • Fase informativa
  • Fase formativa
  • Fase realizzativa

Un ritiro, così fatto e inteso, diventa un talismano spirituale vivente in cui si evocano tutte le condizioni necessarie per superare resistenze ed ostacoli fisici, emotivi, energetici e mentali.
Un ritiro corretto, secondo il naturale funzionamento della struttura fisica-sottile del Sadhaka, va concepito e vissuto non attraverso la convenzionale accettazione del tempo lineare ma mediante una concezione del tempo circolare, ciclica del tempo: l’uscita dal mondo, dalla realtà illusoria del divenire e l’ingresso nella realtà del Continuo-Infinito-Presente.

Il ritiro diventa “cerchio magico divino” dove ciascun Sadhaka affronta sé stesso senza ipocrisia perché, nello “spazio sacro” dell’intero ritiro (i giorni previsti), non si può mentire senza pagarne le conseguenze (Karmiche).

Il ritiro “spazio sacro” diventa un “luogo” immateriale dove, in modo consapevole, stando fuori dal mondo di Maya, si può influire considerevolmente sulla propria reintegrazione spirituale, la si può accelerare mediante l’accumulo di energia egregorica ottenuta mediante l’Idea-Progetto-Intenzione del ritiro: una speciale connessione del cuore con l’Alto.
Il ritiro spirituale assume un alto valore simbolico: diventa “spazio sacro” immateriale universale. Poi, ovviamente, un ritiro può essere effettuato, dal punto di vista fisico, in uno spazio della natura o in uno spazio costruito dall’uomo (santuario, tempio, convento, asram, agriturismo, ecc.).
Il Sadhaka, ben avanzato a pensare esoterico, non tarderà a comprendere come l’idea di “spazio sacro” richiami profondamente quella del “centro”, connessa alla radice del simbolo della “montagna sacra”, ovvero il “punto” dove è possibile l’incontro tra il “Cielo e la Terra”, al “centro del mondo”.
Il ritiro spirituale è, quindi, una potente esperienza vissuta alla luce di una profonda contemplazione (Altezza-Trascendenza).

Il “ritiro spirituale” non elimina, però, dalle spalle del Sadhaka il peso (la responsabilità) dei samskara (i semi causali dell’azione che ingenerano le “tendenze” o “impressioni” – vasana – presenti nella sostanza mentale – citta –), dei karma e del dharma da attraversare ma si può superarli, andare oltre ad essi.
Il ritiro serve anche a far vacillare la mente, non ancora illuminata, far ritirare sempre di più il piccolo io del corpo-personaggio-karmico e far emergere il Sé Sovrano.

Il Sadhaka incarna un Ente spirituale-mentale-sensorio-fisico che ha tutto il potenziale necessario per strappare i veli che celano la Realtà Assoluta: deve solo mettersi nella condizione di poterlo fare.
Un Sentiero Spirituale (Sadhana) è la via che conduce “dalle creature al Creatore” che passa necessariamente attraverso la contemplazione dell’ordine dell’universo e la contemplazione della bellezza delle creature.

Moltissimi enti umani (Sadhaka per auto-definizione) affermano di essere credenti (di cosa, in cosa?), persone di fede, dei devoti, dei discepoli ma poi questa affermazione trova, in ciascuno, una realtà di vissuto diversa, anche se a parole tutti sostengano di condividere la medesima fede nel Dio, nel Maestro, nella meta perseguita.

Una vera Sadhana contempla anche la considerazione di come tutto l’universo si muove mirabilmente secondo un ordine (rta), uno schema, delle Leggi Universali: dalla ricezione di tali considerazioni si vede la “qualità” (la coerenza di quanto sostiene con quanto effettivamente è) del Lavoro del Sadhaka. La contemplazione della bellezza, dell’armonia del creato, tanto splendore, tanta bellezza, tanta armoniosa melodia richiama il Sadhaka autentico ad una Bellezza, un’Armonia, uno Splendore eterno e perfetto da cui deriva ogni bellezza, armonia e splendore terreno. Ma il Sadhaka vero dovrebbe osservare anche quella “via” degli uomini che richiede una fondamentale rettifica per quel prevalere delle ingiustizie che impedisce ai molti di trovare la strada per una reintegrazione spirituale fondamentale. Il Sadhaka autentico, apprezzato dai Maestri, non può non contemplare nel proprio cammino anche il lavoro per una umanità che deve riscoprire il Bello, il Buono e il Vero per incamminarsi sul sentiero solido di una spiritualità per la reintegrazione degli esseri.

La Sadhana è un sentiero di introspezione profonda. Il “ritiro spirituale” più che un incontro con gli altri, del gruppo di appartenenza, è l’occasione di una introspezione profonda, un osservarsi allo specchio interiore cui non si può sfuggire: l’incontro con la propria verità del momento, cioè l’individuazione della propria reale posizione coscienziale raggiunta.

Il “ritiro spirituale” è la grande occasione in cui il Sadhaka si può affrontare, si può incontrare sinceramente con sé stesso, si può scontrare con sé stesso bandendo, una volta per tutte, ogni traccia di ipocrisia nascosta ed ogni pensiero vile che si insinua in ogni lotta interiore: potrà sperimentare un campo di pace autentica in cui scendere e trovare una  sete infinita di vita, di gioia, di amore, di pace, di realizzazione di sé che nient’altro al mondo può saziare. Il Sadhaka potrà sentirsi fondamentalmente orientato verso una pienezza che non troverà in niente se non nella sola presenza trascendente di Dio (la “Forza”, il Brahman, l’Uno-senza-secondo). La vita del Sadhaka, con la conoscenza delle proprie profondità da esplorare (in funzione della presenza di Dio) acquisisce una indiscutibile pienezza di senso: il Sadhaka si fa portatore di una fiamma inestinguibile che può indicare, nella notte buia in cui è caduto il mondo, sentieri possibili a coloro che brancolano ancora nella sofferenza del non-senso della vita.

Il Sadhaka deve conoscere e trasmettere la conoscenza della Vita vera non con le parole ma con l’esempio di una vita pratica illuminata: egli deve far comprendere che la morte non è l’opposto della Vita ma che la morte si oppone alla nascita perché entrambe legano alla catena dalla quale deve liberarsi, la catena del “ciclo del divenire” del samsara.

Un “ritiro spirituale” si fa anche per manifestare il grado di maturità spirituale raggiunto nelle risposte comportamentali e comunicazionali all’interno dello “spazio sacro” (l’egregora di riferimento del proprio credo).

La Vita-Sadhana del Sadhaka dovrebbe essere vissuta con quella consapevolezza che la contempla quale “Manifestazione” determinata da Isvara (l’Essere Universale) e al tempo stesso dal Principio Supremo (Brahman) e mantenuta dalla funzione Sattvica (che agisce all’interno della Manifestazione stessa). Ma il Sadhaka, in base alla propria posizione coscienziale, deve considerare le “pratiche” che svolge nella propria Sadhana in funzione delle due tendenze opposte cui tutto è soggetto, l’una discendente e l’altra ascendente. Le due tendenze opposte agiscono simultaneamente ma in proporzioni diverse. Secondo quale prevale, l’una o l’altra tendenza, si hanno due fasi complementari, della Manifestazione Universale, che si riflettono nella manifestazione particolare della Vita-Sadhana del Sadhaka: una fase di allontanamento dal Principio, l’altra fase di ritorno al Principio. Ciò significa che il Sadhaka dovrà agire sulla propria Vita-Sadhana tenendo in grande considerazione quale tendenza prevale e operare di conseguenza, sui guna, con le “pratiche” più adatte per esercitare un’azione che rafforzi la tendenza di ritorno al Principio, così da ripristinare e mantenere un equilibrio, almeno relativo, al Dharma.
Un “ritiro spirituale” dovrebbe rappresentare-realizzare una tale sintesi alchemica.

Un ritiro spirituale rinfranca sempre lo spirito ed equilibra il corpo, la mente e l’Anima: se non se ne tradisce il senso sacro.
La vita profana va lasciata alle spalle con tutte le sue eventuali problematiche personali. Bisogna avere la sensazione di entrare in un nuovo paradigma in cui tutto migliora per forza naturale: una prospettiva nuova e ottimistica sulla vita si sostituisce ai vecchi modelli mentali promuovendo la pace interiore molte volte cercata. Va goduta, in ogni momento, la calma e la pace grazie al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, agli incontri (negli spazi aperti o chiusi) con gli altri, alle lunghe passeggiate, ai canti, alla bellezza della natura che accarezza lo sguardo, alle letture, ai dialoghi interiori.
In un’atmosfera rilassata si può facilmente abbandonare una vecchia e negativa abitudine sostituendola con una desiderabile.

È bene, quindi, non inseguire, in un “ritiro spirituale”, le ore che scorrono o inerpicarsi sui punti di un programma rigido che dovrebbe avere la semplice funzione di un percorso indicativo generale dove dare “spazio” più ai momenti-esperienze (da non interrompere per l’ora scaduta in un tracciato di carta) che a dei limiti mentali messi sulla carta.

Siate i benvenuti  a iniziare il vostro ritiro spirituale ideale.
Speriamo di avervi saputo ispirare ad una tale esperienza “trasformativa”.

Regole-indicazioni pratiche per un ritiro spirituale
Mantenere la purezza e l’atmosfera spirituale deve essere considerato un obbligo benvoluto. La frequenza di tutte le eventuali attività previste (programmate dagli organizzatori) non deve essere giudicata come una “mancanza” se venisse meno, per qualcuno, per motivi esperienziali (che non è il caso di perdere tempo a spiegare ad altri nel momento in cui il “vissuto” interiore si esplica). Non dovrebbero essere ammesse alcune cose durante il ritiro: sigarette, droghe (neanche la canapa da molti considerata innocua, cosa non vera per i centri sottili), vino, superalcolici, carne, pesce, uova; abbigliamenti di stoffa pesante e stretti. Indicati abiti leggeri e comodi e uno scialle per la meditazione da tenere a portata di mano (torcia per poter assecondare momenti ispirativi in ore non più solari).

OM TAT SAT

 

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