Trasmigrazione
A – L’ultima volta che ci siamo incontrati le dicevo che sarei voluto uscire dal quadro di coordinate tridimensionale e non reincarnarmi più. Sono ulteriormente convinto che non ho niente a che fare con il mondo di maya, con il mondo dell’esaltazione e, quindi, di tutte le droghe psichiche e fisiche.
R – Quando parli di reincarnazione a che cosa ti riferisci esattamente?
A – Alla teoria della reincarnazione di cui un tempo abbiamo parlato. Non mi sono incarnato in questo mondo d’incompiutezza? Spesso mi ha parlato nel senso che devo uscire dal quadro nascita-morte. Non è così?
R – Sarebbe bene riprendere il discorso perché temo che tu non abbia compreso questo problema nella sua vera essenza. Posto che il Sé è senza nascita e senza fine, senza tempo e incausato, in che senso e fino a che punto possiamo parlare di rinascita, oppure, il che è lo stesso, di morte?
A – Dunque - avvalendomi di quello che per me ormai è riconoscimento - una costante se è tale non subisce mutamento, per cui non è soggetta a modificazioni di natura. Una costante non può avere origine perché, diversamente, non può dirsi infinita ed eterna.
Morte e nascita sono già qualificazioni inerenti a qualcosa di contingente. Il Sé è la costante, l’assoluto, l’universalmente valido, quindi non può né nascere né perire. Allora, chi si reincarna?
R – Questo è il punto; chi si reincarna?
A – Mesi addietro abbiamo parlato di un ente chiamato Jiva. Possiamo attribuirgli la causa della reincarnazione? È esso la radice dei nostri travagli?
R – In effetti ne è la causa. Il Jiva è solo un nome che nasconde una certa verità sperimentale. Esso è il riverbero dell’Atman-costante. Questo “riverbero coscienziale” potendosi esplicare in indefiniti modi, lungo il tempo acquista particolari qualificazioni che cristallizza intorno a sé fino a trovarsi condizionato dalle sue stesse esperienze materiate. Per esempio la mente, potendosi dirigere verso molteplici pensieri, a lungo andare ne cristallizza alcuni fino al punto da esserne aggiogata. I figli divorano il padre.
Quando il riverbero coscienziale rimane costretto e condizionato dalla tela che si è costruito non può non seguirne le direzioni qualitative. Tutto ciò l’abbiamo approfondito la volta scorsa. Quindi il Jiva, costretto da certe esperienze che può recepire e vivere, per esempio sul piano fisico, è obbligato a seguire la via dell’incarnazione su tale piano di espressione vitale, impossessandosi del corpo ad esso inerente. Come puoi notare, sono le tendenze inconsce non risolte, sono le vasana, i samskara (impressioni subconscie) che, non trascesi, forzano a perpetuare uno stato di cose spesso indesiderabile. Sono sempre i samskara che forzano la mente a ripetere una stessa linea di pensiero, fino all’ossessione.
A – Ha detto che il Jiva-riflesso può determinarsi lungo indefinite linee di espressioni vitali. Quindi può scegliere anche di provare uno stato di coscienza non umano?
R – Esatto. Nell’universo ci sono indefinite - per quanto finite - espressioni di vita, e il Jiva è libero di scegliere e trasmigrare, se naturalmente riesce a esperire senza imprigionarsi o legarsi ad una determinata espressione di vita. Sarebbe la condizione ottimale sul piano del vivere mayahico.
A – Dovrebbe agire completamente distaccato dai frutti dell’azione?
R – Certamente. Per tale Jiva non esisterebbe accumulo di karma perché non sarebbe legato a niente.
A – Però lei parla del vivere mayahico.
R – Dobbiamo riconoscere che il Jiva non è altro che un’ombra, un riflesso, una non-realtà; per quanto possa vivere senza karma, rimane sempre nell'ambito della sua natura e della natura del mondo dei nomi e delle forme. Per quanto possa esprimere tendenze non vincolanti molto elevate, come intelligenza, amore e volontà di bene, tuttavia rimane nell’ambito della maya-avidya.
A – Dunque, possiamo parlare di trasmigrazione in riferimento a queste tendenze, istanze, direzioni energetiche qualificate?
R – È così. Prima di tutto il termine trasmigrazione è più esatto; poi quando le tendenze-desideri vengono a cessare, si risolve, altresì, la costrizione, la schiavitù e quindi la trasmigrazione dell’energia stessa. Per l’Atman non vi è ne Jiva né trasmigrazione; come per il sole non vi è né alba né tramonto.
A – Comprendo meglio il problema della trasmigrazione. Il fine è quello di dissociarsi o risolvere la subcoscienza, persino la tendenza inconscia di pensarci in termini di individuo umano?
R – Certo. E, per l’advaita, non solo di individuo umano, ma di ogni possibile espressione vitale formale, grossolana o sottile. Per l’advaita, poi, non v’è né Jiva né trasmigrazione.
Raphael
tratto da Tat Tvam Asi (pag.116)
Edizioni Asram Vidya
Che cos’è che Trasmigra
D. Si parla di reincarnazione, metempsicosi, rinascita, trasmigrazione, ma che cosa vogliono dire questi termini? E chi è che rinasce o trasmigra?
R. In tutti i Rami tradizionali si è sempre posto il problema della rinascita. La Tradizione misterica occidentale parla, appunto, di metempsicosi; quella orientale – e in essa si può includere il Buddhismo, il Taoismo e il Jainismo – di trasmigrazione o rinascita.
Il concetto di trasmigrazione, o rinascita, implica ovviamente che c’è qualcosa che va e viene, che crea movimento o cambiamento di stato. Potremmo ulteriormente chiederci: perché si trasmigra? Perché si rinasce? Questo punto è molto importante e anche molto discusso.
Prima di tutto potremmo porre il problema in termini metafisici: il “nato”, se veramente è tale, non può rinascere o venire all’esistenza, essendo un eterno presente, un assoluto o una costante; l’inesistente poi non può né nascere né esistere o essere.
Dunque, se la Costante-atman, Spirito puro, l’Assoluto in noi o il puro Essere non può né nascere, perché semplicemente è, né quindi trasmigrare perché non è soggetto a cambiamento, allora che cos’è in noi che trasmigra? E perché trasmigra e rinasce?
Per capire chi rinasce e perché, dovremo conoscere la costituzione dell’ente manifestato nei suoi componenti psicofisici; in questo modo potremo meglio affrontare l’intero problema. Come abbiamo già menzionato, secondo la Tradizione misterica occidentale, l’uomo è la sintesi di nous, psiche e soma; secondo quella Vedanta esso è la sintesi di atma, jiva e jivabhuta. Il nous, come l’atma, essendo la costante, l’immortale, il non-nato e l’assoluto in noi, non può ovviamente essere soggetto a nascita e trasmigrazione. L’immortale non può divenire mortale, né il mortale divenire immortale, dice Gaudapada nelle sue karika alla Mandukya Upanisad.
Il corpo, o i corpi dell’ente, essendo perituri come i tafani, si disintegrano, e il loro elementi ritornano al piano esistenziale da cui sono stati tratti. Non possono trasmigrare né rinascere perché, essendo dei composti, si sciolgono, si disintegrano e non lasciano dietro di sé alcuna traccia.
Il jiva, o psiché, è un riflesso coscienziale dell’atma-nous, è un raggio di pura coscienza che, per quanto semplice raggio, ha in sé volontà-essere, intelligenza-coscienza e creatività. Esso attira a sé una quantità di sostanza dai piani esistenziali dell’Essere, cerandosi i corpi di manifestazione coi quali poter esperire i vari oggetti dei sensi.
“Un eterno frammento di Me, apparso come anima vivente (jivabhuta) nel mondo dei mortali, attira a sé i [cinque] sensi e la mente (manas), come sesto organo, i quali trovano il loro fondamento in prakrti” (Bhagavadgita: XV, 7. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Asram Vidya, Roma).
Se l’atma appartiene allo stato dell’Essere, per cui essendo immortale non può trasmigrare, se il corpo appartiene alla condizione del non-essere, per cui non ha vita propria e aseità, allora l’attenzione va posta su due dati molto importanti: il riflesso-jiva-psiché e le “qualità” le quali rappresentano ol “profumo” della sostanza.
“Il ‘soffio vitale’ – scrive René Guénon parafrasando alcuni capitoli della Brhadaranyaka Upanisad, della Chandogya Upanisad e del Brahmasutra, che trattano del momento della morte – accompagnato similmente da tutte le altre funzioni e facoltà (già in esso riassorbite e non sussistendovi che come possibilità, poiché sono ormai ritornate allo stato di indifferenziazione da cui erano dovute uscire per manifestarsi effettivamente durante la vita), a sua volta, è riassorbito nell’ ’anima vivente’ (jivatma, manifestazione particolare del ‘Sé’ al centro dell’individualità umana, come precedentemente l’abbiamo spiegato, e distinguentesi dal ‘Sé’ finché questa individualità sussiste come tale, quantunque questa distinzione sia d’altronde del tutto illusoria in rapporto alla realtà assoluta, per la quale non vi è altro che il ‘Sé’); ed è appunto quest’ ’anima vivente’ (come riflesso del Sé e principio centrale dell’individualità) che governa l’insieme delle facoltà individuali (considerate nella loro integralità, e non soltanto in ciò che concerne la modalità corporea). Come i servi d’un re si riuniscono intorno a lui quando egli è in procinto d’intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e le facoltà (esterne e interne) dell’individuo si riuniscono intorno all’ ‘anima vivente’(o piuttosto proprio in essa, da cui procedono tutte e nella quale sono riassorbite) all’ultimo momento (della vita nel senso ordinario della parola, vale a dire dell’esistenza manifestata nello stato grossolano), quando quest’ ‘anima vivente’ sta per ritirarsi dalla sua forma corporea. Così, accompagnata da tutte le sue facoltà (poiché le contiene e le conserva in sé a titolo di possibilità), essa si ritira in un’essenza individuale luminosa (vale a dire nella forma sottile, assimilata a un veicolo igneo, come abbiamo spiegato a proposito di taijasa, la seconda condizione di d’Atma), che è composta dei cinque tanmatra o essenze elementari soprasensibili (come la forma corporea è composta dei cinque bhuta o elementi corporei e sensibili), in uno stato sottile (in opposizione allo stato grossolano, che è quello della manifestazione esteriore o corporea, il cui ciclo è ormai compiuto per l’individuo considerato). Per conseguenza (in virtù di questo passaggio nella forma sottile, descritta come luminosa), si dice che il ‘soffio vitale’ si ritira nella Luce intellegibile, riflesso la cui natura è in fondo la stessa di quella del ‘mentale’ durante la vita corporea, e che, d’altronde, implica come appoggio o veicolo una combinazione dei princìpi essenziali dei cinque elementi), e senza che questo ritrarsi si effettui necessariamente per una transizione immediata; infatti (per usare un paragone), si dice che un viaggiatore si reca da una città a un’altra, anche se si ferma successivamente ad una od a più città intermedie. Questo ritrarsi o quest’abbandono della forma corporea (quale fin qui è stato descritto) è d’altronde comune al popolo ignorante (avidvan) e al saggio contemplativo (vidvan), fin dove cominciano, per l’uno e per l’altro, le loro vie rispettive (e d’ora innanzi differenti)”. (R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta. Edizioni Studi Tradizionali, Torino).
D. Che cosa sono le qualità di cui abbiamo parlato?
R. Le qualità, sattva, rajas, tamas, sono stati allotropici di prakrti (sostanza-materia). Un istinto, un desiderio, una passione, ecc. sono qualità della prakrti; queste qualità si manifestano con un corpo-veicolo e, se coagulate, sopravvivono allo stesso corpo. Il profumo nell’aria permane anche quando, per esempio, un fiore è scomparso, o la boccetta del profumo si è rotta. Un piacere-dolore, determinato da un evento, permane anche quando l’evento non c’è più, è svanito.
Mentre il soma-sthulasarira o jivabhuta fornisce lo strumento del piacere-dolore o delle qualità, queste, quando sopravvivono, aderiscono a quel riflesso di coscienza che rappresenta lo sperimentatore. Diremo che: ideali, sentimenti, istinti, ecc. possono sopravvivere alla morte del corpo fisico. E poiché tali qualità appartengono alla dimensione dello psichismo, possiamo concludere che lo psichico (che non è il Sé) può sopravvivere al fisico.
D. In termini psicologici come potremmo esprimerci?
R. Un contenuto psichico cristallizzato può sopravvivere allo scioglimento del composto fisico. Il Vedanta parla, infatti, di vasana, di samskara, che rappresentano le “colorazioni”, gli “odori”, le tendenze, le predisposizioni qualitative psichiche. Queste tendenze immagazzinate nella propria spazialità e non risolte sopravvivono alla morte del corpo.
D. Come si costituiscono le vasana?
R. Quando il riflesso coscienziale esperisce e aderisce alla qualità crea una vasana, o un contenuto; diremo che l’energia si solidifica e diventa massa. È ovvio che in questa condizione lo sperimentatore diviene necessitato dal contenuto che, sempre più alimentato, diviene potente fino a dominare lo stesso sperimentatore. La potenza energetica del sogno domina il sognatore.
D. Allora perché si trasmigra?
R. Si trasmigra perché i contenuti-massa qualitativi non risolti nell’energia in qualificata chiedono espressione su quel piano esistenziale in cui possono trovare maturazione e sgravio.
D. Ma è lo stesso individuo che trasmigra?
R. Quell’individuo, con un nome e una forma, non può trasmigrare perché esso non sussiste più alla morte dei veicoli. L’io empirico è il risultato della combinazione ahamkara-veicolo; quando il veicolo sparisce l’ahamkara ritorna allo stato potenziale, c’è la persona nel suo stato sovra individuale.
Le qualità in sé non hanno nome, né il “riflesso di consapevolezza” ha nome. Le qualità si individualizzano mediante i veicoli e il “senso dell’io” (ahamkara). Un nome è l’indicazione di un complesso energetico che si è individuato, che si è determinato, che si è imposto una circonferenza.
Diremo che nella maggior parte dei casi gli individui sono solo medium passivi nelle mani di “enti-qualità” (guna) che cercano espressione o maturazione.
D. L’incarnazione è una scuola per avanzare ed evolvere verso l’atman?
R. La Tradizione unica non ha mai insegnato il concetto evoluzionistico.
Potremmo porre il problema in termini metafisici: l’Atman, o l’Essere, per il fatto che è e non diviene, non può evolvere. Le qualità non evolvono ma mutano semplicemente aspetto, il caldo e il freddo non evolvono, come non evolve l’odio e l’amore.
L’individualità, con un nome e una forma, non evolve (può trovare un eventuale adattamento), perché è la sintesi di un composto energetico che si esprime nei vari aspetti qualitativi (guna); essa nasce e muore.
D. È esatto parlare di reincarnazione?
R. Dipende dall’accezione che si vuole dare a tale parola. Diremo che il problema potrebbe essere posto in termini diversi. Se consideriamo che l’universo, o la manifestazione, è composto di tre stati o livelli vibratori, formanti comunque un’unità, allora possiamo notare che il jivatman si trova ora su uno ora su un altro livello esistenziale; i suoi sono, così, “passaggi di stato”, di condizione, e questi passaggi – possiamo chiamarli col termine trasmigrazione – sono determinati dai guna e dalle vasana individuate e cristallizzate.
Si può ancora dire che come un individuo, sospinto da certe istanze-qualità, trasmigra, per esempio, dall’Europa in America, cambiando quindi condizione di vita, così il “riflesso coscienziale”, sospinto da certe qualità, trasmigra da uno stato a un altro, o da un mondo (loka) a un altro.
In tutto questo non vi è niente di drammatico e tragico; è un evento che si svolge automaticamente (nella maggior parte degli enti), innocentemente e naturalmente.
Se l’evento è ritenuto drammatico, spesso tragico, è perché l’ente non ha la consapevolezza del processo di trasmigrazione, oppure è prigioniero del semplice timore del “cambiamento”.
D. Dunque, non è l’io di questo tempo-spazio che trasmigra?
R. L’io empirico è un semplice fenomeno correlato al tempo-spazio. L’io empirico di un determinato momento non è l’io empirico di un altro momento.
In un tempo-spazio possiamo dirci: io sono felice, in un altro tempo-spazio, che può essere susseguente a quello, possiamo dirci: io sono in conflitto. I due io non sono gli stessi, perché s’annullano nella loro contraddizione. L’io empirico è un contingente, un momento espressivo di qualità (guna).
D. Così è l’Anima che si reincarna o trasmigra?
R. Secondo la Tradizione, l’Anima stessa è un semplice riflesso dello Spirito puro o atman, ed è pur sempre un non-assoluto; essa dimora su una dimensione (taijasa superiore) che non è quella fisica densa (visva); da quella dimensione, come prima si accennava, mediante un suo raggio di Coscienza, si esteriorizza sul piano di taijasa inferiore (il piano astrale dell’Occultismo occidentale) e su quello di visva (fisico denso).
Il suo movimento (trasmigrazione) produce espressioni di qualità, cause ed effetti, se l’io empirico – correlato al fisico denso, al corpo vitale (prana) e a quello mentale – è un semplice contingente, il jivatman è relativamente persistente, sì da apparire all’io empirico come eterno.
Ma la trasmigrazione-movimento di una qualità avviene anche nella stessa incarnazione.
D. E come è possibile?
R. Per esempio, un desiderio nasce (inizio del movimento), tende verso un particolare oggetto (traiettoria del moto) e muore con la sua soddisfazione e maturazione se presupponiamo che il seme-germe (vasana-samskara) del desiderio nasce e trasmigra verso un altro oggetto per morire in esso.
Fino a quando sussiste la radice, o il germe, del desiderio, la qualità (guna) trasmigra da un oggetto a un altro, da uno spazio a un altro. E ovviamente l’io-desiderio di un momento non è l’io-desiderio di un altro momento perché l’io empirico, essendo divenire-movimento, non è una costante, in altri termini non è l’Essere, come non lo è lo stesso jivatman.
D. Questi enti-qualità cristallizzati trasmigrano là dove possono esprimersi, manifestarsi, seguendo la legge dell’attrazione-repulsione, o della sintonizzazione.
Negli stati molteplici dell’Essere vi è posto per le espressioni di tutte le possibili qualità di prakrti.
D. Per il Liberato esiste la reincarnazione?
R. Se è Liberato non può più trasmigrare; per lui ogni movimento-divenire è cessato; il Liberato è tornato nella sua vera Patria (“Il mio Regno non è di questo mondo”), e non vuole andare da nessuna parte; non avendo vasana, né qualità individuate da esprimere, non ha desiderio, non ha passato né futuro.
La trasmigrazione implica qualcosa di non compiuto, di non-pienezza, ma per chi sta fermo, come il mozzo di una ruota, non v’è più un andare e un venire, un nascere e un morire perché tali eventi appartengono a una coscienza che non ha compreso la sua stessa essenza.
Raphael
tratto da Il Sentiero della Non-Dualità (pag 95)
Edizioni Asram Vidya
Morte e Rinascita o Resurrezione
La Pasqua rappresenta un evento molto importante per il Cristianesimo. Tutta la cristianità si raccoglie nel silenzio intorno al contenuto centrale dell’esperienza pasquale.
Diciamo nel silenzio perché in tale epoca la Chiesa é in lutto: Gesù é morto, e attende il momento della rinascita, della resurrezione, della gloria. Questo evento può essere interpretato a due livelli di comprensione: l’uno prettamente cronicistico, storico, empirico e spazio-temporale; l’altro simbolico, iniziatico, esoterico. Anche altri eventi della vita di Gesù presentano i due aspetti di verità. D’altra parte, occorre riconoscere che i grandi Avatara si sono espressi a vari livelli di interpretazione. Gesù parlava anche in parabole, ma una parabola é il simbolo verbale-materiale di una verità spirituale, metafisica. Anche Platone, per mezzo del mito, voleva svelare verità ineffabili.
Che cosa può significare morte e resurrezione o rinascita sotto l'aspetto esoterico-iniziatico? Se osserviamo tutti i fenomeni della vita che ci circondano, constatiamo un grande processo di morte-rinascita: un seme nasce, fiorisce, muore dando vita a un altro seme, e così via. Anche nel nostro organismo si verifica continuamente una morte-rinascita di cellule. Tale processo, quindi, investe tutta la manifestazione poiché ciò che nasce deve necessariamente morire e, fino a quando la vita della manifestazione continuerà, dovrà anche prodursi, oltre alla morte, nuova nascita; noi diciamo: il mondo delle forme si rinnova.
Come sostiene il Vedanta, le forme appaiono, per comparire ancora in un gioco incessante di mutamento (maya). A questo fenomeno non sfugge neanche l’individualità umana: essa appare nel mondo di visva, o tridimensionale, poi scompare, e le qualità-semi (samskara) non risolte sospingono a prendere una nuova forma creando un'altra individualità.
Vi é però un ulteriore processo di morte-resurrezione che potremmo considerare di linea verticale, mentre quello precedentemente trattato lo potremmo definire di linea orizzontale. Nel verticale il processo di morte-rinascita si presenta sotto l'aspetto della trascendenza di uno stato coscienziale.
Sulla linea orizzontale un seme di fiore nasce, fiorisce, muore per dare vita ad un altro seme di fiore e non di altro; nel caso dell’individualità non risolta questa muore per ridare vita ad altre qualità individuate; diremo, il loro nascere e morire si svolge sempre lungo un preciso e identico percorso esistenziale (samsara). Sulla linea verticale, invece, si muore definitivamente lungo quel percorso per entrare in un altro completamente differente sotto ogni aspetto. L’uno é di linea retta e parallela allo stato precedente. Nel caso di Gesù notiamo che egli muore e ascende, il che implica che il suo evento appartiene a una morte-rinascita ascensiva, quindi di ordine verticale.
Se dunque dobbiamo ascendere, inevitabilmente e definitivamente dovremo morire a ciò che fino a oggi, per noi, ha rappresentato quel nascere-morire di linea orizzontale. Ciò comporta il fermarsi lungo tale linea e l’iniziare il percorso ascendente. In altri termini, occorre saper realizzare la croce. Per lo svolgimento di questo notiamo che il braccio verticale s’inserisce in un punto X del braccio orizzontale: quindi per definire il braccio verticale della croce occorre fermarsi lungo un punto del braccio orizzontale e allungarsi lungo la linea verticale ascendente. La vera morte, quella del Filosofo, avviene nel preciso punto di intersezione con la linea orizzontale, ciò implica contemporaneamente il fermarsi e l’ascendere, quindi il morire e il risorgere a una nuova espressione di vita.
Il travaglio dell’anima avviene soprattutto quando si é fermata senza ascendere: in tal modo la coscienza vive in una terra di nessuno, in una posizione di stallo, in uno stato di abulìa. Ma perché questo? perché, essendosi fermata, non segue più la linea orizzontale e, non avanzando su quella verticale, elude la chiamata.
Qualcuno, in questo stato, può avere paura della morte pur non accorgendosi che, avendo rallentato o fermato il suo peregrinare lungo la linea orizzontale, è già morto, è già un cadavere privo di interessi.
Noi, in quanto discepoli alla Liberazione, abbiamo rallentato la corsa lungo la linea orizzontale (che é quella del divenire) o, meglio, ci siamo definitivamente fermati e, conseguentemente, stiamo cercando di erigere il nostro braccio verticale, stiamo innalzando la nostra croce. Questo braccio si estende da visva-terra fino al Brahmaloka, o luogo di Brahma, oppure dal sensibile all’intelligibile. Qualcuno può anche fermarsi lungo tale linea verticale e incrociare quella orizzontale; la manifestazione offre, oltre che indefiniti stati di coscienza, molteplici piani di manifestazione. Qualche altro può proseguire fino alla completa soluzione di tutti gli stati di conoscenza, e quindi di tutti i piani di manifestazione, avendo riconosciuto che i piani-mondi non sono, come afferma l’Upanisad, che semplice karma accumulato. “Si diventa ciò che si pensa” nel cuore; se “pensiamo” di essere l’Essere supremo saremo l’Essere, perché in potenza già lo siamo; se pensiamo di essere umani individuati saremo tali, ecc. La potenza del pensiero-cuore ci offre le ali per volare negli svariati mondi-loka, grossolani o sottili; o, ancora , per uscire e ascendere completamente verso Dio non qualificato e senza forma. E quest’ultimo evento rappresenta la vera, autentica e ultima morte-resurrezione.
Per noi, discepoli avanzati, non v’é altro tipo di morte, avendo già sperimentato e, si suppone, superato le altre morti. L’insegnamento Vedanta, come la tradizione metafisica occidentale, tende a tale trasfigurazione perché riconosce in perfetta consapevolezza che tutte le possibili esperienze, gratificanti o no, sul piano del relativo e del divenire, non sono altro che nebbie colorate che offuscano la vera pienezza dell’essere.
Ma é anche vero che per questo tipo d’Insegnamento occorrono qualificazioni adeguate, maturità psicologica e, soprattutto, maturità psicologica e, soprattutto, maturità coscienziale.
La Pasqua per gli Ebrei era rappresentata dalla loro uscita dall’Egitto per la
terra promessa, per Gesù dalla morte della forma e dall'ascensione al cielo o al Dio-Persona, per noi dovrebbe essere un morire-trascendere ogni stato condizionato e il risorgere nel mondo dell’Uno-Uno platonico o Brahman nirguna del Vedanta advaita.
Raphael
tratto da Fuoco dei Filosofi (pag 97)
Edizioni Asram Vidya
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