Il Centro Paradesha come già avvenuto in precedenza, vuole offrire ai suoi lettori la riflessione di Vittorio Gallese, uno studioso che insieme al team che si è riunito sotto il Prof. Rizzolatti nell’Università di Parma, ha scoperto alla fine degli anni Novanta, i “neuroni specchio” (mirror neurons), i quali si attivano ogni volta che ci troviamo in presenza di individui che eseguono azioni finalizzate a uno scopo, ma anche in presenza di suoni (di cui riconosciamo il significato) o immagini, permettendoci così di cogliere per empatia, il senso di quell’esperienza di cui siamo testimoni; anche se vi partecipiamo di riflesso.
Si tratta di studi che stanno in opposizione al precedente paradigma cognitivista, per il quale la mente umana è considerata funzionare al pari di un software informatico, attraverso processi computazionali seriali e lineari; algoritmi che potevano caratterizzare parimenti una persona piuttosto che una macchina. Per questa visione difatti, il fatto che la mente sia “incarnata” in un corpo, è una questione secondaria, ininfluente. Esso non ha un ruolo nella significazione della realtà e dell’esperienza.
Le scoperte del Prof. Gallese, restituiscono invece alla mente il suo ruolo di “parte” di un meccanismo molto più complesso che è quello di essere uomini e che in quanto tale, tiene conto del corpo, del ruolo delle emozioni, della mutua interazione che esiste tra simili e dei contesti culturali e sociali, entro i quali l’individuo opera. Si tratta di una visione organica dell’esistenza, che non concepisce divisioni e che avrà importati ripercussioni, su aspetti della dimensione umana che hanno a che fare con l’apprendimento, l’imitazione, l’identificazione con l’altro. Tramite questo paradigma si potrà comprendere meglio il ruolo che certe tecniche magiche di immedesimazione, bollate come superstizioni, hanno avuto sullo sviluppo interiore dell’individuo e il ruolo al contrario, che certi tipi di contenuti mediatici, hanno scientemente svolto nella disumanizzazione dello stesso.
Infine è interessante far notare, che queste scoperte hanno in un qualche modo obbligato diverse discipline scientifiche come la Linguistica, la Psicologia, la Filosofia, le Neuroscienze, gli studi sull’Intelligenza Artificiale, a convergere su uno stesso terreno epistemologico. Il che ancora una volta sta a testimoniare, che la via della conoscenza impone unità a qualunque grado e livello, questa si presenti.
il Centro Paradesha
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Dai neuroni specchio, alla consonanza intenzionale.
Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività.
Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori per avermi concesso l’onore ed il privilegio di partecipare alla giornata conclusiva di un convegno che ha luogo in occasione di un anniversario importante per la vostra disciplina e la vostra società e, più in generale, per tutti coloro che sono interessati a chiarire aspetti importanti della natura umana.
Come titolava Newsweek agli inizi di quest’anno, Freud non è morto, e sicuramente non è morta la ricerca delle origini e del modo di declinarsi della natura umana. Una natura che ha un aspetto paradossale, l’essere da un lato strettamente legata ad un percorso evolutivo di continuità, marcando contemporaneamente un’incommensurabile e radicale unicità. Un’unicità che possiamo vedere sotto molto punti di vista, ad esempio secondo la prospettiva dell’antropologia filosofica di Plessner (1927/2006), che definisce la peculiarità della condizione umana nella sua posizione di eccentricità. Cioè la possibilità che, unici tra le specie viventi, abbiamo di rapportarci a noi stessi da una prospettiva “da dietro le spalle”, come dice Plessner.
Vorrei partire da alcuni risultati della ricerca neuroscientifica che il nostro e altri gruppi hanno condotto negli ultimi quindici anni. Credo che possano offrire spunti interessanti sulla nostra comprensione dei meccanismi che sottendono le relazioni interpersonali, e quindi anche per una riflessione in ambito psicoanalitico. Francesco Petrarca, in cui vediamo emergere la voce della soggettività, scrive: “Altro schermo non trovo che mi scampi/ dal manifesto accorger de le genti/ perché negli atti di allegrezza spenti/ di fuor si legge come io dentro avvampi” (1). C’è una qualità della nostra vita interiore, una dimensione fenomenica che si manifesta esteriormente e che l'occhio dell’osservatore, in maniera più o meno accurata, può leggere e comprendere. Nel corso della storia del pensiero umano ci sono stati vari tentativi di definire le modalità di questo trasferimento di significato che è antepredicativo, pre-verbale, implicito. Una chiave di lettura ci può venire, ad esempio, da un passo come questo, tratto da “Aurora” di Nietzche, dove il filosofo Tedesco scrive: “Per comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere, fa sgorgare dei sentimenti in noi analoghi, in virtù di un'antica associazione tra movimento e sensazione”. I neuroni specchio, da un certo punto di vista, esemplificano questa relazione tra movimento e sensazione.
Un altro contributo fondamentale, è quello della fenomenologia. Husserl è un autore complesso, di cui molti hanno criticato il solipsismo trascendentale, sottolineandone gli aspetti cartesiani. Ma soprattutto nella fase conclusiva del suo pensiero emerge sempre più evidente l’esigenza di comprendere la dimensione intersoggettiva, sottolineandone la centralità nella definizione della soggettività cosciente. Particolarmente interessante è il concetto husserliano di “paarung”, secondo cui l’altro è compreso grazie ad un primitivo olistico processo di accoppiamento.
Mi sembra un buon punto di partenza per inquadrare la dimensione implicita della capacità intersoggettiva di trasferire significati da una persona all'altra utilizzando il corpo come veicolo di questo trasferimento, sia dal punto di vista dell’espressione del significato, che da quello della capacità di decodificarlo quando ne siamo spettatori. In ambito fenomenologico viene sottolineata la cruciale dimensione dell’intersoggettività nella costruzione della soggettività; il che non significa che la soggettività non abbia una sua dimensione pregnante, fondante, importantissima. Sono due dimensioni complementari, ma se lasciamo fuori l’intersoggettività, rischiamo di approdare all’immagine della mente e dello psichismo che ha prevalso e caratterizzato le scienze cognitive nel corso degli ultimi 50 anni, quella cioè che reifica il corpo.
Corpo, invece, che è l’origine pre-logica e ante-predicativa della nostra capacità di comprensione, “carne del mondo”, come scrive Merleau-Ponty (1996, 1999), sottolineando la centralità dell’empatia nel farsi dell’esperienza del mondo. L’Einhfulung, l’empatia, viene vista anche da Sigmund Freud come un fondamentale meccanismo di trasferimento di significato interindividuale. Nel 1921 Freud scrive: “Una via conduce dall'identificazione, attraverso l’imitazione, all’empatia, cioè alla comprensione dei meccanismi mediante i quali ci è consentito assumere un qualsivoglia atteggiamento nei confronti della vita mentale altrui”. E ancora più avanti nel 1926 scrive: “È solo per mezzo dell’empatia che siamo in grado di conoscere l’esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra”. Il che non significa, ovviamente, che l'empatia sia necessariamente lo strumento principale del rapporto analitico, ma mi sembra significativo che Freud, in più punti dei suoi scritti, fermi la sua attenzione su questa modalità particolare di trasferimento di significato interindividuale.
Veniamo ora al mio ruolo specifico che è quello di neurofisiologo, cioè di chi studia il funzionamento del sistema nervoso centrale, cercando di utilizzare un livello di descrizione riduzionista, per comprendere aspetti che normalmente spieghiamo ed interpretiamo con altri linguaggi e altri livelli di descrizione. Credo si renda necessaria una premessa: un neurone – il nostro oggetto di studio – non è un soggetto epistemico. Un neurone è una “macchina” che genera delle tensioni, dei voltaggi. L’unica cosa che un neurone verosimilmente conosce del mondo esterno, è una manciata di ioni come potassio, sodio, calcio, cloro, ecc., che incessantemente escono ed entrano dai canali che ne attraversano la membrana. Non c’è nulla di intrinsecamente intenzionale nel funzionamento di un neurone. Ma questo neurone non è contenuto in una scatola magica, è contenuto in un organo – il cervello – che è legato, vincolato, cresce e si sviluppa in parallelo ad un corpo, attraverso il quale ha accesso al mondo esterno. Il cervello che studiamo non è quindi quello degli esperimenti “pensati” dalla filosofia analitica, il cervello nel vaso (“brain in a vat”), per così dire, ma è un organo legato ad un corpo che agisce, che si muove, che patisce nel suo continuo interscambio con il mondo.
Dal mio punto di vista la dimensione interpersonale è quindi fondamentale per capire che cosa succede all’interno del nostro sistema nervoso centrale quando entriamo nel dominio dell’intelligenza sociale. Ma, vi dicevo, il paradigma con cui ancora ci si confronta, è quello della scienza cognitiva classica, che ha completamente reificato la dimensione corporea dello psichismo e dei processi cognitivi, e soprattutto, ha concentrato ogni sforzo nell’enucleazione di regole formali che strutturerebbero il funzionamento del nostro apparato cognitivo. Lo ha fatto iscrivendolo in una realtà solipsistica, dimenticando completamente l’influenza dell'interscambio, dell’intersoggettività, nel costruirsi, svilupparsi e consolidarsi delle supposte architetture computazionali che il cognitivismo classico ha fatto oggetto del proprio studio. Si è molto meno indagato, da un punto di vista empirico, sul senso d’identità e reciprocità di cui comunemente facciamo esperienza ogni volta che entriamo in contatto con i nostri simili. Il nostro approccio, così come quello di molti altri gruppi nell’ambito delle neuroscienze cognitive, propone una strategia radicalmente diversa. Un approccio “bottom-up”, che parte dal basso scegliendo come oggetto di studio i contenuti non proposizionali della cognizione sociale.
Partiamo da un dato di fatto: in condizioni normali non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dai nostri simili, in quanto godiamo di quella che definisco una “consonanza intenzionale” col mondo degli altri (Gallese 2003, 2006a, 2007). Ciò è reso possibile non solo dal fatto che con gli altri condividiamo le modalità di azioni, sensazioni o emozioni, ma anche perché – questo è il dato nuovo emerso con la scoperta dei neuroni specchio – condividiamo alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni. Quando ci troviamo di fronte all'altro ne esperiamo direttamente l’umanità. Assegniamo implicitamente all’altro lo status di “alter ego”, di altra soggettività che guardando a sé da dietro le spalle condivide con noi l’umana posizione di eccentricità. Tutto ciò non richiede un’esplicita spiegazione razionale, una logica applicata post-hoc ai dati registrati dai nostri sensi. Grazie ai meccanismi di rispecchiamento e simulazione, l’altro è vissuto come un “altro sé”. Vediamo ora come siamo arrivati a determinare l’esistenza di questi meccanismi cruciali per la comprensione dell’intersoggettività. Circa quindici anni fa abbiamo scoperto neuroni nella corteccia premotoria del macaco che scaricano ogni volta che l'animale esegue con la mano o con la bocca atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come afferrare, prendere del cibo, manipolarlo, romperlo, spezzarlo, ed anche quando l'animale è lo spettatore passivo di azioni analoghe eseguite da un essere umano o da un'altra scimmia. Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni specchio” (Gallese et al 1996; Rizzolatti et al. 1996; Rizzolatti e Craighero 2004).
In una serie di studi successivi abbiamo approfondito la nostra conoscenza di questo meccanismo di risonanza motoria, scoprendo ad esempio, che i neuroni specchio si attivano anche quando l’osservazione dell’interazione tra la mano dell’attore e l’oggetto non è pienamente visibile, ma può solo essere “inferita” (Umiltà et al. 2001). Solo che in questo caso non parliamo di un’inferenza logica, bensì del risultato di una simulazione motoria. L’attivazione nell’osservatore del programma motorio corrispondente all’azione solo parzialmente vista, ne consente la comprensione. Abbiamo anche scoperto che se l'azione si accompagna ad un suono caratteristico, come quando si rompe una nocciolina, il solo suono dell'azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio (Kohler et al 2002). Quindi, lo stesso contenuto semantico, “rompere la nocciolina”, attiva i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. È un meccanismo che incarna a suo modo una rappresentazione astratta dell’azione, che però è tutto fuorché astratta perché incarnata all’interno del nostro sistema motorio.
Una serie di studi hanno dimostrato che un meccanismo analogo di rispecchiamento è presente anche nel cervello umano, ed è organizzato in modo grossolanamente somatotopico. Quando osserviamo azioni eseguite da altri con la bocca, la mano, o il piede, attiviamo regioni del nostro sistema motorio fronto-parietale corrispondenti a quelle che entrano in gioco quando noi stessi eseguiamo azioni simili a quelle che stiamo osservando. Non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Rizzolatti e Craighero 2004).
Cosa succede nel nostro cervello quando osserviamo i gesti comunicativi di una persona che parla, di una scimmia che comunica con il lipsmaking (ritmica apertura delle labbra, un gesto affiliativo che sta ad indicare ai conspecifici l’assenza di intenzioni aggressive), e di un cane che abbaia? La risposta ci viene da un studio fMRI condotto da Buccino et al. (2004a). I risultati sono molto interessanti: quando vediamo l’uomo parlare si osserva un’attivazione bilaterale del sistema pre-motorio che include l’area di Broca; quando vediamo la scimmia si osserva un'attivazione premotoria bilaterale di intensità ridotta; infine, quando vediamo il cane abbaiare si ha un’assenza completa di attivazione motoria.
I risultati di questo esperimento ci dicono due cose: Primo, che non è necessaria una risonanza motoria per comprendere ciò che vediamo: io so benissimo che c'è un cane che abbaia, ma la qualità della mia comprensione dell’abbaiare del cane è molto diversa dalla qualità del mio comprendere che c’è un uomo che parla. Questa diversità è molto ben evidenziata da Edith Stein (1916/1989), che nel libro sull'empatia scrive: “Riferendosi all’osservazione di azioni animali, posso per esempio entro-sentire un dolore, quando l’animale viene colpito e ad esempio sta soffrendo. Ma altre cose, certe sue posizioni, certi suoi movimenti, mi sono date solo come rappresentazioni vuote, senza la possibilità di un riempimento. Quanto più mi allontano dal tipo uomo, tanto più piccola diventa questa possibilità di riempimento”. Secondo la mia ipotesi, questo “riempimento” esperienziale è precisamente il risultato dell’attivazione della simulazione incarnata, del meccanismo cioè sostenuto dai neuroni specchio. Grazie alla simulazione incarnata ho la capacità di riconoscere in quello che vedo qualcosa con cui “risuono”, di cui mi approprio esperienzialmente, che posso fare mio. Il significato delle esperienze altrui è compreso non in virtù di una spiegazione, ma grazie ad una comprensione diretta, per così dire, dall’interno.
Recentemente è stato dimostrato che il sistema dei neuroni specchio è alla base non solo della capacità di riconoscere e comprendere le azioni altrui, ma anche le intenzioni che le hanno promosse (Fogassi et al. 2005; Iacoboni et al. 2005). Altri studi inoltre suggeriscono che il sistema dei neuroni specchio sia non solo coinvolto nella comprensione del significato delle azioni osservate, ma si attivi anche durante la comprensione di espressioni linguistiche descriventi le stesse azioni (vedi Gallese 2007). Infine, numerosi studi attestano il ruolo della simulazione motoria anche nella lettura della finzione narrativa, tanto che Amy Coplan (2004) ha scritto: “L’assunzione di una prospettiva empatica è una parte usuale del coinvolgimento del lettore con la finzione narrativa”. L’immagine del linguaggio che i risultati di queste ricerche ci consegnano è molto diversa da quella, ancora dominante, di un sistema linguistico modulare chiuso, indipendente e disincarnato, che manipola rappresentazioni simboliche amodali.
L’azione ed il linguaggio tuttavia non esauriscono il ricco bagaglio di esperienze coinvolte nelle relazioni interpersonali. Ogni relazione interpersonale implica, infatti, la condivisione di una molteplicità di stati quali ad esempio l’esperienza di emozioni e sensazioni. Recenti evidenze empiriche suggeriscono che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni esperite in prima persona sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006a). Il meccanismo di simulazione non è quindi confinato al dominio dell’azione ma appare essere una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsivoglia relazione interpersonale.
La scoperta dei neuroni specchio nella corteccia premotoria e parietale di scimmia, e la successiva scoperta dell’esistenza di un sistema specchio anche nell’uomo, ha permesso per la prima volta di chiarire i meccanismi neurofisiologici alla base di numerosi aspetti della cognizione sociale. Dobbiamo però aggiungere che i risultati di tutti questi studi di brain imaging condotti sull’uomo si riferiscono a profili di attivazione cerebrali calcolati statisticamente su di una media di cervelli appartenenti a persone diverse con storie di vita personali diverse. Stiamo cioè muovendo i primi passi, ancora abbastanza grossolani, in questa affascinante esplorazione. La ricerca neuroscientifica nell’immediato futuro dovrà sempre più concentrarsi sugli aspetti in prima persona dell’esperienza umana e cercare di studiare meglio le caratteristiche personali dei singoli soggetti d’esperienza. Ciò che ci rende chi siamo non è solo il possesso di meccanismi nervosi condivisi, ma anche un percorso storico individuale fatto di esperienze soggettive uniche e particolari. Questa dimensione storica dell’esserci nel mondo, per usare un’espressione heideggeriana, è fino ad ora rimasta in gran parte inesplorata dalla ricerca neuroscientifica.
Una delle sfide future sarà quindi quella di passare dalla “medietà normativa” delle caratteristiche d’attivazione di un supposto cervello medio appartenente ad un altrettanto ipotetico uomo medio, ad un approfondito studio di come le caratteristiche individuali dell’esperienza di vita si traducano in caratteristici ed – almeno in parte – idiosincratici profili d’attivazione corticale, e come questi meccanismi siano alla base del peculiare modo di esperire il mondo degli altri proprio di ognuno di noi. Dovremo passare cioè dallo studio della mente umana allo studio delle menti umane.
Il mio modello unifica diversi meccanismi neuronali di rispecchiamento e simulazione che non attengono solo al dominio dell’azione, ma come abbiamo visto anche a quello delle emozioni o delle sensazioni. Tutto ciò potrebbe essersi evoluto filogeneticamente in relazione all’ottimizzazione del controllo delle relazioni corporee con il mondo, e successivamente essere stato “exaptato” in ambito sociale, in quanto rivelatosi utile anche per interpretare il comportamento altrui, mediante l’utilizzazione di un canale interpersonale diretto, non esplicitamente rappresentato alla coscienza o mediato cognitivamente (2). Secondo la mia ipotesi (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2001, 2003, 2006a, 2007), questi meccanismi generano molte delle certezze implicite che noi automaticamente attiviamo ogni volta che ci rapportiamo con l’altro. Sono importanti nel generare il senso di identità e reciprocità con gli altri di cui normalmente facciamo esperienza. Questi meccanismi di simulazione sono fortemente coinvolti nell'imitazione. Sia nell’imitazione di gesti che sono già parte del nostro repertorio comportamentale, che durante l'apprendimento imitativo di nuovi compiti motori a noi sconosciuti, come dimostrato dallo studio di Buccino et al. (2004b) in cui soggetti che non sapevano suonare la chitarra dovevano imparare ad eseguire degli accordi dopo averne osservato l’esecuzione da parte di un chitarrista esperto. Durante l’apprendimento imitativo si è osservata l’attivazione del sistema dei neuroni specchio.
Il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell’esistenza umana, e lo fa a più livelli. Ad esempio, la psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto “effetto camaleonte” (Chartrand e Bargh 1997; vedi anche Niedenthal et al. 2005). Mimiamo inconsapevolmente il comportamento non verbale altrui; ci piace di più chi ci imita; il mimarsi reciproco incrementa quanto più personale è la relazione con l’altro; il mimarsi reciproco incrementa quando abbiamo lo scopo di affiliare qualcun altro; dopo un fallimento nell'affiliare qualcuno, al tentativo successivo, cerchiamo di imitarlo di più, e potremmo continuare con ulteriori esempi (vedi Ferguson e Bargh 2004). Il mimetismo è quindi uno strumento fondamentale nella costruzione del gradimento sociale. E risulta essere uno strumento importante anche nella costruzione di stereotipi cognitivi. Un esperimento ha esplorato il ruolo del mimetismo cognitivo nell’espressione delle competenze di cultura generale, chiedendo a soggetti volontari adulti sani di rispondere alle domande di cultura generale del gioco di società “Trivial Pursuit” (vedi Ferguson e Bargh 2004). I soggetti che prima di essere sottoposti alle domande erano stati impegnati per trenta minuti a leggere articoli sugli Hooligans hanno mostrato performances significativamente inferiori rispetto a soggetti che per trenta minuti avevano letto narrative su scienziati o scrittori. Se – grazie alla simulazione – entriamo anche solo per mezz'ora nel framing cognitivo di un Hooligan, il nostro preesistente bagaglio culturale produce una performance più scadente rispetto a quando entriamo per un periodo equivalente nel framing cognitivo di un intellettuale.
Questi meccanismi di mimetismo sociale agiscono a più livelli diversi. A questo proposito non si può non ricordare la prospettiva di René Girard (1992, 1996), secondo cui il desiderio dell’oggetto è guidato dalla rivalità mimetica, cioè dalla convergenza dell’azione di più agenti sullo stesso oggetto, che non è desiderato per le sue qualità intrinseche, o in virtù di una scelta cosciente e consapevole del soggetto, ma per pura imitazione del desiderio altrui. Il girardiano mimetismo di appropriazione appare singolarmente anticipare a livello teorico alcuni recenti risultati della ricerca empirica in psicologia comparata. Il quesito circa il possesso da parte dei più evoluti tra i primati non umani, gli scimpanzé, di una teoria della mente, che per anni ha acceso roventi polemiche, oggi trova riposte molto diverse da quelle proposte da primatologi come Dan Povinelli (Povinelli et al. 2000), strenuamente volti a relegare il mondo cognitivo dei primati non umani ad un cieco comportamentismo sociale. Tomasello e collaboratori (Tomasello et al. 2005) hanno infatti recentemente dimostrato che lo scimpanzé può superare un test volto a indagare le capacità di mentalizzazione, se lo stesso test viene svolto in un contesto competitivo, ma non lo supera se lo stesso test viene svolto in un contesto collaborativo, cosa invece perfettamente alla portata di un cane. Ciò significa che la qualità della relazione sociale influenza la performance nell’attribuzione ad altri di stati mentali. Il tempo limitato ci impedisce di approfondire gli aspetti narcisistici insiti nell’affermare la discontinuità evolutiva, lo iato rappresentato dalla singolarità cognitiva dell’essere umano, vista come totalmente “altra” rispetto al mondo animale (vedi Gallese ed Umiltà 2006; Gallese 2007).
I meccanismi di simulazione ci forniscono uno strumento per condividere a livello esperienziale gli stati mentali altrui. Da un certo punto di vista, la simulazione incarnata può essere considerata come il correlato funzionale dell’empatia (3). Una serie di nuovi studi sembra mostrare come molti di questi meccanismi appaiano perturbati nell'autismo infantile (4) (per una rassegna, vedi Gallese 2003, 2006 a,b). Siamo ancora molto lontani da poter affermare, come taluni forse prematuramente già fanno, che i neuroni specchio consentano di spiegare in modo esaustivo l'autismo infantile. Il carattere preliminare di questi risultati, unitamente al notevole polimorfismo clinico caratterizzante la sindrome dello spettro autistico richiedono grande cautela. È tuttavia evidente che si sta aprendo una nuova prospettiva, un nuovo percorso d’indagine scientifica della dimensione autistica che c’induce a considerare l'autismo non più come difetto di un supposto (ma verosimilmente inesistente) modulo della teoria della mente, ma soprattutto come disturbo della consonanza intenzionale, dovuto ad un malfunzionamento e/o ad una sregolazione dei meccanismi di rispecchiamento sostenuti dalla simulazione incarnata (Gallese 2003, 2006 a,b). La scoperta dei neuroni specchio genera inoltre interessanti implicazioni per la teoria psicoanalitica e per la pratica psicoterapeutica. Motivi di concisione mi impediscono di esaminarle qui una per una. Rimando chi avrà la curiosità di saperne di più, ad un recente articolo scritto con Paolo Migone e Morris Eagle (Gallese, Migone, Eagle, 2006).
Più in generale, credo che la scoperta dei neuroni specchio ed il conseguente cambiamento di paradigma nella ricerca neurocognitiva dell’intersoggettività da essa generato, permettano di guardare con cauto ottimismo al progetto di naturalizzazione – al livello di descrizione sub-personale – dell’intersoggettività. La consonanza intenzionale generata dai processi di simulazione incarnata è consustanziale al rapporto di reciprocità dinamica che sempre s’instaura tra il polo soggettivo e quello oggettivo della relazione interpersonale. L’intersoggettività diviene così “ontologicamente” il fondamento della condizione umana, in cui la reciprocità definisce in modo fondativo l’esistenza. Per terminare questa relazione non so trovare parole migliori di quelle di Helmuth Plessner, che ne “I Gradi dell’Organico. La condizione Umana” (1928/2006, p. 325), scrisse: “A ogni realizzazione di un io, di una persona in un singolo corpo, è premessa la sfera del tu, del lui, del noi. […] Che il singolo uomo finisca, per così dire, nell’idea di non essere solo e di non essere soltanto una cosa, bensì di avere come compagni altri esseri senzienti come lui, non ha come base un atto speciale, quello di proiettare la propria forma di vita verso l’esterno, ma appartiene ai presupposti della sfera dell’esistenza umana”.
Vittorio Gallese
tratto www.unipr.it/arpa/mirror/english/staff/gallese.htm
pagina Web del prof. Vittorio Gallese
Autore: Vittorio Gallese, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma
Articolo pubblicato su: Rivista di Psicoanalisi, 2007, LIII, 1, 197-208.
Note dell’autore al testo:
(1) Devo questa citazione alla Prof. Fiorenza Toccafondi.
(2) Ciò non significa che questi meccanismi non possano essere modulati dall’alto, cioè da aspetti cognitivi, o comunque dal filtro vitale e storicizzato della personalità del singolo.
(3) La relazione tra empatia, simulazione e neuroni specchio da una parte, ed il rapporto con l’uso psicoanalitico della nozione di empatia, dall’altro, richiederebbero una trattazione approfondita che qui c’è preclusa per motivi di spazio. A proposito del secondo aspetto – empatia e psicoanalisi – mi limito a segnalare i recenti contributi di Stefano Bolognini (2002), di Anna Carusi (2003) e Manlio Iofrida (2006).
(4) Gli aspetti autistici dell’esperienza intersoggettiva schizofrenica, ed in particolare l’esperienza schizofrenica caratterizzata da quello che Minkowski (1927/1998) definiva “autismo povero”, meritano di essere indagati secondo un’analoga prospettiva neuro-funzionale (Gallese 2003).
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