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611. Non siamo nati egoisti di Antonio Galdo

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Anch’io sono cresciuto con il gene dell’egoismo. Mia madre, infaticabile domatrice di quattro figli maschi, ci radunava a tavola sgolandosi con il rito dell’appello. “È pronto, è pronto …” ripeteva. Ma ognuno di noi, a turno, era sempre indaffarato in un altrove, assente ingiustificato, come se la sola idea di stare insieme dovesse allontanarci invece di unirci. A quel punto l’indisciplina familiare veniva punita con la pena capitale: il rischio di restare senza piatto di pasta al dente che pure ci toccava. All’egoismo infantile dei figli disobbedienti, infatti, mia madre reagiva distillando a sua volta una goccia di egoismo ereditario, quello scolpito dalle parole di sua mamma che, all’epoca, di figli a pranzo e cena ne doveva radunare ben nove: “Anche vostra nonna faceva fatica a metterci a tavola. Quelli che arrivavano in tempo erano subito avvisati: mangiate quanto volete, e pensate ai presenti, non gli assenti. Siamo stati cresciuti con questa regola, e adesso tocca a voi …”. Così a casa mia la liturgia del pranzo in famiglia è stata per anni una piccola palestra di egoismo, a spese di chi doveva rinunciare agli spaghetti mentre il fratello aveva divorato, in tutta fretta, una doppia razione.
Eppure è stata sempre lei, mia madre, a trasmettere nel silenzio delle sue scelte di vita la componente genetica della natura umana che contrasta, in una misteriosa e oscura lotta, l’egoismo: l’altruismo. Quando si è sposata le mancava un solo esame per la laurea in Legge, e il suo desiderio era di diventare avvocato, notaio o magistrato. Lavorare, insomma. Invece mia madre rinunciò agli studi e decise, senza mai lamentarsi per questa scelta, di dedicarsi solo ai figli, al marito, alla famiglia. Agli altri più prossimi, costruendo così una sua realizzazione di donna come riflesso delle persone che non ha mai smesso di amare. La serenità, il successo, la gioia: tutto le arrivava da una rinuncia dell’io e da un investimento sull’altro, il noi della sua famiglia.
Mi sono sempre chiesto come fosse possibile concentrare nella stessa persona, con tanta limpidezza e senza dissimulazioni, due energie così opposte, e non ho mai smesso di considerare mia madre un’eccezione, una rarità della specie umana, convinto che egoisti si nasce e si muore, mentre altruisti, semmai, si diventa.
Non la pensa così il professor Reut Avinun, responsabile del dipartimento di Neurobiologia della Hebrew University di Gerusalemme, autore con un gruppo di psicologi israeliani di una ricerca, pubblicata nel settembre del 2011 sulla rivista scientifica “PLoS One”, che interpreta diversamente la genesi dei nostri comportamenti e la possibilità che abbiamo di orientarli in direzioni opposte. Secondo Avinun disponiamo di un “gene altruista”, con tanto di etichetta, AVPRIA, che regola un ormone nel nostro cervello attraverso il quale a ogni gesto di altruismo corrisponde una sensazione di benessere fisico e persino di gioia. Dunque mia madre, secondo il professor Avinun, quando ha deciso di impostare la sua vita sugli altri – appena cinque persone, quattro figli e un marito – , non è stata un’eroina o una donna di altri tempi; piuttosto ha conquistato sul campo della dura vita quotidiana lo scalpo della sua felicità.
Il professor Avinun è arrivato a queste conclusioni, nel suo laboratorio a Gerusalemme, dopo una serie di test, molto semplici ma altrettanto efficaci, su 136 bambini messi alla prova della scelta fra egoismo e altruismo. Uno alla volta, ognuno di loro è entrato in una stanza, attrezzata come l’aula di un asilo, dove ha trovato giocattoli e stickers e ha ascoltato l’invito dell’istruttore: “Puoi tenerli tutti per te, oppure donarne qualcuno a un altro bambino che non ne ha”. A quel punto il bambino, senza né vedere né conoscere il coetaneo, possibile destinatario del suo gesto, ha dovuto fare uno sforzo d’immaginazione: riconoscere un altro, un noi, rinunciando a un pezzo di se stesso, un io. Al termine dei test, ripetuti a distanza di mesi, la conclusione è stata la seguente: più dei due terzi dei bambini, senza distinzione tra maschi e femmine, hanno deciso di lasciare qualche giocattolo e qualche adesivo colorato ai compagni invisibili. E lo avrebbero fatto mossi da un istinto naturale all’altruismo, che risiede appunto nel gene AVPRIA, senza alcuna sollecitazione esterna, senza una particolare educazione ricevuta in famiglia oppure a scuola. E quando gli psicologi guidati da Avinun hanno domandato le motivazioni del gesto, la risposta più frequente è stata: “L’ho fatto perché mi sento più felice”. Da qui un altro passaggio in laboratorio e un’ulteriore, sorprendente congettura sul meccanismo di funzionamento del gene AVPRIA. La risonanza magnetica sull’attività cerebrale dei bambini altruisti avrebbe infatti consentito agli scienziati israeliani di osservare come a ogni loro atto di generosità il “gene dell’altruismo” reagisca rilasciando neurotrasmettitori come la dopamina, associati a sentimenti positivi. Da qui la sensazione di benessere fisico e di felicità. E da qui, secondo Avinun, la certezza che il nostro dna contenga la generosità, al contrario dell’egoismo che invece si manifesta attraverso una variazione genetica.

Il gene dell’altruismo

È sempre bene diffidare delle semplificazioni affermate attraverso gli esperimenti della psicologia evoluzionistica, ma la ricerca di Avinun, a ogni modo, ben si armonizza con altre indagini in corso in diverse discipline. La linea di confine tra l’altruismo e l’egoismo, che l’uomo attraversa nel corso di tutta la sua vita, è diventata da molto tempo l’oggetto principale di una serie di ricerche che comprendono sempre più punti di osservazione. È come se la comunità scientifica internazionale avesse stabilito di sciogliere un enigma decisivo per capire le leve dell’azione umana, per declinarle secondo un nuovo paradigma: il noi al posto dell’io. Gli ambiti degli studi si sono moltiplicati e intrecciati, dall’antropologia alla neurobiologia, dalla genetica alla psicologia. Fino alla robotica evolutiva. Dario Floreano, friulano, direttore del Laboratorio di sistemi intelligenti all’Ècole Polytechnique Fèdèrale di Losanne, punta a un risultato molto ambizioso: far evolvere i robot, che non hanno carne, ossa, cervello e cuore, ma solo un corpo meccanico, nella direzione dell’altruismo. Lavorando su software e circuiti che ricevono informazioni sensoriali, cioè il loro sistema nervoso, Floreano simula l’evoluzione biologica dell’uomo e progetta robot che, cooperando, funzionano meglio. Insieme, per esempio, imparano a spostarsi con una videocamera, e non è un dettaglio, perché significa che la macchina non si lancia più a rotta di collo contro i muri, ma semmai li schiva. La velocità rallenta, le mosse diventano meno goffe, i risultati migliorano. E la Protezione civile svizzera pensa di utilizzare i robot altruisti di Floreano in modo che, una volta lanciati in aria dai soccorritori, insieme creino dei ponti radio dinamici per garantire una migliore copertura del territorio. “Con questo tipo di evoluzione, siamo riusciti a concepire un sistema di controllo che finora era impensabile” dice Floreano, che ha visto le sue ricerche sull’altruismo dei robot pubblicare su “Technology Review”, la rivista del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. E la prossima tappa? “Stiamo studiando robot capaci di navigare nelle città, schivando gli edifici, localizzando le persone e atterrando in modo ordinato e composto sulle strade. E occupandoci di macchine artificiali, programmando robot in grado di aiutarsi l’uno con l’altro e sempre con migliori risultati, stiamo anche fornendo una risposta a un comportamento, quello dell’altruismo, che la scienza aveva piuttosto oscurato. Quanto più si collabora tanto più migliora la qualità della vita, più si sta insieme e meglio si evolve. E questo vale per i robot come per gli uomini”.

Che cosa insegnano i bambini

Michael Tomasello, psicologo americano, direttore dell’istituto di Antropologia evolutiva a Lipsia, esamina da tempo, con esperimenti in laboratorio come quelli di Avinun e Floreano, le forme primordiali di collaborazione tra gli uomini e ha pubblicato un libro che contiene la sintesi delle sue ricerche, dal titolo Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli. Dice Tomasello: “Noi siamo programmati per aiutarci, per essere utili agli altri senza avere necessariamente delle contropartite. L’Homo sapiens nasce cooperativo come dimostra il fatto che i bambini sono altruisti di natura, poi crescendo questo istinto si fa più selettivo e rischia di scomparire sotto i colpi di un io che prende il sopravvento sul noi”.
Lo psicologo si è spinto fino a studiare, nei minimi particolari, i comportamenti dei bambini già nei primi anni di vita per dimostrare come, senza essere influenzati dai desideri dei genitori, riescono a essere portati, naturalmente, alla condivisione, alla generosità, all’altruismo. Un gruppo di bambini tra i 14 e i 18 mesi viene messo di fronte a un adulto che vede per la prima volta: lui ha un banale problema pratico da risolvere; loro, 22 dei 24 presi in esame, si mostrano pronti ad aiutarlo.
Un adulto strappa un disegno dalle mani di un suo coetaneo, e appena questo accade i bambini guardano l’autore del disegno con un sentimento di partecipazione più che di semplice solidarietà. Simpatizzano, attraverso un’attitudine ad allearsi più che a scontrarsi, a stare insieme più che a dividersi. E dopo? Quando crescono e si esce dall’età dell’innocenza? Scrive Tomasello: “Una delle questioni più dibattute nel pensiero occidentale è se gli esseri umani siano per natura cooperativi e solidali, e vengano poi corrotti dalla società, come sosteneva Jean-Jacques Rousseau, o al contrario se nascano con il germe dell’egoismo e dell’individualismo e sia invece la società a insegnare loro a essere migliori, come pensava Thomas Hobbes. Con i miei studi e con le mie ricerche mi avvicino alla visione di Rousseau, ma come in ogni grande dibattito entrambe le posizioni contengono senz’altro qualche grado di verità”.
La ricerca può espandere all’infinito il suo raggio di azione, mettendo in relazione discipline complementari, pensiero filosofico con esperimenti in laboratorio, ma non sempre si arriva a una certezza che possiamo considerare scolpita come verità assoluta. Eppure l’enigma dell’altruismo, nonostante la rotondità che lo avvolge, è meno misterioso di quanto sembri: la diarchia tra gli opposti e la loro convivenza nella stessa persona, come l’egoismo e la generosità che mia madre ha manifestato nel corso di tutta la sua vita, fanno parte del conflitto permanente fra bianco e nero, vittima e carnefice, assassino e missionario. La scelta spetta a noi, più che alla scienza.

tratto da “L’egoismo è finito” di Antonio Galdo – Editore Einaudi

 

Dello stesso autore:
Fabbriche – Editore Einaudi 2007
Non sprecare – Editore Einaudi 2012
Basta poco – Editore Einaudi 2011
www.antoniogaldo.it
www.nonsprecare.it

 

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