È con vivo piacere che ci apprestiamo a presentare stralci, di un “imponente” articolo scritto da Roberto Scarpinato, l’attuale Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo, ospitato sulla rivista MicroMega, nel numero dedicato per intero all’anniversario della “Resistenza” italiana. La riflessione che questi impone attraverso le sue parole, nella loro raffinata altezza, è in grado di svelare il “male” e al tempo stesso, la soluzione ad esso. Richiamando il ruolo che le minoranze rivestono all’interno dei gruppi sociali e dunque nella Storia. Cosicché nessuno possa sentirsi escluso perché irrilevante riguardo la difesa ad oltranza, oggi più che mai urgente, dei sacri principi sanciti nel dettame costituzionale. Conclusioni perfettamente corrispondenti con quanto il Centro Paradesha, da angolazioni diverse, si sforza continuamente di ricordare. Insistendo sulle cause occulte e sui pericoli di questa deriva, oggi in avanzato stato di sviluppo.
Consigliamo la lettura integrale dell’articolo e degli altri di pari tenore, ospitati nella rivista MicroMega 3/2015, titolata “ora e sempre Resistenza”.
Fare i conti con gli errori del passato diviene spesso, l’unico mezzo per evitarne di futuri.
il Centro Paradesha
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Resistenza Costituzione e identità nazionale: una storia di minoranze?
L’identità di un popolo non si forma nella sua storia breve ma nel corso della sua storia lunga, allo stesso modo in cui l’identità di un individuo non si struttura negli ultimi anni della sua vita, ma si sedimenta nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza, affondando segrete radici nella biografia transgenerazionale.
La Resistenza e la Costituzione fanno parte, a mio parere, della storia breve del paese, di una parentesi apertasi nel XX secolo a causa di fattori eccezionali, cessati i quali la storia lunga e con essa la “normalità italiana” hanno ripreso lentamente il sopravvento.
A proposito della storia lunga italiana, potremmo dire, in estrema sintesi, che siamo transitati bruscamente dalle culture padronali della premodernità tardo-feudale a quelle neo-padronali della postmodernità, senza avere il tempo di un’assimilazione a livello di massa delle culture della modernità poste a base della costruzione dello Stato liberaldemocratico di diritto (l’illuminismo, il liberismo, il socialismo riformista) rimaste sempre patrimonio di minoranze quali quelle protagoniste della Resistenza e artefici della Costituzione.
Nel XIX secolo mentre in altri paesi europei il feudalesimo era ormai superato dalle rivoluzioni borghesi che avevano mandato in frantumi il vecchio ordine e le sue strutture culturali, in buona parte dell’Italia era ancora una realtà vivente.
In Sicilia, per esempio, fu abolito ufficialmente solo nel 1812 ma rimase in vita sino alle soglie del XX secolo, come costituzione materiale, come sottostante ordinamento effettuale della realtà. Lo stesso può dirsi per gran parte del Meridione e per gli enormi possedimenti dello Stato pontificio, uno dei più corrotti e peggio amministrati del XIX secolo. I viaggiatori europei restavano incantati delle rovine romane e nello stesso tempo erano esterrefatti perché sembrava di essere proiettati dall’Europa civile in pieno medioevo.
In Piemonte sino al 1789 era ancora vigente la servitù della gleba. In gran parte d’Italia il rapporto padrone-suddito era la pietra angolare dei rapporti sociali. Tutta la ricchezza era concentrata in un ristretto numero di famiglie; al posto della cultura dei diritti esisteva quella dell’elemosina e del favore, uno statuto della cittadinanza era semplicemente inconcepibile. Società di servi, di padrini e padroni con piccole borghesie e corporazioni artigiane al loro servizio.
Il perdurare nell’inconscio collettivo di tale cultura transgenerazionale sedimentata nei secoli, è testimoniato da alcune significative spie linguistiche. I detti siciliani “baciamo le mani”, “voscienza benedica”, i detti dell’entroterra veneto “comandi”, “servo vostro”, ancora largamente diffusi nei ceti popolari, costituiscono l’eco di una millenaria storia di servi e padroni che giunge sino ai nostri giorni, attraversando come un sotterraneo fiume carsico il mutare delle forme dello Stato e dei modi di produzione.
Per un popolo siffatto costituito in massima misura da contadini, condannati all’ignoranza e alla superstizione (la percentuale di analfabeti nell’Italia del 1860 si assestava intorno al 78 per cento raggiungendo nelle isole il 90 per cento), l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce. (….)
Il fascismo
Il fascismo, sostenuto e mantenuto al potere da tutte le principali componenti maggioritarie della classe dirigente nazionale (la monarchia, il Vaticano, gli agrari del Nord, i latifondisti del Sud, la grande industria, l’Accademia culturale), declina sulla scena della modernità del Novecento l’identità culturale ancora tardo-feudale di un ceto padronale che nella sua maggioranza non era riuscito a evolversi da classe dominante in classe dirigente, e che continuava a praticare lo stesso codice della sopraffazione da sempre esercitato nei secoli precedenti da intere generazioni di piccoli Borgia e don Rodrigo: veri prototipi di una componente della classe dominante il cui rapporto irrisolto con la violenza, costantemente utilizzata come strumento di condizionamento della contesa politica, continuerà a segnare ininterrottamente la storia nazionale sino a epoca recente, se è vero, come è vero, che nessuna storia nazionale è segnata, come quella italiana, dalla serie impressionante di stragi e di omicidi politici che dal secondo dopoguerra giunge ininterrottamente sino alle stragi politico-mafiose del 1992 e del 1993.
Per la tesi che andiamo a svolgere è rilevante sottolineare che la violenza fascista non si abbatté solo sui partiti e sui movimenti di sinistra, ma anche sulle minoranze evolute della stessa classe dirigente, come testimonia l’impressionante sequenza di omicidi e pestaggi di tanti esponenti del mondo liberale e di quello cattolico riformista. (...)
La lezione della storia dimostra come le minoranze progressiste in Italia abbiano sempre avuto vita difficile. Condannate nel corso dei secoli al rogo, al carcere all’abiura, all’esilio e, nel migliore dei casi, al silenzio e all’irrilevanza sociale, hanno svolto un ruolo determinante per l’evoluzione del paese, ma solo grazie a temporanee crisi di potere delle maggioranze e a contingenti circostanze favorevoli, dovute per lo più a fattori internazionali. (…)
Dal mio punto di vista, il dato saliente che va meditato per la tesi che vado svolgendo, non è tanto il sostegno di tutte le variegate componenti maggioritarie dei ceti dominanti, ma la spontanea adesione di massa anche degli strati popolari, perché qui, mi pare, risiede un’ineludibile chiave di lettura per comprendere anche le dinamiche politico-istituzionali del tempo che stiamo vivendo.
Non può essere dimenticato che nelle elezioni politiche che si tennero nell’aprile del 1924 il Partito fascista ebbe quattro milioni e mezzo di voti, pari al 65 per cento dell’elettorato, mentre tutti i partiti non fascisti ottennero due milioni e mezzo di voti. Nonostante le elezioni si fossero svolte in un clima di intimidazione, gli storici concordano nel ritenere che l’adesione di massa al fascismo fu in larga misura spontanea e proseguì anche negli anni seguenti, iniziando a venire meno solo a seguito dell’approvazione delle leggi di discriminazione razziale e del precipitare disastroso dell’avventura bellica.
La parte più consistente di adesione popolare è stata individuata nel mondo contadino e nella piccola borghesia. Ciò non desta meraviglia se si considera che il mondo contadino, condannato all’ignoranza e alla superstizione, era da secoli plagiato dalla cultura oscurantista clericale, ostile allo Stato liberale, imperniata sull’etica dell’obbedienza al superiore (perinde ac cadaver secondo il motto dei gesuiti), sulla delega della gestione del proprio destino individuale e collettivo all’autorità. (…)
Il sovrano dunque era l’uomo della provvidenza, così come papa Pio IX definì Mussolini alla cui definitiva affermazione contribuì in modo significativo ritirando l’appoggio della Chiesa al Partito popolare italiano e al suo battagliero capo, don Sturzo, esponente del cattolicesimo democratico, costretto all’esilio in Inghilterra per ventidue anni. E ancora nel mondo inferiore dei “voscienza benedica”, dei “servo vostro”, la secolare sudditanza psicologica nei confronti degli appartenenti ai mondi superiori era tale da consegnare spontaneamente a questi ultimi le chiavi del voto. (…)
Quella minoranza illuminata che scrisse la Costituzione
Sulla base di tali premesse, si pone a questo punto una domanda a mio parere ineludibile. Come è possibile che un popolo con tale storia alle spalle, abbia potuto esprimere e darsi una Costituzione, quale quella del 1948, che, per unanime riconoscimento internazionale, costituisce uno dei massimi vertici della cultura mondiale dello Stato democratico di diritto?
Posso riassumere la risposta che mi sono dato nei seguenti termini. La Costituzione del 1948 (così come era avvenuto con lo Stato liberale del 1860), non fu affatto espressione della maggioranza dell’Italia reale nella sua duplice componente padronale e popolare, ma di alcune minoranze.
A seguito della sconfitta della seconda guerra mondiale e al crollo momentaneo della vecchia classe dirigente fascista, mentre il paese è allo sbando, si apre nel dopoguerra uno spazio provvisorio – un “altrove” – che, sospendendo la “normalità” italiana e risalenti rapporti di forza, assegna il timone del comando a ristrette élite culturali: gli uomini della Resistenza tra i quali militano i migliori esponenti della cultura liberale, quelli del riformismo cattolico, del socialismo liberale, del Partito azionista, di un Partito comunista emancipatosi, dopo la svolta togliattiana di Salerno, dal radicalismo classista antisistema. (…)
La Commissione dei 75 incaricata di redigere il “precipitato” giuridico della Costituzione e il gruppo dei professori che la supportava sono una sorta di empireo culturale e di aristocrazia etica, figlia della Resistenza, distante anni luce dalla reale identità culturale delle masse del paese e della stessa maggioranza delle sue classi dirigenti. (…)
Se si pone a confronto l’Italia disegnata dalla Costituzione con l’Italietta reale arretrata e provinciale del tempo (il 20 per cento di analfabeti contro l’1 per cento di Germania e Inghilterra, il 3 per cento degli Stati Uniti, il 4 per cento della Francia), con l’Italia che sino a pochi anni prima aveva inneggiato in massa al Duce salvo poi scoprirsi afascista dopo il disastro bellico, si comprende come tra queste due entità vi fosse lo stesso abisso che esiste tra il dovere e l’essere.
La nostra Costituzione superò noi stessi e la nostra storia, fu un gettare il cuore oltre l’ostacolo, indicando un modello da raggiungere: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. (…)
La Costituzione sulla carta e nella realtà
Proprio perché la Costituzione del 1948 non rispecchiava la costituzione materiale del paese e non era espressione (almeno in alcune sue parti fondamentali concernenti l’organizzazione dello Stato) delle autentiche culture illiberali e antidemocratiche delle maggioranze, avrà vita difficile nei decenni successivi. Chiusasi la parentesi costituzionale, con le elezioni del 1948 si ristabiliscono in buona misura i vecchi rapporti di forza, rinsaldati e rilegittimati dai nuovi equilibri geopolitici mondiali determinati dalla dottrina Truman che inaugura la lunga stagione della guerra fredda. Inizia così una sotterranea e strisciante restaurazione che si declina anche in una serie di tentativi, spesso riusciti, di devitalizzare, aggirare, svuotare la Costituzione riducendola a mero libro dei sogni. Il breve spazio di questo intervento non consente di inventariare le mille strategie seguite al riguardo. (…)
Nonostante tali limiti, la Costituzione del 1948 non è rimasta solo un libro dei sogni e in alcune sue parti vitali si è trasformata in diritto vivente, costituendo uno straordinario lievito di crescita per l’intero Paese. Tuttavia ciò in larga misura non è avvenuto per un fisiologico e indolore processo, ma anche grazie ad aspri conflitti sociali, talora sanguinosi e costati centinaia di vite umane, e grazie all’esistenza di alcuni contingenti fattori macrosistemici che in passato hanno messo in sicurezza la Costituzione, sottraendola ai tentativi di snaturamento da parte delle maggioranze.
Il primo fattore è stato l’equilibrio armato imposto dal bipolarismo internazionale. La guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica e la divisione geopolitica del mondo hanno imposto una camicia di forza alla storia italiana, imbottigliando la dialettica politica della Prima repubblica entro una ristretta banda di oscillazione. I comunisti non potevano andare al potere, ma, di converso, neanche era possibile in Italia realizzare un colpo di Stato come quello dei colonnelli in Grecia. Il sovversivismo della componente più reazionaria della classe dirigente (come lo aveva definito Gramsci) – che si nutriva dell’alibi dell’anticomunismo – non potendo erompere liberamente è così costretto a implodere in progetti di colpi di Stato poi obbligati a rientrare, in omicidi politici chirurgici, nella guerra civile a bassa intensità della strategia della tensione, spesso coperta da apparati dello Stato (vedasi, ad esempio, il caso esemplare della strage di Portella della Ginestra, che inaugura la strategia della tensione il 1° maggio 1947 e le condanne definitive di esponenti dei servizi segreti per avere depistato le indagini sulla strage di Bologna, nonché gli altri episodi di depistaggi accertati in sede giudiziaria).
Nonostante l’altissimo prezzo di sangue, la Costituzione si è salvata dal pericolo di colpi di Stato restauratori perché una soluzione autoritaria avrebbe potuto scatenare un conflitto internazionale tra le due superpotenze. Il tentativo di svuotamento della Costituzione prenderà allora la strada della piduizzazione dello Stato, cioè della privatizzazione dei processi decisionali all’interno dei circoli dei grandi “decisori”, trasversalmente appartenenti ai poteri forti del paese.
Il secondo fattore che ha messo in sicurezza la Costituzione e l’ha preservata durante la Prima repubblica, è stata l’esistenza in Italia di una delle classi operaie più forti e politicizzate dell’Occidente.(…)
Il terzo fattore che ha messo in sicurezza la Costituzione, è stata la creazione da parte dei padri costituenti di alcune cellule salvavita e di alcune enclave istituzionali in grado di disinnescare i possibili revisionismi autoritari da parte delle maggioranze contingenti del paese. (…)
Quanto alle enclave istituzionali, la Corte costituzionale viene costituita con modalità tali da consentirle di poter operare come variabile indipendente rispetto agli equilibri politici delle maggioranze. Le garanzie di indipendenza e di autonomia assegnate poi alla magistratura ordinaria la sottraggono al pericolo di condizionamenti politici di vertice nel sollevare eccezioni di incostituzionalità delle leggi, raccordandola con la Corte costituzionale. Grazie a tale particolare habitat istituzionale, si rende possibile che le minoranze, le èlite culturali che hanno assimilato in profondità i valori dello Stato democratico di diritto, possano svolgere una funzione di resistenza contro i possibili tentativi di restaurazione e di svuotamento della Costituzione da parte delle maggioranze.
L’assedio alla Costituzione dopo la fine della guerra fredda
Oggi sono venuti meno i fattori che avevano messo in sicurezza la Costituzione.
La fine del bipolarismo internazionale, ha restituito il paese a se stesso e alle dinamiche spontanee della sua storia lunga che, non a caso, riprende dal punto in cui era stata interrotta prima che si aprisse la parentesi costituzionale, e cioè dall’epoca precostituzionale.
Inoltre la globalizzazione e il passaggio all’economia postindustriale hanno determinato l’irrilevanza sociale della classe operaia. (…)
La sua sopravvenuta irrilevanza politica ha trascinato nella disfatta anche il ceto medio che, nel nuovo gioco di forze messosi in moto a livello mondiale dopo il 1989, si rivela sempre più un gigante sociale dai piedi di argilla in quanto il suo peso politico non derivava dalla consistenza numerica, ma dal suo essere l’ago della bilancia nel braccio di ferro tra le forze sociali del capitalismo e della classe operaia che sino ad allora si erano contrapposte in un rapporto di equipotenza. (…)
Le masse sono tornate a essere, così come erano sempre state nel tardo-feudalesimo, soggetto passivo della storia, manipolabile dall’alto. (…)
Tralasciando il piano internazionale (…) e limitandoci solo alla vicenda nazionale, la Costituzione è divenuta un vaso di coccio tra vasi di ferro delle maggioranze che da anni ormai puntano a modificarla, a svuotarla con progetti di riforma, leggi ordinarie ma di sostanza costituzionale, prassi politiche. (…)
Se si esamina con uno sguardo di insieme la giurisprudenza della Corte costituzionale di questo periodo temporale, si avverte il senso di una pericolosa mutazione.
Mentre in passato la Corte si limitava a intervenire per censurare episodiche cadute del legislatore ordinario, negli ultimi anni la Corte è stata investita da un vero e proprio volume di fuoco di leggi incostituzionali, espressione nel loro insieme di una profonda mutazione culturale di larghe componenti del ceto politico che non si riconoscono più nel patto sociale insito nella Costituzione e che pressano dunque per modificarlo.
La giurisprudenza costituzionale è divenuta l’ultima Maginot di difesa dello Stato democratico di diritto a fronte dei mutati rapporti di forza.
Non è dunque un caso che, fatto inedito nella storia repubblicana precedente, anche la Corte costituzionale sia stata attinta dallo stesso tentativo di delegittimazione (sino ad essere definita “covo di comunisti”) che nell’ultimo ventennio ha preso di petto la magistratura ordinaria ritenuta, a causa del suo statuto di indipendenza garantito dalla Costituzione, una pericolosa variabile fuori controllo, insensibile all’esigenza di farsi carico delle nuove compatibilità sistemiche e di quella che autorevoli vertici istituzionali hanno definito la “legalità sostenibile”.
Una declinazione emblematica del disallineamento ormai consumato tra maggioranze trasversali del ceto politico e Costituzione si è registrato sul terreno strategico della legge elettorale che ha privato gli elettori della possibilità di esprimere un voto di preferenza in occasione delle consultazioni elettorali, trasformando così il parlamento in un’assemblea di nominati da ristrette oligarchie di vertice arroccate nell’esecutivo. Sebbene la Corte costituzionale ne abbia sancito l’incostituzionalità per violazione del principio cardine della sovranità popolare, la legge, come è noto, è stata sostanzialmente riproposta negli stessi termini da maggioranze parlamentari trasversali elette con una legge incostituzionale e che, invece di limitarsi a una gestione degli affari urgenti e a indire nuove elezioni, stanno mettendo a punto, anche mediante il combinato disposto della legge elettorale e la modifica della composizione e del ruolo del Senato, la transizione dalla democrazia della rappresentanza a quella dell’investitura imperniata sul depotenziamento degli istituti della rappresentanza e sulla verticalizzazione oligarchica del potere istituzionale.
Quel che appare significativo è che la mancata interiorizzazione dei valori costituzionali appare trasversale alle maggioranze interne ai due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, anche se si manifesta con modalità diverse. (…)
Quel che appare interessante è la straordinaria coerenza culturale che, come un unico filo rosso, inanella la sequenza di iniziative politiche, di prassi istituzionali, di leggi che dalla fine della Prima repubblica stanno occultamente disfacendo la tela della Costituzione del 1948, tessendo la trama di una ristrutturazione in seno neoautoritario dello Stato e della democrazia, più aderente alla costituzione materiale del paese, o – se si preferisce – all’identità culturale delle sue maggioranze.
Quello a cui stiamo assistendo appare, a mio parere, come una straordinaria reviviscenza di radicati codici culturali premoderni tipicamente nazionali: un passaggio dalla modernità di uno Stato di diritto imperniato sul primato del potere impersonale della legge uguale per tutti, alla premodernità di un potere – quale era quello tardo-feudale – di tipo oligarchico, signorile, svincolato da controlli e non sottoposto a controbilanciamenti.
Così dalla separazione e dal bilanciamento dei poteri, si sta tentando di tornare alla concentrazione verticale del potere di tipo monarchico nella moderna orma di un sostanziale premierato assoluto.
Il neofeudalesimo italiano affollato di tanti vassalli alla ricerca del loro principe, di tanti sudditi contenti di esserlo, di tanti intellettuali la cui massima aspirazione è di divenire il consigliori del principe di turno, sembra essere una riedizione della storia più vera e autentica del paese.
Tale visibile opera di decostituzionalizzazione dal basso, cioè dall’interno della nazione, interseca, come accennato, il contemporaneo processo di oligarchizzazione del potere in atto a livello sovranazionale che sta dislocando le sedi decisionali strategiche dalle istituzioni rappresentative degli Stati nazionali, sempre più ridotte a gusci vuoti, in istituzioni prive di rappresentatività popolare come la trojka (Bce, Commissione europea, Fondo monetario internazionale), espressioni del capitalismo sovranazionale e veicoli del pensiero unico liberista, che cooptano nel circolo dei grandi decisori vertici governativi sganciati dal peso e dall’onere della rappresentanza in nome di una governabilità supina ai diktat dei mercati.
Serve una nuova minoranza illuminata per salvare la Costituzione
Che fare dinanzi a tutto ciò? Chi salverà questo paese da se stesso?
La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali il paese non sia stato salvato dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze.
Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, trasformando un popolo di tribù in una nazione. Sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la Costituzione.
E sono le minoranze quelle a cui oggi sembra essere affidata la difesa della Costituzione.
La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia, il terreno elettivo della nuova Resistenza. Sino a quando resterà in vita, sapremo sempre da dove ricominciare. Sarà sempre possibile fare cancellare dalla Corte costituzionale l’ennesima legge illiberale e antidemocratica che uno schieramento politico approva e l’altro schieramento tiene in vita.
La Costituzione italiana va non solo difesa ma anzi rilanciata perché, proprio per i valori liberaldemocratici di cui è intessuta e per il suo impianto complessivo antioligarchico di derivazione resistenziale, indica la direzione di marcia verso la quale occorre muoversi per un progetto politico di più ampio respiro che valichi i confini nazionali e si proietti nello spazio macropolitico europeo, oggi egemonizzato dal pensiero unico mercatista e neoliberista. E’ urgente una riappropriazione di questo spazio da parte di una rete di movimenti liberal-democratici intereuropei che superando le barriere nazionali dia impulso a un nuovo costituzionalismo che democratizzi l’Unione europea (…) che, in sostanza, restituisca ai popoli il bastone del comando oggi saldamente in mano a ristrette oligarchie che spacciano come neutre soluzioni tecniche prive di alternativa, decisioni invece ad altissimo coefficiente politico ed espressioni di un’ideologia mercatista a senso unico, snaturando così l’originario progetto di un’Europa dei popoli.
Salvare la Costituzione significa dunque salvare la parte migliore della nostra storia e gettare un ponte verso il futuro.
Se è vero che oggi la difesa della Costituzione resta affidata alle minoranze, ciò non deve scoraggiare. Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. La storia – insegnava un maestro di democrazia quale era Gaetano Salvemini – è fatta dalla dialettica e dallo scontro tra minoranze organizzate, consapevoli e attive che, vincendo le inerzie della maggioranza disorganizzata, la trascinino in una direzione o in un’altra, verso un nuovo o un vecchio ordine.
La celebrazione dell’anniversario della Resistenza è l’occasione per ricordare a noi stessi che la parte migliore della nostra storia – quella iniziata con la Costituzione del 1948 e alla quale si vorrebbe porre oggi fine – è stata appunto il lascito delle minoranze eroiche che sacrificarono la propria vita perché un popolo sino ad allora di servi e di padroni si trasformasse in una comunità di cittadini che – come recita l’articolo 3 – “hanno pari dignità sociale e sono uguali dinanzi alla leggi, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni, di condizione personali e sociali”. Mi sembra che il modo migliore per concludere questo mio breve intervento, sia di ricordare le parole pronunciate in loro memoria da Piero Calamandrei nella seduta dei lavori della Costituente del 7 marzo 1947:
“Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini.
Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi consociamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nella quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.
Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.”
Roberto Scarpinato
tratto da MicroMega
3/2015 - “Ora e sempre Resistenza”
dalla pag. 165 alla pag. 182