Nella tradizione dell’India antica (Veda, Upanisad, Mahabharata, Bhagavad-Gita, Purana, ecc.) Yamadeva è “Colui che controlla” (l’esistenza terrena degli esseri).
Il grande Sankara sostiene che Yamadeva è “il Signore nel ruolo della Morte (Mrtyu)”. Infatti nel Katha Upanisad vengono impartiti gli insegnamenti sulla conoscenza dell’Atman (l’Assoluto in noi), la conoscenza-consapevolezza indispensabile che conduce alla liberazione (moksa).
In realtà Yamadeva simboleggia la Coscienza pura, prima della nascita e dopo la morte dell’individuo: con la morte di una esistenza l’individuo passa attraverso il giudizio (che proviene da se stesso) per la verifica del rendiconto karmico e prendere o una nuova nascita (secondo il karma) o usufruire dell’eventuale liberazione (moksa) ottenuta con il giusto vivere (dharma) e con una corretta sadhana.
Nel “mondo del divenire” in tutte le cose c’è un inizio ed una fine: non può essere altrimenti.
L’uomo moderno ha molti timori: ha timore di invecchiare, ha paura di ammalarsi ed è atterrito dal fatto di dover, prima o poi, morire.
L’uomo comune nel vedere, giorno dopo giorno, il proprio corpo invecchiare e ammalarsi, si lascia prendere dallo sconforto e inevitabilmente dalla paura della morte. Per l’uomo comune pensare alla morte è un’impresa complessa. La maggior parte non contempla la morte come facente parte del naturale ciclo della vita manifesta (la manifestazione universale – prakrti).
Esiste un’atavica paura della morte, specie in Occidente dove la cultura dominante ha un atteggiamento negativo verso la morte del corpo: la morte è vissuta come tabù. L’Occidente, che ha predominato sulla cultura mondiale, con la diffusione capillare del materialismo ha aperto, negli individui, una irragionevole paura della morte. Il materialismo, e la diffusione dell’ateismo, hanno ucciso molti riferimenti culturali riguardanti l’esistenza spirituale dell’Anima. Anche la natura degli approcci religiosi offerti sono divenuti troppo materialistici e, quindi, incapaci a bandire la paura della morte. Le religioni non preparano, in senso spirituale, alla morte. Dovrebbero preparare, psicologicamente e spiritualmente, al fatto che il corpo fisico grossolano (sthulasarira) è mortale (mrtya).
Nel religioso popolare, che vive di sincretismo non spiegato, quando si trova di fronte ad una crisi (malattia, morte, paura) sostiene la sofferenza con l’astrazione e per curare la paura passa dalla storia religiosa al mito.
Nella “Filosofia del divenire” del mondo moderno non viene insegnato alcunché della vita e della morte. La mente dell’individuo viene impregnata di simboli effimeri, di desideri-bisogni materiali, tutti inservibili all’Anima: telefonino supertecnologico di ultima generazione, tablet per giocare e vedere film, internet per bloggare, partite di calcio, giochi online, capi firmati, oggetti status-simbol, fumo, droghe, film, spettacoli, concerti, sesso, denaro, potere; ovvero la vita trasformata in un eterno carnevale. Niente di serio, niente di importante: un eterno festeggiare che indebolisce le coscienze.
La “Filosofia dell’Essere” offre, invece, molte “risposte”, non frivole alla new age, non sciorina rassicurazioni psicologiche come le chiese, ma trasmette possibilità esperienziali. Insegna la conoscenza dell’Anima, rivelando le sue proprietà: purezza, onnipresenza, unicità, assenza di mutamento.
L’Atman non muta mai: non è soggetto ad alcun processo di espansione o di contrazione, non si può sporcare né purificare, né si può dire che stia fermo o si muova, non può essere incompleto né si può sviluppare in alcun modo, non può essere imperfetto quindi non è suscettibile di alcun perfezionamento.
L’Atman incarnato è Jivatman: collegato, tramite il corpo sottile (lingasarira), ai cinque elementi sottili (suksamabhuta), ai cinque sensi-percezione (jnanendriya), ai cinque organi motori-azione (karmendriya), ai cinque soffi vitali (prana) e alla mente (antahkarana) con le sue quattro funzioni importanti: buddhi (intelletto superiore-intuizione), ahamkara (ego, io-mio), manas (mente individuata empirica), citta (memoria, subconscio-vasana, tendenze o semi mentali-samskara).
L’Atman, nella manifestazione, ha i suoi veicoli: il corpo causale (karanasarira), il corpo sottile (lingasarira) e il corpo fisico grossolano (sthulasarira).
Il corpo sottile (lingasarira o suksmasarira), dopo la morte, accompagna l’Anima lungo il processo di trasmigrazione, cioè lungo la catena del samsara (il divenire ciclico esistenziale). Il prodotto del karman dell’individuo determina la direzione del lingasarira: verso una successiva esistenza-esperienza con qualità-possibilità rispecchianti il rendiconto karmico o la liberazione (moksa) definitiva dalla indefinita successione di nascita-vita-morte-rinascita (samcarana). Il lingasarira, quindi, non viene distrutto al momento della morte, ma perdura fino al momento in cui verrà maturata la soluzione dell’individualità, cioè lo stato-condizione di liberazione (moksa).
La morte è la cessazione dello scorrere del flusso del prana, quel tipo di prana deputato a mantenere in vita e in attività il corpo fisico grossolano. Il prana, a un livello superiore, costituisce ciò che viene chiamato Hiranyagarbha (che esiste a tutti i livelli della manifestazione universale) e quindi si può dire che proviene direttamente dal Brahman.
L’uomo comune, ignorante metafisicamente, considera “morte” quello stato-condizione biologico di arresto dell’attività cardiaca, cerebrale e polmonare e il consequenziale disfacimento, graduale, del corpo fisico grossolano nella sua interezza.
L’uomo religioso, secondo la Religione di appartenenza, crede nel distacco di una imprecisata anima che dal corpo passa ad un regno dei morti per finire nel “luogo” dove un “Giudizio” avrà vagliato, in base ai meriti o demeriti, la destinazione. Tutte le Religioni, exotericamente parlando, non istruiscono i propri fedeli sulla questione morte, se non dando pochi cenni indefiniti, non sufficienti ad evitare la paura che sorprende improvvisamente il morente, se consapevole di morire.
L’uomo orientato spiritualmente è intellettualmente più preparato, ma mancante, senza un vero percorso realizzativo, del fattore conoscitivo-esperienziale.
Solo l’uomo di conoscenza, rappresentato da una esigua minoranza, vive di consapevolezza-coscienza-conoscenza ed è in grado di affrontare l’esperienza “morte” come ad un semplice stato di passaggio, per quello che in effetti è, il passaggio ad un diverso piano di realtà.
Ogni individuo, cioè ogni Jivatman, in base a come ha vissuto nella vita manifesta (da essere disceso-incarnato) matura un tipo di qualità di morte.
Riguardo al corpo fisico grossolano (sthulasarira) abbiamo spesso accennato ad un “mistero del sangue e della carne”, certamente non per fare effetto sui nostri lettori. Esso è la condensazione di significati di ordine spirituali, la coagulazione di forze e di codici della “Sfera dell’Alto”. Anche la morte ha una sua ragione nella “Sfera dell’Alto” e per questo si concretizzano più tipologie di morti: un tipo che porta l’Anima ad uscire dall’ano e dai genitali, perché questa tipologia corrisponde alla qualità (tamasica) di un karman pesante, che a sua volta la condurrà verso un loka dalle grandi difficoltà (cattiva destinazione); un secondo tipo di morte che porta l’Anima ad uscire dal naso, dalla bocca, dalle orecchie e dagli occhi, perché questa tipologia corrisponde alla qualità (rajasica) di un karman normale; un terzo tipo di morte, il migliore, porta l’Anima ad uscire attraverso quel “punto” in cui si incontrano le due ossa parietali e l’osso frontale, perché questa tipologia (sattvica) corrisponde al caso in cui l’Anima si libera dal cerchio della morte, della vita e della nascita (samsara). In effetti, in questa terza tipologia non si può più parlare di morte, ma di vera libertà. L’Essere in tale caso è pienamente consapevole di abbandonare il corpo, ma soprattutto è consapevole di tagliare l’antico legame col samsara, vivendo una indescrivibile Beatitudine (ananda). Per ottenere questo tipo di morte è necessario percorrere un sentiero realizzativo (sadhana) nel quale, giorno dopo giorno, ci si disidentifica da tutti i desideri, da tutte le illusioni, da tutti i legami che crea l’ahamkara (l’ego, l’io-mio), realizzando un grande distacco, una indispensabile imperturbabilità. Significa vivere purificando ogni giorno il mentale facendo prevalere sattvaguna nel veicolo della buddhi, in rapporto al piano causale. Si tratta di morire stando ancora in vita, vincendo ogni paura: l’uccisione dell’ego (che avviene in ajnacakra), della mente che è la grande ingannatrice. Così da affrontare preparati, sorridendo serenamente, il momento del sopraggiungere della morte fisica, un raggiungimento supremo.
Il pensare di voler tenere i propri cari vicini a sé, anche dopo la morte, significa desiderare per loro un tipo di morte di bassa qualità (tamas): in tale tipo di morte l’Anima, nel corpo sottile (lingasarira) rimane connessa al mondo fisico-materiale nel quale ha vissuto, in tale stato permane, come presenza, tra le persone con cui ha avuto un forte legame. Questo finché l’orologio-sveglia del karman non lo immette nel ciclo delle rinascite per una nuova esperienza-possibilità.
Con il tipo di morte superiore a quella accennata sopra, una morte avvenuta senza paura (rajas), l’Anima continua a vivere nel lingasarira, nel dominio mentale dove apprenderà conoscenze per vivere meglio nella successiva rinascita.
Quando avviene una morte (sattva) nello stato di liberato (mukta), prosciolto dai vincoli di maya e del samsara, significa che siamo in presenza di un essere che ha tagliato i legami con l’ignoranza metafisica (avidya) e, quindi, di un nuovo realizzato (vimukta).
Il nuovo liberato vivrà nella “Sfera dell’Alto” finché un particolare richiamo, dalla sofferenza degli esseri ancora prigionieri di maya, non aprirà per lui una delle tante “vie” delle Strade Alte per una missione (discesa-incarnazione) prendendo le vesti di un saggio, di un santo, di un maestro, di un iniziato e poter servire le aspettative dei sofferenti (nell’Anima), a diversi livelli di qualità.
“Nessuno sa se per l’uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”.
Socrate
“Quando c’è una nascita, inevitabilmente c’è anche una fine, prima o poi. Non bisogna dare alla morte eccessiva importanza e non bisogna averne paura. Anche un Avatara quale Io sono, dovrà un giorno lasciare il corpo ed andarsene (…)”.
“La Pura Coscienza (cidakasa) è la Divina Essenza, l’Atman. Cittakasa è la sua deformazione, Citta, ossia la sostanza mentale in cui si condensa la Pura Coscienza. Quando lo Spirito si cambia in Mente (manas), Intelletto (buddhi) ed Ego (ahamkara), si chiama antahkarana, l’Organo Interno dove sono attivi i sensi nella loro dimensione sottile. La coscienza dell’io condizionata dalla Pura Coscienza dotata del Corpo Sottile è l’Anima dell’individuo. La Mente è per l’uomo l’unica causa di schiavitù e di Liberazione. La mente fabbrica ogni quantità di illusione”.
“(…) Quando avrai afferrato il suo segreto con la ricerca, i molti tornano a riunirsi nell’Uno: allora il Sé esiste come Sé. L’illusione “io sono il corpo” sparisce se applichi l’unguento dell’investigazione che discerne”.
“(…) Il solo motivo per cui l’Anima entra nel corpo, è quello di scontare il suo debito karmico, ma spesso, anziché liberarsene, ne accumula degli altri e perciò deve incarnarsi di nuovo, scendendo sempre più in basso nella scala dell’evoluzione (…)”.
Sri Sathya Sai Baba (1926-2011)
Altri Articoli in tema alla questione trattata:
450. Non c'è Morte e non c'è Fine
563. I Misteri del Lingasarira
565. Aldilà andata e ritorno
582. Il Sé, la personalità, l’individualità
231. Riflessioni sull’Anima
469. Un minuto dopo la Morte di Pietro Cimatti
544. Sulla Reincarnazione di Raphael
560. Il Mistero della Morte nell’India tradizionale di Gian Giuseppe Filippi
447. Gli esploratori della Morte di Gianni De Martino
246. Sulla Reincarnazione di Silvano Demarchi
548. Karma e Reincarnazione: risposte di Sri Sathya Sai Baba