La questione della conoscenza è da sempre molto sentita nell’India della tradizione e la via della conoscenza, Jnana Marga, rimane indubbiamente uno dei sentieri più battuti per ottenere la realizzazione del sé. In modo particolare Shankara, esponente dell’Advaita Vedanta, ritiene la conoscenza, jnana (da cui deriva il greco gnosis), abbia un primato indiscutibile. Avidya, l’ignoranza, si combatte coltivando il suo contrario, e se non c’è conoscenza, qualsiasi cosa si faccia prende una direzione distorta e non conduce all’obiettivo. Ad esempio: che ne è di un agire privo della conoscenza? Perfino la devozione senza consapevolezza ha poco senso, anche perché, come abbiamo visto, per amare bisogna conoscere.
Nel suo commento al primo sutra del Vedanta, Shankara afferma che un vero ricercatore, un autentico jnani – oggi diremmo un autentico filosofo – dovrebbe soddisfare quattro condizioni essenziali. In primo luogo dovrebbe sapere discernere tra ciò che è reale (sat) e ciò che non è reale (asat). Soffermiamoci brevemente sul concetto di discernimento: per chi aspira alla conoscenza, da quella più banale a quella più elevata, questo è uno strumento veramente essenziale. Chi dovesse, ad esempio, ricercare l’oro, dovrebbe sapere che “non è tutto oro quello che luccica”, perciò dovrebbe saper distinguere il vero minerale da tutto quello che, pur somigliandovi, non è assolutamente della stessa sostanza. Parlando di alta filosofia in ambito indiano classico, l’invito è a discernere tra ciò che ha natura eterna, e quindi che appartiene alla sfera dello spirito, e ciò che invece ha natura effimera, ovvero materiale.
Un aspirante conoscitore, insomma, come un bravo investigatore, dovrebbe diffidare da false informazioni e piste fasulle per scoprire la verità dei fatti.
La seconda condizione che un aspirante jnani dovrebbe soddisfare riguarda i frutti dell’azione e, più precisamente, il distacco dal risultato dell’agire. Tale atteggiamento esige onestà e rinuncia a desideri meschini di interesse personale. Il vero ricercatore della verità, dovrebbe perseguire quest’ultima per il gusto e il piacere di farlo, non per altri scopi. Vi sono persone che distorcono le informazioni, che presentano qualcosa come superiore a qualcos’altro, che definiscono una forma di pensiero più elevata di un’altra, non per il bene della verità, ma solo per soddisfare il proprio ego, dare spessore obiettivo e “scientifico” a quelle che invece sono convinzioni di tipo squisitamente soggettivo, avvalorare pregiudizi personali. Secondo gli antichi saggi queste persone non sono sapienti, bensì imbroglioni. Il vero amante della conoscenza non ha motivo di ingigantire o sminuire alcunché: dovrebbe limitarsi a osservare e presentare la realtà così com’è, senza manipolazioni né contraffazioni.
Ciò che abbiamo appena descritto conduce direttamente alla terza condizione da soddisfare che, in sintesi, è quella della disciplina e dell’autocontrollo. Chi potrebbe agire come sopra descritto senza aver sviluppato le virtù del dominio di sé, della quiete mentale, della rinuncia, senza aver preso le distanze da arroganza, bramosia, e da tante altre abbaglianti tentazioni? Ecco dunque, condicio sine qua non per scalare la montagna dorata della conoscenza e raggiungerne le vette, è quella di sottoporsi a un lavoro di rigore e purificazione, che aiuti a sviluppare coerenza e determinazione e a perseguire la verità per la verità.
La quarta e ultima condizione, più che una condizione potrebbe essere definita inevitabile conseguenza di un percorso autorealizzativo. Si tratta, infatti, dell’aspirazione alla moksa, ovvero alla liberazione dalla dimensione materiale, per poter finalmente vivere, respirare, contemplare senza limiti quella verità tanto anelata e tanto cercata. Non a caso nel mondo indiano, forse ancor più che in altre culture, i filosofi più insigni erano anche scienziati e ricercatori spirituali, i quali dimostravano con la propria condotta e con la propria vita di aver effettivamente conseguito elevati picchi di sapienza.
Dunque, quando si parla di conoscenza nella civiltà dell’India classica e facendo riferimento a opere illustri come la Bhagavad-gita, dobbiamo tener presente di che tipo di conoscenza si parla e quale attitudine è richiesta per poterla inseguire e infine ottenere.
La Bhagavd-gita affronta il tema della conoscenza, intendendo con questo termine un sapere profondo, una consapevolezza che ha potere salvifico, e per questo esoterica, segreta, come viene definita all’inizio del nono capitolo:
“A te che sei privo d’invidia rivelerò ora questa conoscenza estremamente segreta, che è insieme consapevolezza: grazie al suo possesso sarai liberato dal male”.
Bhagavad-gita, IX, I
La conoscenza che riguarda la natura del sé è una conoscenza definita segreta in quanto veniva rivelata da maestro a discepolo e non era perciò a disposizione di chiunque. Come possiamo dedurre proprio dall’incipit dello sloka appena citato(“a te che sei privo d’invidia”), tale conoscenza presupponeva un’attitudine etico-spirituale tipica di persone speciali ed evolute, generalmente bramani, e a essa non avevano accesso individui di natura malvagia, i quali avrebbero potuto utilizzarla per scopi tutt’altro che nobili.
Una seconda accezione dell’aggettivo segreto, indica la preziosità di questa conoscenza, che non conosce eguali. È come un tesoro, una gemma preziosa nascosta in uno scrigno, qualcosa di segreto in quanto raro ed eccelso, che presuppone, oltre all’attitudine sopra descritta, anche una ricerca e una scoperta.
A partire dalla strofa 33, sino alla fine della lettura che riguarda lo Jnana Yoga, vediamo dunque cosa dice la Gita sulla conoscenza:
“Migliore del sacrificio di beni materiali è il sacrificio che consiste nella conoscenza, o distruttore dei nemici. Ogni atto senza eccezione, o figlio di Prtha, culmina nella conoscenza”.
Bhagavad-gita, IV, 33
In questo verso s’intende, per atto, l’atto sacrificale. Per la propria purificazione si eseguivano, anticamente, diversi tipi di sacrificio, e tra questi figurava anche la donazione di beni materiali. Qua si afferma che il sacrificio che consiste nella conoscenza – generalmente praticato dedicandosi a lungo allo studio dei Veda – è superiore a quello che prevede semplicemente la donazione di beni materiali, accompagnata magari da scarsa consapevolezza.
La Gita sottolinea a più riprese come attraverso ogni atto l’individuo possa pervenire a stadi sempre più elevati di realtà e di coscienza, a seconda del livello di consapevolezza con il quale compie l’atto stesso.
“Questo sappi: se umilmente ti prostrerai davanti a loro, se li servirai e li interrogherai, i sapienti che vedono la verità t’insegneranno la conoscenza”.
Bhagavad-gita, IV, 34
Si fa riferimento, qui, alle cosiddette anime realizzate: la strofa le definisce in sanscrito jnani, coloro che possiedono la conoscenza, ma di volta in volta possiamo vedere che alle stesse straordinarie figure ci si riferisce con i nomi di sadhu, rsi, pandita o guru, per quanto ciascuno di essi porti con sé peculiari sfumature di significato.
Notiamo, intanto, come ci si doveva porre, nei tempi che furono, di fronte a chi aveva raggiunto autentiche vette di conoscenza: davanti a tali persone era d’obbligo chinarsi, offrire omaggio non tanto a loro come umani, ma a ciò che quegli umani rappresentavano, riconoscere il livello, la visione, la profondità da loro raggiunti. Addirittura, prosegue la strofa, era opportuno porsi al servizio di queste persone, quindi continuare l’atto di umiltà iniziato con il chinarsi, per passare all’atto e mettersi concretamente a disposizione. Con tale attitudine di umiltà e rispetto, si potevano dunque porre domande a quei saggi, i quali ben volentieri avrebbero dischiuso i tesori sapienziali ottenuti attraverso chissà quale dedizione e condotta ascetica.
Forse è superfluo sottolineare quanto i tempi siano cambiati: il rispetto per l’autorità è tramontato da un pezzo, anche proprio negli attuali templi del sapere, come le scuole e le università. Qualcuno potrebbe dire , legittimamente, che in molti casi ciò accade perché è scomparsa l’autorità, e con essa quel senso di rispetto e a volte anche di soggezione che incuteva. Non sono più così diffusi i sapienti di una volta. E anche quando si trovano, quasi sempre sono portatori di quei difetti che caratterizzano gli umani della nostra era, limiti che ormai solo anime rare hanno realmente superato.
In quest’epoca storica di conflitto e ipocrisia, sono stati, sono e saranno numerosi quei casi in cui falsi maestri hanno causato danni irreparabili a singoli individui e a intere comunità, con atteggiamenti e comportamenti diametralmente opposti a quelli di coloro che, secondo la Tradizione, dovrebbero incarnare qualità divine e trasmettere una conoscenza realizzata.
Leggiamo, a tal proposito, il seguente passo:
“Per un discepolo, il rapporto col maestro è sovente contrassegnato da conflitti e timori, ansie e blocchi psicologici. Vi è soprattutto il rischio d’essere schiacciati dal carisma del guru. D’altro canto, si può anche essere tentati d’imboccare la strada della sfida/ribellione. L’abbandonarsi al maestro divino degenera facilmente in vero e proprio culto della personalità, specie nelle scuole della bhakti. Per tanti guru, la tentazione d’approfittare d’una tale situazione – quale i discepoli fanno a gara nel servire il maestro e ‘fare la sua volontà’, tacitando in spirito d’ubbidienza quel che resta d’una sana capacità critica e discriminante – è davvero molto forte e, aggiungerei, quasi irresistibile. E così che anche guru ‘genuini’ vengono a corrompersi a motivo dell’immenso potere di cui dispongono. L’abuso tanto psicologico quanto economico che il guru spesso esercita sui discepoli è dato di fatto incontrovertibile, attestato in ogni tempo […]. È così che l’ego narcisistico e ipertrofico dello (pseudo) maestro soverchia l’ego debole, deficitario dello sisya soggiogandolo a sé. (Rigopoulos A., Guru. Il fondamento della civiltà dell’India, pag. 169).
“Quando l’avrai acquisita, o figlio di Pandu, più non cadrai in un simile smarrimento; grazie ad essa tu vedrai in te stesso, e anche in me, senza eccezione, tutti gli esseri”.
Bhagavad-gita, IV, 35
Questa strofa afferma che una volta acquisita la conoscenza suprema, l’individuo sviluppa una visione del mondo che non è più frammentata, ma che diviene perfettamente olistica: allora non ci sono più barriere tra noi e gli altri, tra noi e il mondo, tra il piano terreno e quello divino, perché pur mantenendo la propria individualità, il soggetto che ha raggiunto suddetto livello di coscienza e conoscenza si riconosce come parte integrante dell’universo e riconosce in se stesso l’intero universo, vedendo come tutto sia parte di uno stesso divino progetto, senza fratture né smagliature.
È evidente come la conoscenza cui si fa riferimento in queste strofe della Gita vada ben oltre l’ambito accademico: è quella visione interiore, che si riflette poi naturalmente anche all’esterno, tipica dei grandi mistici, dei grandi scienziati, dei grandi ricercatori, i quali, seppure per vie diverse, sono tutti approdati a quel picco luminoso di consapevolezza che ha permesso loro di vedere dentro e fuori soltanto unità, maestosità, perfezione, oltre qualsiasi tipo di possibile limite imposto da quelle dinamiche ordinarie entro le quali si muovono gli esseri umani.
Ecco, ad esempio, cosa scrive Angela da Foligno, una mistica contemporanea di dante, vissuta in Umbria poco tempo dopo San Francesco d’Assisi:
“Gli occhi della mia anima si sono aperti e ho colto la pienezza e la perfezione di Dio nelle quali è compreso il mondo intero: la terra, il mare, gli oceani, l’abisso e le cose tutte”.
Vediamo, ancora, cosa scrive il poeta Walt Whitman:
“Io penso che una foglia d’erba non sia affatto
Da meno della quotidiana fatica delle stelle,
e la formica è altrettanto perfetta, al pari di un
granello di sabbia o dell’uovo di uno scricciolo,
e la piccola rana è un’opera d’arte simile alle più famose,
e il rovo rampicante potrebbe ornare gli spazi eterei,
e la giuntura più piccola della mia mano
la più perfetta macchina può deridere,
e la mucca che rumina a capo chino supera
qualsiasi monumento,
e un topo è un miracolo tanto grande
da convincere gli scettici”.
Whitman W., “Io penso che una foglia d’erba”,
dalla raccolta Foglie d’erba
In questa poesia Whitman descrive la grandezza e la perfezione di “cose” o di esseri ai quali generalmente non si presta molta attenzione e di conseguenza non si dà molto valore, ma nel descrivere la meraviglia e la perfezione di certe piccole-grandi opere, indirettamente coglie la loro indissolubile interrelazione.
La visione olistica, di cui ho appena citato due espressioni, è ben espressa anche nelle Upanisad, antichi testi della Rivelazione antico-indiana, in cui i veggenti o rsi, i quali avevano accesso a profonde visioni interiori (darsana), potevano vedere come ogni cosa fosse collegata e permeata dal Divino, il Brahman, e come conoscendo se stessi si poteva di conseguenza conoscere la natura del creato e delle creature, nonché ristabilire l’immortale rapporto con la Divinità.
“Se anche di tutti i malvagi tu fossi il più gran malfattore, grazie alla barca della conoscenza certamente varcherai tutto l’oceano del male”.
“Come un fuoco fiammeggiante riduce in cenere il combustibile, o Arjuna, così il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutte le [conseguenze delle] azioni”.
Bhagavad-gita, IV, 36-37
Vi sono diversi esempi riportati dalla storia, di individui che conducevano una vita tutt’altro che esemplare, ma che una volta “folgorati” da comprensioni più elevate, in forza della conoscenza superiore acquisita e del conseguente livello di coscienza sviluppato, hanno lacerato lo spesso velo dell’ignoranza nel quale si trovavano avvolti, lasciandosi alle spalle errori commessi e malvagità perpetrate. È il caso, ad esempio, di uno dei dodici Alvar (nella lingua Tamil alvar significa “immerso” nel Divino …) il quale, dopo aver vissuto tra violenza, lussuria, rapine e omicidi, si dedicò alla divulgazione della sapienza vedica e divenne un grande devoto di Visnu.
Nelle due strofe appena lette la conoscenza viene paragonata, rispettivamente, a una barca e a un fuoco ardente. La sapienza dunque può diventare una solida imbarcazione grazie alla quale varcare il vasto mare dell’ignoranza, superando le tempeste esistenziali ed eludendo i mostri celati nelle profondità oceaniche dell’inconscio, oppure un fuoco bruciante che con le sue lingue incandescenti divora i cumuli di karma affastellati l’uno accanto all’altro, vita dopo vita.
“Non esiste infatti quaggiù, uno strumento di purificazione che sia pari alla conoscenza; lo scopre da sé in se stesso, al momento giusto, colui che ha raggiunto la percezione nello Yoga”.
“Ottiene la conoscenza colui che, pieno di fede, a quella solo è intento e i propri sensi doma. Ottenuta la conoscenza, ben presto consegue la pace suprema”.
Bhagavad-gita, IV, 38-39
Uno dei premi speciali di cotanta conoscenza acquisita è santi, la pace, la serenità. Tipicamente, infatti, il saggio è persona serena, tranquilla, che avendo realizzato e tesorizzato i segreti della vita e dell’universo, non ha più niente da rincorrere con affanno, niente di cui lamentarsi, niente da rimpiangere o da bramare.
Vediamo che tali caratteristiche non appartengono, viceversa, a coloro che hanno fatto grandi scorpacciate di libri e di dati, ma che nel momento del bisogno, proprio e altrui, ben poco ricavano da un sapere in verità mai raggiunto, e men che meno interiorizzato.
Più la conoscenza è autentica, profonda, ampia e soprattutto realmente parte di un soggetto, meno questi si scompone, si agita o si lamenta. Dentro di lui e fuori di lui regna la pace, ben salda su quella piattaforma di conoscenza che si erge sopra i flutti delle umane peripezie.
“Colui che non sa, che è privo di fede, che ha il dubbio nel cuore, è perduto: né questo mondo, né l’altro, e neppure la felicità appartengono a chi ha il dubbio nel cuore!”.
“Se un uomo ha rinunciato al frutto delle azioni con la disciplina interiore, se ha reciso il dubbio con la conoscenza, se è consapevole e padrone di sé, le azioni non lo legano, o conquistatore di ricchezze”.
“Recidi dunque, con la spada della conoscenza, questo tuo dubbio sorto dall’ignoranza che porti nel cuore: affidati allo Yoga e alzati, o discendente di Bharata!”.
Bhagavad-gita, IV, 40-42
Sappiamo per esperienza quante volte il dubbio ci abbia salvato da situazioni spiacevoli se non pericolose. Il dubbio, inoltre, ha un’importanza innegabile nella ricerca e nelle indagini che debbono esser fatte per approdare alla conoscenza: senza domande non c’è apprendimento, e le domande presuppongono un dubbio. Sant’Agostino, ancora prima di Cartesio, riteneva che il dubbio fosse un passaggio obbligato per approdare alla verità, visto che a quest’ultima si giunge mettendo in discussione tutto ciò che verità non è. dubitare, dunque, ha senz’altro una sua utilità, la quale può gradualmente diminuire, fino a scomparire del tutto, a seconda di quale sia l’oggetto del nostro dubitare e di quale sia la durata del dubbio. Può accadere, infatti, di rimanere imprigionati in un atteggiamento che sfocia nella patologia, quando la sequenza domanda-risposta-dubbio si sussegue ininterrottamente senza mai pervenire a qualcosa di definitivo. Ciò comporta immobilità, paralisi: in tal caso il dubbio, anziché essere anticamera della verità, genera un dedalo infinito di cunicoli mentali che ci portano sempre più lontani dalla verità stessa.
Vediamo come Arjuna, di fronte all’imminente battaglia di Kuruksetra di cui abbiamo parlato nei libri precedenti, sia bloccato nel suo agire, ammettendo espressamente la propria confusione, dicendo a chiare lettere “non so più cosa devo fare”.
Nelle tre strofe sopra riportate, con le quali si chiude il quarto capitolo della Bhagavad-gita, Krsna ripete più di una volta ad Arjuna che per coloro che sono assillati e vinti dal dubbio, nessun obiettivo è a portata di mano.
Nel contesto specifico della Gita il dubbio non riguarda questioni effimere, bensì questioni di fondo, come la distinzione tra l’essere vivente e il corpo, o la consapevolezza che la morte riguarda soltanto l’involucro fisico. L’esortazione finale di Krsna, dunque, quella che incoraggia Arjuna a recidere il dubbio sorto dall’ignoranza con la spada della conoscenza, allude a una conoscenza di natura superiore, spirituale, in forza della quale è possibile non soltanto comprendere il significato più esteriore delle cose, ma coglierne il senso più nascosto e scorgere anche quella trama invisibile che tutte le collega, l’una all’altra, che le rende parte di qualcosa di unico e di unitario, un disegno immenso del quale anche noi facciamo parte, e di cui siamo chiamati a riscoprire contorni e contenuti.
Priscilla Bianchi
tratto da La conoscenza segreta
cap. 9, pag. 99-113
dalla collana della Scienza della Relazione
www.edizionienea.it