I grandi metodi spirituali, anche quelli che insistono in modo più esplicito sulla eccellenza di una vita eremitica, non hanno mai escluso la possibilità di una via seguita nel mezzo delle occupazioni della vita del mondo: l’esempio dei terzi ordini ne fa fede (1). La questione cui ci proponiamo ora di rispondere è quella di sapere come sia possibile conciliare una vita spirituale intensa con gli obblighi della vita esteriore, e anche come integrare questi obblighi con la vita interiore; perché se il lavoro di ogni giorno, sia il mestiere dell’uomo o le occupazioni domestiche della donna, non costituisce un ostacolo alla vita spirituale, vuol dire che deve avere in questa via, il compito di un elemento positivo, o più precisamente quello di un veicolo secondario della realizzazione del Divino in noi.
Una tale integrazione del lavoro nella spiritualità dipende da tre condizioni fondamentali che designeremo rispettivamente con i termini di “necessità”, “santificazione” e “perfezione”. La prima di queste condizioni implica che l’attività da spiritualizzare corrisponda ad una necessità e non ad un capriccio: si può santificare, cioè offrire a Dio, ogni attività normale resa necessaria dalle esigenze della vita stessa, ma non qualunque occupazione sprovvista di ragion sufficiente o che abbia un carattere riprovevole; il che equivale a dire che ogni attività necessaria ha un carattere che la predispone a divenire veicolo dello spirito; ogni attività necessaria ha infatti una certa universalità che la rende eminentemente simbolica.
La seconda delle tre condizioni implica che l’attività così definita sia effettivamente offerta a Dio, cioè fatta per amore di Dio e senza ribellione contro il destino; è questo il significato delle preghiere con le quali si consacra, nella maggior parte delle formule tradizionali se non in tutte, il lavoro che si trova così ritualizzato, vale a dire che diviene un “sacramento naturale”, specie d’ombra o di controparte secondaria del “sacramento soprannaturale” che è il rito propriamente detto.
La terza condizione infine implica la perfezione logica del lavoro, perché è evidente che non si può offrire a Dio una cosa imperfetta, ne consacrarGli un oggetto vile; a parte questo, la perfezione dell’atto si impone come quella dell’esistenza stessa, nel senso che ogni atto ritraccia necessariamente l’Atto divino e nello stesso tempo una modalità di quest’ultimo. Questa perfezione dell’azione comporta tre aspetti, che si riferiscono rispettivamente all’attività come tale sia obbiettivamente e subbiettivamente perfetta, il che implica che essa sia conforme o proporzionata allo scopo da raggiungere; è pure necessario che il mezzo sia conforme e proporzionato allo scopo considerato, il che implica che lo strumento di lavoro sia ben scelto, poi adoperato con arte, cioè in perfetta conformità con la natura del lavoro; è necessario infine che il risultato del lavoro sia perfetto, cioè che risponda esattamente al bisogno da cui è sorto.
Se queste condizioni, che costituiscono quel che si potrebbe chiamare la “logica” interna ed esterna dell’attività sono soddisfatte, il lavoro non solo non sarà più un ostacolo alla via interiore, ma sarà anzi un aiuto per quest’ultima. Inversamente un lavoro mal eseguito sarà sempre un ostacolo alla via, poiché non corrisponde ad alcuna Possibilità divina; Dio è perfezione, e l’uomo, per avvicinarsi a Dio, deve essere perfetto sia nell’azione e sia nella contemplazione non-agente.
Frithiof Schuon
tratto da Conoscenza (Anno XXIX – n° 6/1992 – 1/1993)
Rassegna bimestrale dell’Accademia di Studi Gnostici ed Iniziatici
Note
Ricordiamo pure in proposito l’esempio ben noto del “Pelerin russe”.