A – Sono qui pressato da dubbi, da conflitti e dal rifiuto della vita. Ho sperimentato quelli che normalmente si chiamano piaceri mondani, mi sono dedicato alla pittura, ho fatto l’attivista di una corrente politica estremista; insomma, ho sperimentato di tutto; eppure eccomi qui costretto dal disgusto per ogni cosa, dall’inquietudine e dall’insicurezza. Devo anche aggiungere che mi sono drogato più volte. Ciò mi ha abbrutito ancora di più: penso di essermi assuefatto. Che squallore! Sono entro un circolo chiuso e non so come uscirne; non posso andare avanti in questo modo. Se mi abbandono alle esperienze senza riflettere mi stordisco, mi alieno, mi dimentico; se, invece, mi estraneo dall’esperienza mi prende un’angoscia terribile di solitudine e di vuoto. Se sono solo ho paura, e quindi cerco la compagnia di altri che però mi lascia ancora più vuoto.
R – Fratello mio, di fronte alle esperienze sensoriali relativistiche possiamo avere due atteggiamenti: quello in cui siamo identificati profondamente con l’oggetto di esperienza sì da dimenticare il nostro stesso essere; in questo stato rimaniamo, come tu dici, affogati e storditi; più che sperimentare siamo sperimentati, più che vivere siamo vissuti: è la condizione dell’animale. L’altro è quello di un soggetto discriminante che valuta, che s’interroga e interroga le cose: ma, a una coscienza interrogante, molte esperienze possono risultare assurde, irrazionali. D’altra parte, se ti interroghi consapevolmente comprendi che un’esperienza sensoriale la trovi bella perché momentaneamente segui la linea di minor resistenza. Un dato ti piace perché lo desideri, ma se cessa il desiderio cessa anche il piacere. E il desiderio, sappiamo, è irrazionale, capriccioso e spesso porta l’individuo alla deriva.
A – E allora che cosa devo fare? Suicidarmi? In questi ultimi tempi ho pensato di farlo, però l’ho sempre rimandato.
R – Dici bene, questo è un altro desiderio, e il desiderio non si risolve con la sua gratificazione (ciò costituisce solo scarico di tensione), ma con la sua comprensione e la sua conseguente trascendenza. Hai mai guardato il desiderio in faccia senza sovrastrutture mentali?
A – No. Non capisco. Il guaio è che ho tanti anni di fronte a me e questo mi angoscia. Perché non riesco a trovare la soluzione dei miei problemi vitali? Perché questo mondo è falso e sordo a ogni dialogo? Devo riconoscere che sono all’estremo delle mie forze e della mia disponibilità percettiva.
Mi può aiutare? Mi può ridare la dignità di essere un uomo dotato di ragione? Vorrei tanto che da questi colloqui, dal nostro dialogo realizzativo – come lei lo chiama – potesse nascere in me la certezza della mia più profonda realtà. Anzi, devo dire che questa realtà rimane l’unica mia àncora di salvezza.
R – Permettimi prima di tutto di chiarire alcuni punti fondamentali che riguardano il nostro rapporto.
Ogni vero dialogo non si svolge tra due individui, ma tra due cuori, tra due coscienze disponibili, tra due menti ricettive, tra due paia di occhi che cercano di comprendersi. Laddove c’è contrapposizione, reazione, fanatismo e superbia non può esserci dialogo e comprensione. Avere una coscienza disponibile non vuol dire trovarsi in condizione passiva o inerziale. Dialogare, nell’accezione tradizionale, significa percorrere una via, un sentiero; significa incontrarsi.
Un altro punto è questo: la verità delle cose sta nelle cose stesse, come la soluzione di un problema sta nella comprensione dello stesso problema; la verità dell’essere sta nell’essere e cercarla fuori dell’essere sarebbe come se tu volessi cercare fuori di te quel vestito che già hai indosso.
Ancora: se la verità che emerge dal nostro dialogo non viene vissuta dalla tua coscienza, non potrai risolvere i tuoi problemi conflittuali.
A – Sono disposto a tutto pur di trovare me stesso; e se sono qui vuol dire che almeno un filo di speranza c’è. Però quanto lo sento tenue!
R – Tu speri di avere la possibilità, o meglio, la certezza della tua Realtà? Ebbene, sarebbe opportuno prima di tutto che noi comprendessimo il significato della parola Realtà.
Che cosa intendi per Realtà? Che significato dai a questa parola?
A – Per me è reale ciò che posso sperimentare, percepire, osservare, ciò che cade sotto la mia consapevolezza sensoriale.
R – Eppure, fino a oggi, la “realtà” che hai sperimentato ti ha dato solo conflitto, confusione e incertezza; d’altra parte è proprio per questo che vuoi dirigerti verso altre realtà. Non è vero?
A – Sì, è vero.
R – Allora, per te, quante realtà vi sono?
A – Direi che vi sono molteplici esperienze dell’unica Realtà.
R – In questo caso le esperienze, essendo parte dell’unica Realtà, dovrebbero considerarsi altrettante realtà; ora, se già queste esperienze che hai fatto e che secondo te appartengono alla Realtà ti hanno portato nel conflitto, devi ovviamente pensare che anche eventuali altre realtà non possono portarti che nell’incompiutezza.
A – Non mi costringa in un vicolo cieco, la prego, mi ci trovo già. Sono destinato a vivere perennemente nel conflitto e nell’incertezza? Perché questo terribile destino proprio a me?
R – Devi rilassarti, fratello mio. Io ti dico che, se sei qui, non tutto è perduto; in fondo l’hai capito anche tu.
Vedi, se sei venuto semplicemente a trovare conforto, posso anche dartelo; ma ti assicuro che i veri problemi della vita non si risolvono andando a mendicare qualche briciolo di commiserazione. Sono certo che se ti predisporrai a un’adeguata posizione coscienziale, lentamente troverai te stesso.
A – Che cosa glielo fa credere?
R - La tua intelligenza e il tuo dolore che hanno portato a maturazione la tua coscienza.
A – Ha fiducia in me? Ha fiducia in un fallito come me? In un essere abbrutito, drogato e che ha anche odiato?
R – Sì. Diversamente non ti avrei accolto. Mio caro, tu hai accettato me e io ho accettato te, e non c’è cosa più bella che l’accettarsi, l’incontrarsi. Non credi?
A – Mi fa vergognare. Io sono qui per disperazione. Non sono io che l’accetto, è la mia disperazione; comprende che tristezza? Ma lei perché mi accetta?
R – Non sono io che ti accetto: è la mia beatitudine e la mia comprensione.
A – Perché il suo io non mi accetta? Non ha detto che è cosa tanto bella l’incontrarsi?
R – Non ti accetta per il semplice motivo che quella comprensione e quella beatitudine sono senza io.
A – Che strano linguaggio è il suo!
R – Però stiamo precorrendo i tempi; più in là comprenderai. Dicevamo poc’anzi …
A – Ho chiesto se sono destinato a vivere perennemente nel conflitto e nell’incertezza.
R – Non ti posso rispondere; dobbiamo cercare assieme per vedere se c’è una via di uscita.
Tu dici che pur avendo fatto delle “reali” esperienze nei più svariati campi dell’espressione umana, ti ritrovi completamente vuoto, infelice, in conflitto e al limite della disperazione: non è vero?
A – È giusto, non lo nego.
R – Ebbene, se tutto ciò che hai sperimentato fosse appartenuto veramente all’ordine del reale, pensi che ti troveresti ora in questo stato di confusione?
A – Che cosa vuol dire? Che la realtà deve portare felicità e giubilo?
R – Precedentemente hai detto che vorresti trovare finalmente la certezza della tua più profonda Realtà. Io immagino che questa tua spinta alla realizzazione sia motivata dal fatto che, sperando di trovare la Realtà di te stesso, tu speri di trovare altresì la beatitudine del tuo cuore, diversamente a che prò andare a sperimentare altre realtà-illusioni? Mi sbaglio?
A – È proprio così. Io vorrei uscire da questo stato di solitudine e d’irrequietezza. Ho detto che vorrei trovare la certezza della mia Realtà più profonda perché penso che solo così mi troverò in pace con me stesso.
R – Dunque, soltanto la Realtà di te stesso potrà darti la certezza di ogni compiutezza. Ciò implica, diciamo così, che tutte quelle altre realtà esteriori, per quanto percepite e vissute, non ti hanno potuto dare la compiutezza. Questo porta ancora a concludere che esse non sono poi realtà e che, con tutta probabilità, ciò che hai percepito e sperimentato doveva appartenere a un certo ordine di fenomeno imprigionante.
A – Però, devo aggiungere che ho avuto momenti di felicità e di godimento. La droga mi ha schiavizzato, ma mi ha dato e mi dà anche attimi di felicità e di benessere.
R – Hai detto momenti, addirittura attimi, ciò implica che quel particolare dato apportatore di felicità e di benessere non doveva appartenere a una realtà assoluta, ma a una realtà relativa e contingente. Ora, tu vuoi una felicità impermalente, discontinua, che viene a te e poi se ne va, oppure vuoi essere beatitudine costante?
D’altra parte, se questa felicità-godimento di momenti o di attimi, per quanto sperimentata, ti ha costretto nella solitudine e nell’incertezza, dobbiamo convenire ch’essa non porta alla compiutezza integrale. Non ti sembra?
Se le tue percezioni-sensazioni e le tue esperienze fatte fino a oggi ti avessero dato la compiutezza, tu pensi che ti troveresti qui in questo stato?
A – Penso proprio di no. Non avrei avuto nessun motivo di essere qui e in queste condizioni. Però, non può darsi che psicologicamente io sia un disadattato per cui l’armonizzarmi con la vita mi riesce difficile?
R – Non direi perché, in fondo, hai sperimentato ogni formula di vita, ti sei tuffato in ogni sorta di attività e di rapporto, hai avuto ideali e hai comunicato, solo che tutto questo non ti ha lasciato soddisfatto, non ti ha riempito, non ti ha dato ciò che speravi. Devi pur riconoscere che vi sono delle coscienze a cui questo genere di vita relazionale non conviene più. Se tu ti trasferissi nella foresta volendo condividere l’espressione di vita del “selvaggio” ti troveresti, ovviamente, disadattato, ma ciò non implica in te una tara psichica, tutt’altro.
Possiamo concludere che alcune coscienze sono predisposte ad assimilare espressioni di realtà di un altro ordine.
A – Questo mi consola, ma come faccio a comprendere che il mio, diciamo così, è un caso di crescita coscienziale e non di fuga?
R – È molto semplice: quando vi sono soltanto degli scompensi psichici, nel sottofondo coscienziale rimane sempre un desiderio insoddisfatto di sperimentare, un volersi manifestare secondo quella determinata espressione di vita; in altri termini, si vorrebbe ma non si può perché vi sono delle resistenze o chiusure psichiche. Così, una parte di noi chiede, mentre l’altra parte, per molteplici ragioni, non si rende disponibile. In tal caso basta rieducare la parte contratta e ogni cosa si rimette al suo posto.
A – Però io ho sperimentato, ho vissuto, ho sofferto e ho anche gioito, qualche volta; solo che questo vivere non ha dato la soluzione ai miei problemi di fondo.
R – Il che significa che questo mondo fatto di acquisizioni, di appetiti sensoriali di ogni livello e grado, questa società basata sul profitto, sul consumismo, sulla competizione, sulla sopraffazione e sulla droga, questo mondo che cerca la libertà dell’io più che la libertà dall’io1, non hanno trovato in te risposta coscienziale, non ti hanno donato quella compiutezza di cui la tua anima va in cerca. Da qui le tue continue frustrazioni, le tue angosce, il tuo rifiuto e la tua incertezza. La società dell’oggi si è circoscritta esclusivamente in un mondo fisico, ma l’essere, nella sua totalità, è qualcosa di più di un corpo fisico, con le sue secrezioni glandolari.
A – Ha ragione; la sofferenza e il conflitto non sono sempre motivati da immaturità psicologica, tutt’altro. Il dolore nasconde molte facce, ma spesso – impietriti nella convinzione di un’unica direzione – noi ci precludiamo la sua giusta comprensione. D’altra parte, per afferrare questo evento dovremmo anche conoscere l’esistenza di altre direzioni. Quello che manca, in questa società unilaterale e unidirezionale, è il riconoscimento che l’Individuo è più dell’individuo, che l’Uomo nella sua totalità è qualcosa di più della condizione uomo. L’individuo in codesta società pietrificata si è costretto entro limiti che lo soffocano e lo mortificano.
Lei ha parlato prima di assimilare una certa espressione di realtà di un altro ordine. In effetti mi accorgo che dovremmo accordarci sul termine realtà, così comprendo meglio.
CHE COSA INTENDIAMO PER REALTÀ
R – È la prima volta che ti sento parlare da homo sapiens. Bene, ritorniamo al punto di partenza. Che cosa intendiamo per Realtà? Che significato diamo a questa parola?
A – A questo punto mi deve illuminare sul perché mi trovo nell’incapacità di penetrare l’essenza di certe cose. Io sono radicato nella convinzione che ogni cosa che vedo ed esperimento debba essere reale; mi sembra naturale pensare in questo modo.
R – Vediamo di comprenderci. Dunque, tu per realtà intendi quello che puoi percepire, sperimentare; quello che i tuoi sensi possono captare, e così via. D’altra parte convengo che la nozione comune del concetto di realtà è questa. Ma dovremmo vedere se tale concetto risponde al vero o no, non ti sembra?
La nostra tesi allora è questa: che cosa intendiamo per realtà?2 Con quali strumenti o mezzi possiamo raggiungerla? A quali risultati porta la conoscenza della realtà?
Il realismo empirico sostiene che ogni dato che cade sotto i nostri organi percettivi è reale, per cui il divenire-movimento è reale.
A – Allora mi trovo nel giusto: non ho affermato questo?
R – Sì, hai affermato questo, però il realismo sostiene anche che vi sono cose le quali, pur percepite sensorialmente, e quindi sperimentate, non sono reali.
A – Ciò mi stupisce: si può sperimentare un dato non-reale? Questo che stiamo dicendo mi sembra una contraddizione, un non senso.
R – Un miraggio nel deserto, per quanto effettivamente percepito, non è reale. Percepiamo due lune, ma ci viene anche detto che la prima è reale e la seconda è falsa perché appartiene al fenomeno della rifrazione. Percepiamo un suono, però altri non lo percepiscono; ora tale suono per il realismo empirico non è reale perché non può essere percepito da altre persone, essendo, appunto, un dato soggettivo. Percepiamo una forma statica com’è quella di una pietra, però ci viene ancora detto che tale forma non è statica, bensì dinamica perché è composta di una massa elettronica in continuo movimento. Quante cose hai percepito sotto l’effetto della droga che poi sono risultate non vere?
Come vedi, non tutto quello che i nostri sensi percepiscono è reale e giusto.
A – È la prima volta che mi sveglio a una simile consapevolezza.
R – Certo, la maggior parte degli uomini è addormentata senza neanche saperlo. E se smetti di drogarti acquisterai maggior consapevolezza, per quanto la droga possa darti l’illusione di una maggiore lucidità ed esuberanza psichica. In ogni modo, tutto questo ci fa concludere che vi è una contraddizione nella formulazione del concetto di realtà, e una realtà contraddittoria non è una realtà assoluta. Ne convieni?
A – Certamente. Sa che cosa le dico? La filosofia incomincia a piacermi.
R – Molto bene, l’uomo si distingue dall’animale perché usa la ragione. Lo stesso realismo empirico, comunque, riconosce l’insufficienza degli organi percettivi, e per dare validità a un evento-dato ricorre al metodo d’indagine della riproducibilità dell’esperimento (ripetizione dell’esperimento-osservazione) e della possibilità che altri – oltre noi – possano osservare e ripetere a volontà l’esperimento-osservazione. Questo metodo d’indagine, però, presentando delle incrinature, non regge a un’attenta analisi.
A – Ho sempre pensato che questo metodo fosse infallibile per cui mi riesce difficile comprendere l’errore di valutazione. L’oggetto che si dimostra stabile e costante, e l’universalità del consenso sul suo conto sono certamente fattori sufficienti per sostenere la sua realtà.
R – Ti prego di avere la mente libera da preconcetti e l’attenzione tesa alla comprensione di quanto andiamo dicendo.
La ripetizione dell’evento-osservazione presuppone il convincimento che un dato, per essere reale, dev’essere sempre esistente; cioè deve avere una sua costante temporale. Deve trovarsi, ogni qualvolta lo si osserva o lo si esperimenta, nella sua intrinseca natura di essere.
Così il valore di realtà è riferito alla condizione temporale, alla durata.
Se – ad esempio – il sole si alza all’orizzonte e questo evento si ripete costantemente, allora possiamo arguire che sia reale. Qui sta l’incrinatura. Noi sappiamo che ogni dato empirico subisce modificazione, trasformazione e soluzione o sparizione. Così, oggi possiamo percepire un dato e domani non percepirlo più, il che significa che la costante tempo non risulta poi essere costante. La scienza ci dice che una stella nasce, cresce e svanisce; quindi, la condizione temporale non può ritenersi reale, per cui dobbiamo convenire che il metodo della riproducibilità dell’evento non è di carattere assoluto, bensì relativo.
A – Però dobbiamo anche convenire che se un dato viene osservato più volte, deve pur avere un’esistenza; non possiamo percepire il nulla, l’occhio e i sensi non possono vedere il niente.
R – Giusto, ciò che è questo “qualche cosa” lo vedremo più in là. Per il momento siamo interessati a “circoscrivere” il concetto di realtà.
Un’altra lacuna si ha quando diciamo che quell’evento, per avere validità, dev’essere riprodotto o visto anche da altre persone. Così, il levar del sole non solo dev’essere percepito con continuità da noi che lo affermiamo, ma anche da altre persone perché la sua affermazione deve presentare carattere di universalità.
A – E questo mi sembra giustissimo, diversamente ognuno potrebbe dire di vedere ciò che in verità non esiste.
R – Si dimentica però di tener presente alcune cose molto importanti.
A – Ma l’affermazione di un dato condivisa da molti mi sembra che debba essere vera in modo incontrovertibile.
R – Quando affermiamo l’esistenza di un dato possiamo chiederci: tutti i soggetti osservanti si trovano sul nostro stesso particolare sistema di coordinate? Se sì, dobbiamo convenire che l’osservazione-evento si riferisce solo a quel particolare sistema di coordinate e non ad altri. Il che implica che ci troviamo di fronte a un giudizio generale e non universale, e il generale rientra sempre nella sfera dell’individuale, vale a dire dell’individuale generalizzato. Così, potrebbe porsi il caso in cui un individuo che si trovi su un altro sistema di coordinate, per esempio fuori dall’orbita terrestre, non percepisca quello che percepiamo noi. Infatti egli, posto fuori del nostro tempo-spazio, non percepisce alcun’alba né alcun tramonto. E se qualcuno parla di alba e di conseguente tramonto e oscuramento, egli pensa che questo qualcuno stia vaneggiando. In altri termini, per lui l’evento alba è una non-realtà, mentre per noi è necessariamente reale.
C’è da fare un’ulteriore considerazione: gli altri osservatori hanno gli stessi mezzi cognitivi che abbiamo noi? Se hanno gli stessi mezzi non possono non vedere quello che vediamo noi. Se tutti noi abbiamo un occhio per osservare dati tridimensionali non possiamo osservare che dati tridimensionali. Quindi anche qui c’è una limitazione, per cui possiamo dire che quella realtà riguarda quegli osservatori che hanno identici strumenti cognitivi e identico sistema di coordinate spazio-temporale. In ultima analisi, è una realtà relativa e non assoluta.
Da quanto abbiamo detto possiamo concludere: per il realismo empirico è reale tutto ciò che percepiamo in modo oggettivo, però questa realtà non è assoluta perché vi sono cose che percepiamo e che reali non sono. A che cosa è affidata la validità nella dimostrazione della realtà o non-realtà di un dato? Si risponde: a un particolare metodo d’indagine che consiste nell’osservazione ripetuta e continua dell’evento-quadro e nella possibilità che tale evento-quadro possa essere osservato e sperimentato da altre persone a volontà. Quando si hanno la periodicità dell’osservazione-evento e la generalità della verificabilità, allora un dato è ritenuto reale. Ma questo tipo di realtà è di ordine sensoriale-analitico, dunque è frutto di una conoscenza infra-individuale, conoscenza riferita ai cinque sensi e coordinata dalla mente selettiva empirica, mente che appartiene a un particolare ordine coscienziale; diremo, in termini scientifici: a un particolare e ben definito sistema coscienziale-mentale di coordinate. Inoltre, abbiamo visto che tale realtà non è assoluta ma relativa, quindi contraddittoria.
D’altra parte, il realismo conoscitivo, o conoscenza empirica, è stato già vagliato attentamente dal filosofo Immanuel Kant che ha dimostrato come esso non risponde affatto alla realtà in sé, ma alla semplice rappresentazione mentale che noi ce ne facciamo. Quindi, con la conoscenza empirica non abbiamo la realtà albero nella sua intrinseca identità, ma una nostra rappresentazione mentale dell’albero, il che è un’altra cosa.
Un ulteriore aspetto molto importante di questo tipo di conoscenza relativistica è che la sua finalità consiste solo nell’avere nozioni della quantità delle cose senza apportare all’individuo un miglioramento qualitativo coscienziale. Conoscenza, dunque, non trasformatrice, non catartica, non creatrice, ma diretta solo lungo una linea orizzontale di sperimentazione.
Se adesso consideri tutte queste cose potrai capire che i tuoi indefiniti movimenti lungo la linea orizzontale ti hanno portato solo una quantizzazione di rapporti e di esperienze sensoriali senza trasformare in meglio la tua coscienza, anzi hanno determinato una degradazione della tua stessa anima. Così hai un’erudizione di fatti, di eventi, di rapporti sui vari aspetti della vita, ma non hai la pace del tuo cuore.
Comunque, occorre riconoscere che l’aspirazione più recondita dello stesso empirismo scientifico è proprio quella di trovare in ogni cosa una costante, un universalmente valido, un’identità permanente. Difatti, ecco quello che afferma Max Planck:
«Nel primo paragrafo di questo schema autobiografico, sottolineai che per me la ricerca di qualcosa di assoluto è lo scopo più nobile e più degno della scienza. Il lettore potrebbe ritenere contraddittorio questo mio confessato interesse per la teoria della relatività. Ma sarebbe fondamentalmente erroneo considerare le cose in questo modo, poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto, e ha un significato solo quando è confrontato con qualcosa di assoluto. La solita frase “tutto è relativo” è ambigua e priva di senso. Anche la teoria della relatività è basata su qualcosa di assoluto, cioè la determinazione metrica del continuo spazio-temporale; ed è compito particolarmente interessante la ricerca dell’assoluto, che solo può dare senso a qualcosa di relativo. … Il nostro compito è di trovare in tutti questi fattori e dati l’assoluto, l’universalmente valido, l’invariante che vi è nascosto»3.
Compito, quindi, di ogni vero e autentico ricercatore è quello di trovare la costante, l’universalmente valido, l’invariante e l’unicità di tale costante; vale a dire ciò che veramente è, e non ciò che appare; e quello che veramente è non è altro che l’Essere nella pura accezione del termine. Da qui la nostra Filosofia dell’Essere4.
Siamo arrivati al nostro problema di fondo: l’individuo va ansiosamente alla ricerca dell’Essere, di ciò che è, del Reale in quanto universalmente – e non generalmente – tale, della Verità nella sua Unità totale, non nella sua frammentarietà e contraddittorietà. Ogni vero filosofo, scienziato, religioso, ogni autentico ricercatore non tende ad altro se non a trovare la Costante, la Realtà assoluta.
* * *
A – Eccomi qui per riprendere il nostro dialogo. In questo periodo la mia mente è stata assorbita da quanto mi ha detto, per cui non ho avuto tempo di pensare alle mie sciagure né di seguire gli amici. Che strana sensazione essere sbattuto di colpo in un mondo di pensiero e di problemi filosofici!
R – Fratello mio, cerco di portarti fuori dalle secche in modo da farti trovare su un’isola, ben protetto dalle torbide esperienze del tuo passato; da lì tu stesso potrai spiccare il volo verso altri lidi.
A – Pensa che ce la farò?
R – Ho detto che ho fiducia nella tua intelligenza.
A – Mi tranquillizza, oltre al fatto che sono contento di sapere che qualcuno ha fiducia in me.
Dunque, se ho ben compreso, al concetto di Realtà dobbiamo dare l’attributo di costante, universalmente valido e invariante?
R – Diremo che la Realtà in quanto tale è priva di attributi; quegli aspetti specifici che rispondono alla costante, ecc. sono consustanziali alla stessa Realtà. Così, quando diciamo che l’individuo è vita, il termine “vita” non costituisce un attributo dell’individuo, ma è consustanziale allo stesso individuo; l’individuo privo di vita non può esservi e la vita che non si esprime tramite una consapevolezza espressiva non può dirsi vita.
A – Ho compreso perfettamente che la Realtà è costante, è invariante, è universalità, e ne deduco che devo trovare in me questa costante.
R – Vedo che ti stai aprendo all’intuizione. A questo punto penso che il vero aiuto possa venirti da una filosofia che ti sappia indicare veramente questa costante.
Se ormai in te c’è sete di Realtà-costante, allora devi necessariamente trovare quella giusta Dottrina che ti conduca sulla via dell’infinito Essere universale. Non credi?
A – Certamente, e sono d’accordo. Mi sento più leggero, più sicuro e più contento. Sono approdato a una bella conclusione: c’è una Realtà costante, perché ritengo, come Planck, priva di senso la solita frase “tutto è relativo”; la mia incompiutezza mi dice che dev’esserci altresì la mia compiutezza; dietro il velo del mio conflitto-dolore dev’esserci la gioia illimitata, dietro l’allucinazione della mia droga ci dev’essere qualcosa di reale.
A questo punto vorrei conoscere la Realtà come l’intende il Vedānta Advaita e l’Asparśayoga di cui ho sentito parlare e di cui lei è un conoscitore. D’altra parte è questo il motivo per cui sono qui.
Raphael
tratto da Tat Tvam Asi (Tu Sei Quello)
Capitoli pag. 13 (La vita sensoriale è conflitto)
Pag. 22 (Che cosa intendiamo per realtà)
Edizioni Asram Vidya
Note
1 Cfr. Raphael, Alle Fonti della Vita, cap. “Libertà e schiavitù”. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.
2Cfr. Raphael, Il Sentiero della Non-dualità, cap. “Reale e non-reale”. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.
3 Max Plack, Autobiografia scientifica. Einaudi.
4Cfr. Raphael, La Filosofia dell’Essere e Di là dal Dubbio, cap. “Filosofia dell’Essere”. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.