Sip, Telecom, Tim? Un vecchio obiettivo dei “poteri forti” e dei “poteri occulti”. Un gioiello corroso nel tempo da tutti coloro che l’hanno insidiata, insediata e attraversata ignobilmente, fagocitandone la ricchezza economica e l’alta qualità delle risorse, perse nel tempo.
Molti sono gli uomini, della classe dirigente italiana, che l’hanno attraversata, che mascherando le loro vere intenzioni (il mandato occulto ricevuto) l’hanno corrosa, corrotta, indebolita, inquinatone il clima aziendale dei dipendenti, riempita di traditori, spie e doppiogiochisti, degradandone quel modello italiano di riferimento, creatosi nel tempo, a rappresentazione del “Lavoratore-Lavoro-Azienda” (alta qualità nella reciprocità dei rapporti) nel “mondo del Lavoro”, ridotto anche lì a territorio della precarietà non confessata (hanno cancellato tutto quello che rendeva i dipendenti orgogliosi dell’appartenenza ad un gruppo industriale invidiabile).
Chi ha partecipato a indebitarla e a oscurarne l’eticità nella leadership impugnata nel corso degli anni? Politica sanguisuga e consequenziali governi, sindacati immorali, manager mercenari, influenze industriali non illuminate, interessi dei “poteri forti” (finanza internazionale predatoria) e dei “poteri occulti” (azionati, anche in questo momento, in più espressioni).
A fine gennaio 2018, la Tim è protagonista di una notizia che molti giornali giudicano sintomatica delle lotte di potere che caratterizzano il Paese e che si riflettono, come in uno specchio, nel gruppo di telecomunicazioni italiano.
In un Consiglio d’Amministrazione straordinario, convocato in tutta furia nella mattina del 25 gennaio 2018, Giuseppe Recchi, vicepresidente di Tim, rimette le deleghe operative affidategli sulla sicurezza, anche se conferma di rimanere membro del CDA (Consiglio d’Amministrazione). Per comprendere tuttavia la rilevanza di questa operazione, si deve tornare al 16 ottobre 2017, quando il Consiglio dei Ministri guidato da Paolo Gentiloni, preso atto della significativa partecipazione nell’azionariato Tim della francese Vivendi, decide, per ragioni di “pubblica sicurezza”, di esercitare la “Golden Power” – un’attività di controllo – su alcuni asset della società di telecomunicazioni italiana, attraverso un provvedimento notificatole il 2 novembre 2017.
Alla fine di un’attività istruttoria durata qualche mese, il Governo italiano, ravvisa «una minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti» [http://www.lastampa.it/2017/11/02], annunciando per questo motivo l’esercizio in Tim di “poteri speciali” mediante l’imposizione di determinate disposizioni e condizioni specifiche. Tra queste, per ragioni di sicurezza nazionale, riguardo la “rete” di Tim e altre due società del Gruppo, Sparkle – società che gestisce i collegamenti NATO – e Telsy – società che fornisce telefonini e altri apparati a prova d’intercettazione alle istituzioni, nazionali e internazionali, tra cui il Governo italiano stesso – la necessità di individuare un garante. Giuseppe Recchi è italiano e membro del Consiglio di Amministrazione nel Gruppo per cui, di concerto, gli vengono affidate particolari deleghe sulla sicurezza, in funzione del fatto che si tratta di “(…) società titolari delle attività di rilevanza strategica per la difesa e la sicurezza nazionale (…)” [http://www.lastampa.it/2017/11/02]
Del resto i francesi in Tim con poco meno del 24% di azioni – come se l’Italia fosse una loro colonia – si comportano da padroni nominando diversi consiglieri nel CDA, il Presidente della società, Arnaud Roy de Puyfontaine – a sua volta Amministratore Delegato e Presidente del Consiglio di Gestione di Vivendi –; l’Amministratore Delegato, l’israeliano Amos Genish uomo di fiducia di Vincent Bolloré. Accentrando la direzione “Acquisti” – dove nascono i contratti con i fornitori – su Michel Sibony altro fedelissimo di Bolloré – responsabile a sua volta del “Procurement Departments” di Vivendi e infine facendo affiancare il direttore finanziario Piergiorgio Peluso, da Patrick Clement, uomo in forza al dipartimento finanza di Vivendi. Evidenze da cui dovrebbe apparire chiara la spudoratezza con cui Vivendi, nell’agosto 2017, accusata dalla CONSOB – l’autorità italiana per le società quotate in borsa – di esercitare una posizione di controllo sul Gruppo italiano – evidenza che per legge la obbligherebbero al consolidamento del debito del Gruppo italiano –, rigettava le evidenze dichiarando di esercitare al massimo una funzione di “direzione e coordinamento” [http://www.huffingtonpost.it/2018/01/25], frase che come un mantram da quel momento è stata impressa in tutte le comunicazioni ufficiali che partono da Tim.
Provvedimento, quello sul Golden Power, sul quale Tim-Vivendi ricorre al Presidente della Repubblica, ma solo per un aspetto della questione, il pericolo di una multa che grava sulla società italiana per circa 300 milioni di euro. Ammenda dovuta alla mancata comunicazione del “controllo” per l’appunto, cui la società italiana era tenuta (curioso a questo riguardo che la multa viene indirizzata a Tim e alle sue casse piuttosto che a Vivendi Sa). L’altro, quello della commistione del pubblico nel privato, viene invece accantonato, tanto che la società italiana rinuncia, entro i termini consentitegli per legge, a fare ricorso al TAR.
L’uscita dunque di Recchi, tra l’altro vicina alla diffusione di voci che davano in dimissione anche il terzo Amministratore Delegato a guida francese, Amos Genish, pone significativi interrogativi sul senso di questa operazione.
Per rispettare le prescrizioni contenute nel DPCM (Decreto del presidente del consiglio) sul Golden Power, il sostituto di Recchi dovrà non solo essere un italiano ma dovrà avere il “nos” (nulla osta di sicurezza) e il “placet” del Governo italiano e a questo proposito, insistentemente voci di stampa, continuavano a fare il nome di Franco Bernabé, uomo gradito anche a Vincent Bolloré.
Di certo, in ballo, in questa questione ci sono i dati e i destini delle reti di telecomunicazione italiana e internazionali, tutti temi per l’appunto, di interesse strategico e nazionale su cui Bernabé dovrà mettere mano.
Su tutta questa questione resta tuttavia un altro nodo da chiarire, quello che vede TIM sacrificata da Vivendi all’altare della compagine berlusconiana, il cui contendere è ben spiegato da un giornalista, Salvatore Bragantini, del quotidiano on line “Lavoce.info”:
“(…) Bolloré aveva (…) concordato con il gruppo Berlusconi una partecipazione incrociata; in base all’accordo, Vivendi avrebbe aiutato il gruppo a finanziare l’operazione acquistando Mediaset Premium, iniziativa mai decollata economicamente. Poco prima della data di esecuzione dei contratti, però, i francesi eccepivano di essere stati tenuti all’oscuro del reale andamento di Premium, rifiutandone l’acquisto.
Il gruppo francese ha intanto costruito una quota di poco inferiore al 29 per cento in Mediaset, senza l’accordo e anzi in contrasto con il gruppo Fininvest, che ne ha il controllo con il 40 per cento circa. Una successiva sentenza dell’Agcom ha accertato che le due partecipazioni di Vivendi (in Tim e in Mediaset) vìolano alcune norme sulla concorrenza; l’Agcom ha quindi congelato il diritto di voto sulla quota in Mediaset eccedente il 10 per cento, dando a Vivendi un anno per smontare una delle due posizioni.
(…) Nel frattempo, Mediaset ha convocato un’assemblea per aumentare i poteri di nomina dei propri amministratori in capo alla maggioranza (Fininvest), in funzione di contrasto a Vivendi. A sua volta la società francese cerca di fermare le iniziative legali assunte da Fininvest/Mediaset contro di lei, nonché le modifiche statutarie; e pare interessata nel lungo termine più a Tim, che controlla, rispetto a Mediaset, ove incontra un efficace fuoco di sbarramento. I francesi han dunque due partite aperte con il gruppo Berlusconi: una sul mancato acquisto di Mediaset Premium, l’altra su come vendere, o almeno ridurre parecchio, la partecipazione in Mediaset. Sono dunque costretti dalle circostanze a un accordo, per il quale Tim fa un gran comodo. È la parte debole – oggetto del contendere e pedina di scambio – nel confronto fra Vivendi e il gruppo Berlusconi.
Ora sulla stampa si legge che Tim ha approvato, senza l’assenso di diversi consiglieri indipendenti, quindi solo a maggioranza, un accordo per acquistare da Mediaset alcuni contenuti. In una precedente stesura, l’acquisto avrebbe dovuto farlo una joint venture fra Tim e Canal+ (gruppo Vivendi). Il timore che una simile intesa, in quanto fra parti correlate, dovesse passare sotto le forche caudine di un esame più approfondito, pare abbia indotto ad accollarlo direttamente a Tim. L’accorgimento non muta la sostanza di un accordo fra Vivendi e Fininvest, del quale la povera Tim, che figura come soggetto, è invece l’oggetto.
Tanto più che apprendiamo, sempre dalla stampa, che la chiusura del contenzioso sul mancato acquisto di Mediaset Premium sarebbe bell’e pronta; manca solo la decisione di Tim di ingurgitare la medicina (i contenuti Mediaset) che i due contendenti le hanno prescritto. Appena firmato l’accordo, sarebbero chiuse entrambe le partite: sia il contenzioso su Mediaset Premium, sia quello sull’uscita di Vivendi da Mediaset. (…)”
Secondo fondi di stampa si tratterebbe di un’operazione che peserebbe sulle casse di Tim per circa 600 milioni di euro [www.corrierecomunicazioni.it], che andrebbero a rimpinguare le casse del bilancio di Fininvest. Questa operazione è stata arrestata dall’inaspettato ostracismo del collegio dei sindaci, che hanno presentato un esposto alla CONSOB. Tim-Vivendi, come spiegato, aveva fatto approvare la joint-venture sulla base di maggioranze semplici bollando tutta l’operazione come “di minore rilevanza”. La CONSOB al contrario è intervenuta accettando “(…) l’interpretazione dell’organo di vigilanza interno, secondo il quale si tratta di un’operazione “di maggiore rilevanza” che necessita di maggioranze molto più ampie in consiglio per essere approvata. E finora cinque i consiglieri di minoranza o indipendenti, non espressi da Vivendi, si sono astenuti o hanno votato contro. Alla luce della decisione della Consob, che potrebbe sfociare in sanzioni amministrative, il collegio dei sindaci (salvo sorprese) impugnerà la joint-venture in tribunale per farne annullare gli effetti.” [www.corrirere.it/economia/ 21 dicembre 2017]. Il che significa che Vivendi è stata costretta a mediare con le minoranze interne per far passare l’accordo.
Nel frattempo su tutt’altro fronte Tim-Vivendi ha dichiarato esuberi per circa 7500 dipendenti e l’adozione di una solidarietà espansiva, verso i propri dipendenti, che prevede una riduzione dell’orario di lavoro (e una riduzione dello stipendio) di circa 20 minuti al giorno. Tagli che secondo fonti di stampa, dovrebbero consentire di generare risparmi a regime per quasi 500 milioni di euro [www.ilgiornale.it] – 240 milioni l’anno, dovuti alla sola riduzione di orario –, quando si dice che “i conti tornano”.
In questi giochi di potere gli scenari cambiano velocemente, così verso questo fine marzo 2018 si intravedono le tracce di superficie degli azionamenti occulti sferrati da più forze da più direzioni.
È grazie agli errori (voluti o meno) dei grandi manager che l’hanno gestita, connessi a vari titoli a gruppi di potere occulti e a certa politica (vedi governo Prodi nel 1997 che apre la privatizzazione di Telecom e il governo D’Alema nel 1999 che non contrasta ma fa da testimone consenziente-benedicente alla scalata di Colaninno e Gnutti, definendoli “capitani coraggiosi”; e nel 2001 il membro di rilievo di allora, del Bilderberg, Marco Tronchetti Provera (il capitalista senza capitali che sfrutta Telecom portandosi appresso 40 miliardi di debiti, forte solo delle alleanze di potere), con l’ingresso delle banche tra i migliori azionisti, Marco Patuano, Flavio Cattaneo, ecc., che hanno portato Telecom Italia nell’attuale situazione, a completa disposizione di “predatori stranieri” ben serviti dai soliti italiani saprofiti. Dal 1999 ad oggi i debiti sono aumentati esponenzialmente: dagli 8 miliardi di allora ai troppi miliardi di oggi. Gli utili anche se sempre presenti si sono dimezzati come si sono più che dimezzati i dipendenti.
Dal pubblico al privato a pagarne le spese, di ogni “invasione aziendale di vertice”, sono stati sempre i lavoratori-dipendenti con il peggioramento dei contratti di categoria; con sempre più accentuati demansionamenti generali; con esuberi impropri (sempre e solo con l’azienda in utile); con varie, troppe, cessioni di ramo d’azienda ingannevoli (in realtà cessioni che mascheravano licenziamenti) nonostante le varie sentenze dei giudici, di volta in volta, affermassero l’illiceità dell’operazione; i vari ingiustificati contratti di solidarietà nel corso degli anni fino all’oggi, che penalizza i loro stipendi; ecc..
Telecom Italia-Tim, mentre offre il triste spettacolo di essere diventata una “preda” italiana appetibile per il più forte straniero, sta rivelando la peculiarità di chi crede di poter far uso di ciascun bene, comprese le “risorse umane” dipendenti, come se fossero di sua proprietà esclusiva, rendendo trascurabile la storia dei Diritti Umani. In tali circostanze, sotto la pressione prepotente del più forte, si riscontra che i rapporti di Lavoro sono ancora improntati a una concezione medievale, secondo cui il prestatore d’opera è un servo e che il padrone è il più forte e si può far beffa delle leggi alle quali gli altri invece devono sottomettersi. L’arroganza del potere considera spesso i Lavoratori e le loro vite “trascurabili”. I cittadini-lavoratori-dipendenti non sono sudditi-schiavi e i diritti costituzionali non vanno violati. Il Lavoratore ha diritto ad una contrattazione democratica e non l’essere sottoposto all’esercizio della minaccia e del ricatto. Chi ha permesso tutto questo? Viene minacciata la cassa integrazione se i lavoratori non accettano la riduzione di 20 minuti al giorno di orario di lavoro, senza tenere conto dei sindacati (li fanno contare meno che zero). Stiamo parlando di un’azienda in utile (che guadagna e non ha problemi) che si permette di imporre, senza accettare alcuna possibilità di contrattazione, la cassa integrazione (pagata dallo Stato, cioè i cittadini-contribuenti-dipendenti) che può chiedere per affrontare le pesanti ristrutturazioni (per propria convenienza e maggiore profitto). Ma perché a spese dei dipendenti in un momento critico come questo? La cassa integrazione per aziende in utile, ma che devono fare ristrutturazioni, l’ha inserita Renzi nel Jobs Act: ha solo favorito le aziende in utile come Telecom Italia anziché aiutare e tutelare i lavoratori. Un premier illegittimo a Palazzo Chigi che ha cercato di occupare anche la Cybersecurity (con delega ai servizi segreti) cercando di imporre il suo fido Marco Carrai (amico e socio di Franco Bernabè in interessi israeliani) e di imporre pure come amministratore delegato di Telecom Sparkle il suo amico Andrea Bacci. Un disegno che è stato contrastato.
Certo è che, questa Telecom Italia, fa gola a molti che cercano di utilizzarla come perno funzionale al potere che pensano di raggiungere.
Il palcoscenico in questo momento ha visto Vivendi, l’azionista francese di controllo, che ha fatto dimettere otto consiglieri di amministrazione (la metà più 1 dei 15 componenti), provocando la decadenza dell’intero consiglio come richiede in questi casi il codice civile. Per il 4 maggio, infatti, era stata già convocata un’assemblea per la nomina di un nuovo cda. Ma i Sindaci hanno fatto pressione su Vivendi facendo convocare per giovedì 29 marzo 2018 il cda straordinario: sembrerebbe per reintegrare l’ordine del giorno dell’assemblea del 24 aprile con la nomina dei sei consiglieri indicati dal Fondo Elliott (Fulvio Conti, Luigi Gubitosi, Massimo Ferrari, Paola Giannotti, Rocco Sabelli, Dante Roscini). Le contrarietà, comunque, saltano come palle da biliardo tra i sindaci. Un primo punto riguarderà certamente l’eventuale conferma di Amos Genish. I colpi di scena non sono esclusi.
Si tratta di una battaglia, in campo italiano, tra Vincent Bollorè e l’americano Paul Elliott Singer (fondatore e azionista del fondo Elliott Management Corporation, specializzato nell’acquisizione di debiti di Paesi in default o imprese in fallimento) che ha lanciato una temibile sfida il 6 marzo 2018. Elliott si sta servendo dello stratega italiano, l’ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni (la persona per bene imputato in due processi per corruzione internazionale, amico del faccendiere iscritto alla P2 Luigi Bisignani, coinvolto in troppe faccende d’Italia e finito ai domiciliari anche per la P4) e del politico ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (un clone modificato di Renzi, sembrerebbe).
Calenda pretendeva l’assemblea di bilancio il 24 aprile 2018 per revocare 6 consiglieri di espressione Vivendiana (compreso il presidente Arnaud de Puyfontaine), e sostituire con dei manager italiani pilotati dall’ex braccio destro di Scaroni, cioè Fulvio Conti (ex ad di Enel).
Tutti si azionano col pretesto di volere il bene del gruppo e dell’Italia (meno che dei dipendenti e degli italiani): accelerare le strategie per lo scorporo della rete telefonica, ovviamente per una maggiore valorizzazione dell’azienda (belle parole ma gli intenti veri sembrano ben altri).
È credibile il fatto che i francesi (Vivendi) vogliano difendere Telecom dalle mire degli americani prenditutto (Elliott)?
La confusione dei vari responsabili italiani è strategica o è il parto di una grande irresponsabilità mercenaria? Da un lato il governo italiano ha apprezzato l’iniziativa di Elliott, e dall’altro lato Carlo Calenda (per conto di chi?) pone un altolà sull’ipotesi di Scaroni alla presidenza.
Nell’ombra però scivolano piani segreti (b,c,d) per il colpo a sorpresa finale.
Nel frattempo Franco Bernabè (già consigliere) è stato nominato vicepresidente con deleghe operative riguardanti, guarda caso, la “sicurezza” e la rete internazionale di Telecom Sparkle. Sappiamo benissimo che tali responsabilità non possono essere affidate a cittadini stranieri, nemmeno al presidente francese né all’israelita Amos Genisch (ad), ma perché proprio a Franco Bernabè (amico e socio in affari di Marco Carrai con forti interessi in Israele e con molta esperienza e contatti nell’intelligence)?
È una cosa assurda che la struttura di una grande azienda come Telecom Italia, rappresentante il “sistema nervoso” di una nazione industriale come l’Italia, debba essere preda di affaristi internazionali senza scrupoli, e con l’avallo di certi uomini italiani (che per come si pongono non possono che essere definiti traditori).
Ma di cosa si occupa Telecom Sparkle nata nel 2003 e con quale ruolo occupa il settore della comunicazione ad alta tecnologia?
Sparkle è una controllata del gruppo Telecom con il business sui servizi per l’infrastruttura di rete (il grande affare dei tempi attuali). Controlla “Dati” (Big Data), informazioni sensibili che circolano sulle varie reti a livello mondiale. Gestire questo controllo significa avere in mano un potere enorme. Significa che Telecom Sparkle è molto strategica per l’Italia ma è controllata completamente da Telecom (per maggioranza in mani straniere).
Tutto quello che fa Telecom Sparkle incide sul bilancio di Telecom (interconnessioni tra le reti di telecomunicazioni tra i due, accessi al traffico internazionale). Telecom Sparkle gestisce una rete di comunicazioni a livello planetario (oltre 500.000 chilometri in fibra ottica che attraversano gli oceani intrecciandosi nei fondali del Mediterraneo). Nei suoi cavi passano l’80% del traffico Internet di Israele; passano tutti i dati sensibili dei servizi segreti europei e quelli dal Medio Oriente; ha anche un Pop, cioè un punto di accesso, in Iran).
Si può parlare di una grande responsabilità per l’equilibrio geopolitico mondiale?
Gli italiani poco sanno di tutto questo ma molto ne sanno i “predatori stranieri” che si combattono l’egemonia del potere su Telecom.
È l’egoismo appropriativo indecente dei manager italiani, che si sono avvicendati in Sip-Telecom-Tim, che ha provocato una grande incertezza e instabilità con disegni farlocchi di “piani industriali” inesistenti per molti anni, depredando l’azienda. È così che il predatore straniero ha approfittato dello stato di incertezza (ignorato anche dai governi italiani) cominciando a collezionare quote Telecom. La politica governativa italiana è sempre intervenuta solo per sfruttare situazioni che favorissero il proprio potere, facendo così maggiori danni (come nel caso della retrocessione del ruolo di Cassa depositi e prestiti facendo subentrare l’indebitata Enel, mettendo in difficoltà Telecom, per l’investimento della banda larga da portare in tutto il territorio italiano; come ha fatto anche con le banche, ad esempio per il caso del Monte dei Paschi; ecc.).
La politica dell’apparenza è inservibile all’Italia perché aumenta le disuguaglianze e il rischio povertà per le fasce in difficoltà, lascia destrutturare il Paese dai “poteri forti” e dai “poteri occulti”, e indebolisce i “gioielli” ancora sani e belli che rimangono, esponendoli alla “predazione”. Infatti, quando non sono stati gli stranieri a depredare sono stati deprecabili italiani, anche a costo zero, protetti dal “sistema del potere occulto” nazionale che serve quello “sovranazionale”.
L’azienda ha subìto un forte degrado etico e morale nel tempo, una trasformazione genetica impropria in cui i lavoratori-dipendenti non vengono più trattati con la dignità morale ed economica che meritano, così come i “clienti” vengono ormai visti come soggetti da sfruttare e spennare, in nome di un “sistema furbetto” escogitato (da uomini-manager mediocri e incompetenti) per una “guerra tra poveri”, in basso, e un palcoscenico per “pupari”, in alto.
Si paventano dunque, nel destino di Telecom-TIM, diversi progetti a monte dei quali, si pongono poteri transnazionali che operano in funzione dei propri disegni. In basso, il luogo dove avvengono le distruzioni e si contano i morti e le macerie, i servi di questi poteri organizzati nei diversi schieramenti, ne approfittano per ingrassarsi abbrancando quanto più possibile. È del resto il compenso che gli viene concesso, mentre la disumanità cancella in questi, ogni residuo di umanità.
Cera una volta la gloriosa e invidiata, a livello mondiale, SIP (Società Italiana per l’Esercizio telefonico).