Tutto dipende, infatti, non solo dalla rappresentazione intuitiva del corpo che abbiamo o della materia che ci circonda ma anche dalle nostre metarappresentazioni di credenze che, sfidando la razionalità del senso comune, ci si presentano (per dirla nei termini di Dan Sperber) come dei “misteri pertinenti”, ossia come rappresentazioni che sono altamente evocative, perché vicine ad altre rappresentazioni del soggetto, pur risultando inaccessibili a un’interpretazione definita. E quella di corporeità, allora, non sarà una rappresentazione costantemente, se non incompresa, quanto meno compresa solo a metà?
Non ci si lasci ingannare dall’odierna ed edonistica apoteosi del benessere fisico (fitness, chirurgia estetica, ecc.), perché, anzi, nel mondo della rete e dell’ingegneria genetica la corporeità rischia di apparire sempre più un optional, quasi una mera protesi di quelle macchine a cui in un primo tempo (pensiamo a Descartes), con maggiore prudenza, essa veniva solo paragonata. Ma proprio questo pericolo comporta la necessità di una nuova messa a fuoco dell’idea stessa di corpo, capace di retroagire sulla rappresentazione tradizionale che ne abbiamo, per altro a sua volta non si sa se impoverita, a causa della decorporeizzazione della nostra visione del mondo e dell’identificazione dello spirituale con l’astratto-formale e del corporeo con la materia tangibile, oppure se perfezionano sino a realizzare, certo involontariamente, nel mondo della “virtualità” proprio quella corporeità (spirituale) che Oetinger definisce “il fine delle opere di Dio”: una formula (affine a quella di Hamann: abstracta initiis – concreta maturitati), purtroppo, citata non tanto per il suo significato speculativo quanto per quello lato e “simbolico”: per avvicinare genericamente la teologia alle urgenze “formative” della vita o alla scienza della natura (evoluzionismo compreso), per sottolineare magari l’aspetto concretamente comunitario dell’attività missionaria o l’importanza della corporeità nel pensiero paolino, nella migliore delle ipotesi per evidenziare, di contro a una filosofia dell’espressione ancora inevitabilmente cartesiana (dualistico-semiotica), come solo il corpo animato dia forma, e quindi perfetta realizzazione, allo spirito (tanto più alla luce di un perfettibilismo postmortem).
Che con “corpo” si possono intendere cose diverse, è quasi ovvio. E l’esperienza quotidiana, che raramente tradisce chi sappia guardarla, è del resto pur sempre lì a dimostrarcelo: esattamente come abbiamo non poche difficoltà a riconoscere le parti del nostro corpo obiettivate (basti guardare come appaiono le nostre gambe in uno specchio ma soprattutto in fotografia), così pure occorre ammettere che il corpo-per-me è sempre qualcosa di radicalmente diverso da ciò che esso è-per-altri (la mia gamba dolente è altro dalla stessa gamba oggettivata, finanche palpata, dal medico). Proprio la distinzione fenomenologica tra il corpo fisico e il corpo organico-animato, tra il mio corpo quale dato oggettuale tra gli altri, quale membro di un sistema fisico-chimico soggetto a leggi naturali, e il mio corpo come ciò cui accedo esclusivamente nell’intimità della mia esperienza vissuta, è ben radicata nella storia della cultura occidentale (per tacere della sua presenza, persino più pervasiva, in quella orientale). Si pensi a una domanda abituale in una certa filosofia: il fatto stesso che ci si possa chiedere se «noi abbiamo o siamo un corpo», e che tale quesito sia comprensibile anche per chi promuove altri e opposti orientamenti filosofici, mette sufficientemente in luce come sia la tradizione culturale sia l’uso linguistico conservino comunque, accanto al dualismo spontaneo, uno spazio residuo anche per una rappresentazione diversificata del corpo, per una concezione che, valorizzando magari quei saperi (la medicina e la psichiatria, ad esempio) che fanno continua esperienza dell’interazione psicosomatica e quindi dell’almeno relativa coincidenza di spirito e corpo, fa del corpo un «immediato non mediatizzabile» sulla cui evidente trascendentalità “estetica” si fonda ogni etero sentire. Eppure – e questo è il punto che qui ci interessa – queste diverse rappresentazioni del corpo forse alludono pur sempre a qualcosa di comune, più in generale a un qualche (indeterminato quanto si vuole) supporto relativamente durevole di proprietà diverse e solo eventualmente accidentali, in breve a una qualche “sostanza” non immediatamente percepibile, la cui esistenza ipotetica perfino il mondo della virtualità generato dai new media, e la radicalità degli interventi trasformativi sulla natura resi possibili dalla tecnoscienza (anche nelle sue ricadute più banali come il lifting), non riescono del tutto ad aggirare.
Tonino Griffero
tratto da Il corpo spirituale (Mimesis)