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850. Le Br e la P2: l’alleanza del silenzio di Marco Damilano

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Presentiamo di seguito parte di un Capitolo, del libro Un atomo di verità (edito da Feltrinelli) di Marco Damilano, che abbiamo apprezzato moltissimo, non solo per quanto scritto e leggibile da tutti ma di quanto trasmesso sottilmente e fatto respirare come verità non dette da tutti. Apprezziamo da molto tempo Damilano per la sua onestà intellettuale e con questo libro, che consigliamo vivamente, rientra certamente in quella cerchia ideale che amiamo pensare siano ancora, nella nostra società, “i migliori” che possono aiutare a rifondare un nuovo umanesimo risorgimentale. Non molti, tra i media, ma ci sono e di grosso calibro.
Ci sentiamo di ringraziarlo, per questo libro, pur non conoscendolo di persona: si tratta di un libro che dovrebbero leggere i giovani, a cui in Italia è stato sottratto il futuro impropriamente, indipendentemente dall’indirizzo politico che pensano o credono di seguire. Un libro che può risultare formativo per i giovani e informativo per gli adulti e gli anziani che hanno vissuto “quei giorni” (ignari delle trame che si svolgevano nel “mondo di sotto”, quello occulto).

In Divina Amicizia … il Centro Paradesha

*****

Le Br e la P2: l’alleanza del silenzio

 

C’era il tempo del prigioniero e quello del mondo di fuori, uno scenario affollato. I terroristi, gli uomini di partito, i mediatori, gli spioni, i millantatori, le bande criminali. Il contesto italiano intuito da Cesare Garboli in un articolo apparso sull’”Unità” il 7 giugno 1980, il giorno in cui il quotidiano del Pci ricordava la scomparsa del leader storico Giorgio Amendola e subito dopo di sua moglie Germaine, intitolato Un racconto fantastico che comincia in via Fani. Il critico raccontava di due anni senza Moro, dal funerale celebrato da Paolo VI senza il corpo del defunto, di fronte agli uomini dello Stato, “un papa vinto, un papa folgorato che balbettava oppresso dai paramenti le ultime e confuse battute della propria sconfitta”, uno spettacolo tragico e shakespeariano. Ma poi si interrogava sulla coincidenza, negli anni della diffusione del terrorismo, di imperi finanziari senza volto, “soldi che volano come bisce acquaiole e si manifestano e si dissolvono come bolle iridate”, il Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali che per le Brigate rosse era rappresentato in Italia da Moro con la Dc. Due mondi che si affrontavano con le stesse logiche, in modo “occulto, violento, criminale, anonimo”. E concludeva: “due anni fa, proprio dopo via Fani, ha cominciato a farsi strada dentro di me una strana ossessione. Due società di segno opposto, entrambe clandestine, unite da un mostruoso rapporto speculare, immagino che si combattano nel nostro Paese senza incontrarsi mai. Le vedo, qualche volta, quando s’incontrano, spargere inchiostro come due seppie che si dissolvano in una grande e unica macchia scura”.
Per questo Garboli aveva deciso di lasciare Roma e di ritirarsi in campagna, in Versilia, abbandonando amicizie e abitudini, “senza vedere più in là della soglia di casa e della scodella del gatto”. E morì molti anni dopo, nel 2004.
Garboli era un altro uomo di scrittura, abituato a vivere tra le parole, la letteratura, i romanzi, ossessionato da quei 55 giorni, dal rapimento e dalla fine di Moro, come Leonardo Sciascia. Diviso fra l’attrazione e la repulsione provocate, soprattutto dagli elementi del fondale italiano che il caso di Aldo Moro aveva portato in superficie. Le alleanze non dichiarate, le convergenze parallele tra mondi lontani e senza volto. Con le divise da aviatori, come i brigatisti in via Fani, e con le divise degli alti gradi degli apparati militari e dei servizi di sicurezza, come i componenti del tavolo di crisi del Viminale di quelle settimane che risultarono tutti o quasi iscritti alla loggia massonica P2 organizzata da Licio Gelli. Un personaggio che fin dalla sua comparsa in scena, nel biennio 1943-1945, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, aveva cominciato una lunga carriera di doppiogiochista. Era stato un giovane repubblichino restato in forza alle SS ma trafficava con i partigiani, un fascista che tramava con gli antifascisti, per lui a guerra finita aveva garantito il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: “Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti”. Due righe che valevano un’intera biografia, la sua e quella dei suoi fratelli.
Le Br e la P2 erano le due società di segno opposto di cui aveva parlato Garboli, entrambe clandestine, unite da un rapporto speculare, una convergenza parallela. Erano il prodotto di un mondo diviso a metà, presidiavano le rispettive frontiere per tutelare l’ordine, anche quando vestivano i panni dei rivoluzionari o della reazione.
Moro era odiato da tutti e due i fronti. Nell’estrema sinistra era considerato il simbolo del malgoverno democratico, come lo aveva messo in scena Volonté in Todo modo, tra i “topi di sacrestia, untuosi, dall’incedere femmineo”, per il regista Elio Petri Moro era “il più riconoscibile, il più emblematico, il più pericoloso”. Per la destra era diventato il nemico numero uno, dal luglio del 1960, quando da segretario della Dc aveva bloccato il tentativo autoritario del governo Fernando Tambroni sostenuto dal Movimento sociale. “Se Moro non avesse pugnalato alle spalle Tambroni, quel governo avrebbe già ridotto all’impotenza il Pci”, scriveva il direttore del “Borghese” Mario Tedeschi. “Continuare a lasciare il Paese nelle mani dell’on. Moro, che allarga ogni giorno la maglia dell’apertura a sinistra, è spingersi sulla via del disastro, “scriveva nel 1961 Gianni Baget Bozzo, non ancora ordinato prete, sarà poi europarlamentare del Psi con Craxi e consigliere di Berlusconi. Quando nel 1964 cadde il primo governo Moro, nell’estate in cui l’Italia rischiò un colpo di Stato militare, il “Tempo” di Renato Angiolillo lo salutò così: “Per sette incredibili mesi hanno echeggiato a Palazzo Chigi il ruggito del topo e l’ululato del coniglio. Con la tecnica molle, scivolosa e viscida di una piovra per quattro anni egli è andato avanti, flaccido e cascante come un piccolo visir cupo, funereo, spargendo il suo cammino di cadaveri e rovine …”. Uno iettatore. Un figuro spregevole, da eliminare. Per i neo-fascisti di Ordine nuovo, legati ai circoli militari di estrema destra, era un rinnegato, un traditore. Per Pino Rauti, che sarà deputato e segretario del Msi, “un malato in delirio”. Il fascista Vincenzo Vinciguerra rivelò che più volte si era meditato di ucciderlo come ritorsione per il mancato colpo di Stato dopo la strage di piazza Fontana. “Signor Moro, se le supposte non basteranno a liberare l’Italia dalla vostra merdosa presenza ricorreremo al piombo del quale disponiamo in quantità. E se neanche le pallottole avranno l’effetto desiderato ricorreremo a mezzi più grossi”, lo avevano minacciato in un volantino le Sam, Squadre d’azione Mussolini.
Il fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie ha rivelato che nel 1964 anche a destra si era ipotizzato di rapire Moro. Ci fu una riunione in casa dell’ordinenuovista Romano Coltellacci con un misterioso personaggio che istigava le due sigle a superare la rivalità e passare all’azione: “È necessario lasciare da parte ogni differenza e pensare solamente al bene dell’Italia. Bisogna sequestrare Aldo Moro per impedirgli di andare in parlamento a presentare il suo nuovo governo. È in una villa vicino a Roma, siete in grado di effettuare questa azione?”. Nel 1966 un giovane autore satirico, simpatizzante con l’estrema destra. Pier Francesco Pingitore, aveva scritto su una sua rivista, intitolata come il teatro che farà la sua fortuna, la traccia di una possibile commedia sul rapimento di Moro, Dio salvi il presidente: “Il momento più pericoloso della giornata dell’onorevole Moro è l’uscita del mattino. Alle 8.30 o alle 9 lascia via del Forte Trionfale e sale sul sedile posteriore della auto ministeriale, preceduta da una Giulia bianca e seguita da un’altra Giulia blu. Sulla prima prendono posto i carabinieri, sulla seconda gli agenti. Il corteo si dirige per la via Trionfale, quindi a sinistra per via Fani e poi per via della Camilluccia, fino alla chiesa di santa Chiara dei due Pini …”. Un caso di premonizione, di preveggenza, perché dodici anni dopo le Brigate rosse, il fronte opposto, sceglieranno proprio quell’angolo per il massacro. E Pino Rauti, che lì in quell’angolo abitava, chiamerà il centralino della polizia per dare l’allarme. Negli anni novanta e duemila Pingitore spingerà al successo nel suo teatro di avanspettacolo il varietà del Bagaglino, con i politici che si affolleranno sul palcoscenico per farsi prendere letteralmente a torte in faccia davanti alle telecamere. Un rito di auto degradazione della politica mascherato da operazione simpatia, tipico della Seconda repubblica.
Più della destra estrema o post-fascista Moro riconosceva, e temeva, la presenza di una destra profonda, invisibile, la destra nazionale e internazionale che si insinua nell’elettorato moderato come un cancro, in nome dell’anti-comunismo. Il fascismo, come lo aveva definito Moro senza giri tortuosi, nel discorso al congresso della Dc del 1973: “Un conservatorismo spaventato che giunge fino alla reazione, l’incapacità a cogliere il nuovo anche nelle sue forme più umane, una certa ottusità intellettuale e insensibilità morale, un fondo ineliminabile di autoritarismo, tutto ciò spiega la preoccupante rinascita della destra e addirittura del fascismo in Italia. Il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo”. Quanti leader, anche a sinistra, avevano avuto e avranno in seguito il coraggio di una definizione di fascismo così potente, e così limpida?
Il rapimento e l’omicidio di Moro sono maturati nell’ambiente della sinistra estrema, nell’album di famiglia. “Stavamo processando Moro, santo cielo, con gli argomenti che erano stati di tutta la sinistra”, ha imprecato Moretti nel suo libro-intervista. Ma la destra è stata la beneficiaria dell’eliminazione di Moro. La destra, che lo odiava, quando è venuto meno non ha più trovato ostacoli. “Su tutti i punti oscuri che riguardano sia le moltissime stragi che il rapimento, la detenzione e l’uccisione di Moro sono mancati l’interesse e la volontà di una approfondita ricerca storica-politica. È servito da alibi lo scontro tra dietrologi e riduzionisti, tra chi vedeva troppo e in troppe direzioni, e chi non vedeva niente”, ha scritto Corrado Guerzoni che di Moro fu il portavoce.
Nei decenni successivi ha retto l’alleanza del silenzio, il patto senza spiragli di rottura tra le forze che hanno ripetuto che sul caso Moro non ci sono misteri da risolvere, tutto si sa, tutto è chiaro, tutto è chiarissimo. Un patto saldato nella seconda metà degli ottanta tra alcuni capi democristiani, il presidente della Dc Flaminio Piccoli e i brigatisti dissociati guidati da Valerio Morucci, che si conclude con il memoriale consegnato nel 1990 da Morucci a Cossiga con l’intestazione: “Solo per lei Signor presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi”.
Piccoli, uno dei capi della corrente dorotea della DC, destinatario di lettere sferzanti da parte del prigioniero delle Br, nel 1966, ha testimoniato Guerzoni, definì Moro “un cadavere che ostacola la via della Dc” e fece piangere il presidente del Consiglio. Tutto chiaro, tutto chiarito, lo dicono gli uomini dello Stato, o quasi, lo ripete il capo brigatista Moretti: “La verità si avvicina, al cento per cento”, ha detto nel suo libro-intervista del 1993. “Noi abbiamo reso pubblico quasi tutto quello che scrive. In questo agitarsi sul foglio mancante, le lettere non recapitate o le bobine sparite c’è la speranza che spariscano le lettere che ci sono”. Eppure le brigate rosse, al momento di rendere pubblica la prima lettera di Moro a Cossiga che doveva rimanere segreta, come aveva chiesto e ottenuto il prigioniero – “in tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il presidente del Consiglio (informato ovviamente il presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori” – , avevano comunicato che nulla sarebbe stato occultato. Moro “ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume la rendiamo pubblica”.
La trasparenza contrapposta ai segreti del Palazzo, un mito che riemerge continuamente in stagioni rivoluzionarie, salvo poi ripiegare nei segreti con cui sempre un’organizzazione tutela se stessa. Degli originali del memoriale, delle conversazioni di Moro con Moretti e delle registrazioni non si sa più nulla. Che siano stati bruciati in un casale a Moiano, vicino Perugia, come confessò Gallinari, o che siano “a marcire in cantine umide infestate da topi”, come credeva Guerzoni, tutto è stato nascosto al popolo.
Per questo, per quel quasi che manca alla verità e che è la misura della menzogna, quando incontro un ex brigatista o un ex terrorista nero provo un certo disgusto. Una volta, alla presentazione di un libro, sono arrivati tutti assieme, quasi a braccetto, i rossi e i neri, Morucci e Fioravanti, sorridenti, ancora in buona forma nonostante i tanti anni passati, spavaldi di fronte alle telecamere. Mi è capitato un giorno di andare a una conferenza stampa nella sede del Partito radicale, noi giornalisti entrammo nella sala e fummo inseguiti da una donna con la voce stridula, come quella di una suorina. “Dovete rispettare le regole, non si può entrare senza fare l’accredito!” mi voltai e riconobbi la rigida, inflessibile maestra delle regole e della buona educazione, la ex terrorista nera Francesca Mambro. Me ne andai.

Marco Damilano
tratto dal Capitolo Le cose saranno chiare
del libro Un atomo di verità
(Aldo Moro e la fine della politica in Italia), Feltrinelli

 

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Democristiani immaginari, Vallecchi
La Repubblica del Selfie, Rizzoli
Processo al nuovo, Laterza
Chi ha sbagliato più forte, Laterza

 

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