Si rivela, nella pretesa che le culture siano tutelate anche nelle loro pratiche oppressive e discriminatorie, una terza fallacia, di tipo logico e meta-etico, nella quale incorrono, in aggiunta alla fallacia ontologica e a quella consensualistica, le critiche rivolte all’universalismo dei diritti in nome del multiculturalismo. Queste critiche segnalano, paradossalmente, un universalismo di tipo estremistico, cioè l’idea che le culture medesime siano dei macrosoggetti, in quanto tali universalmente ed ugualmente titolari dei medesimi diritti; che sia la religione – ciascuna religione – ad avere diritti e non già l’individuo; che la libertà religiosa spetti non alle singole persone ma alle religioni medesime: all’islam, al cattolicesimo, al cristianesimo e alle loro diverse correnti o interpretazioni. L’universalismo dei diritti fondamentali, riferito ovviamente agli individui che di tali diritti sono i titolari, viene così spostato in capo alle loro culture o religioni, entrando inevitabilmente in conflitto con le libertà individuali, consistenti invece nel diritto delle persone in carne ed ossa di praticare, ma anche di non praticare, la religione del gruppo o della comunità cui appartengono. È chiaro che in questo modo si dissolve la laicità del diritto e delle istituzioni, la quale consiste precisamente nel rifiuto che il diritto possa essere usato come strumento di affermazione o di rafforzamento di una determinata morale o di una determinata religione o cultura, sia pure dominante.
Si prenda per esempio la questione del velo islamico. Certamente la pratica del velo o peggio del burqa segnala comunque una mortificazione e una condizione subalterna delle donne alle quali potrà porre fine soltanto una lotta di liberazione dalla loro religione e dalla loro cultura. Frattempo, tuttavia, il divieto pubblico di portare il velo equivale all’imposizione di una cultura, non meno dell’obbligo di portarlo, in contrasto con la libertà e il diritto di ciascuno di vestirsi come vuole. Ciò di cui infatti si giustifica la proibizione e la punizione non è già il portare il velo, ma l’eventuale violenza o minaccia o costrizione retrostante alla pratica del velo. Diritto di portare il velo e proibizione e punizione della sua eventuale imposizione coattiva sono le due facce della stessa medaglia, entrambe a tutela della libertà personale, oltre che religiosa, della persona: il primo a tutela della persona che porta il velo di sua spontanea volontà, il secondo a tutela della persona costretta a portarlo contro la sua volontà. Al contrario, il divieto comunque imposto al velo, paradossalmente, come avviene in Francia, in nome della laicità, equivale alla giuridificazione di un’etica e di una cultura laica, cioè alla sua imposizione illiberale nelle forme coattive del diritto.
Un discorso diverso va fatto per l’infibulazione. Anche in questo caso non è la cultura entro la quale è praticata che deve essere protetta, bensì l’individuo, cioè la persona della donna contro pratiche che violano la sua integrità personale oltre alla sua libertà religiosa, la quale include anche la sua libertà dalla religione. I diritti fondamentali, si è detto, sono leggi del più debole, che tutelano la persona anche contro la propria cultura: la moglie contro il marito, il minore contro la propria famiglia, più in generale la persona contro la sua stessa religione. Ben più del velo, d’altro canto, l’infibulazione e l’escissione sono atti gravemente lesivi dell’integrità e della dignità personale, che nessun rispetto delle culture in quanto tali può giustificare, soprattutto allorquando sono praticate, come avviene nella maggior parte dei casi, su donne minori e perciò senza la loro volontà. Ma anche nei confronti delle donne maggiorenni che per esempio le subiscono tra un parto e l’altro, simili pratiche non sono tollerabili. Il consenso della donna, come che sia, non è infatti sufficiente a giustificarle, essendo il diritto all’integrità personale, e perciò l’immunità da lesioni gravi, un diritto fondamentale non disponibile.
In tutti i casi è assurda l’idea che le culture, quali che siano e quindi anche la nostra, possano prevalere sui diritti delle persone. Paradossalmente, l’idea di molti comunitaristi secondo cui il multiculturalismo sarebbe incompatibile con l’universalismo dei diritti fondamentali, dalla cui titolarità e garanzia dovrebbero perciò essere esclusi collettivamente quanti non appartengono alla nostra cultura, segnala una sorta di perverso eurocentrismo: l’idea, chiaramente eurocentrica, che le donne islamiche costrette a forme di segregazione dietro il burqa, o peggio all’infibulazione, debbano aspettare, per potersi liberare da queste pratiche oppressive, che i loro mariti facciano la loro rivoluzione liberale e compiano lo stesso percorso che ha portato la cultura occidentale alla proclamazione dei diritti di libertà. Tali diritti, infatti, non si basano su di una pretesa validità ontologica o culturale o su una qualche condivisione morale della dottrina politica e morale da cui sono stati affermati. Non sono universali, ripeto, perché oggettivi o universalmente condivisi, ma solo perché attribuiti a tutti e a garanzia di tutti, indipendentemente dalle loro opinioni. Consistono, in breve, in norme giuridiche eteronome, siccome tali generali ed astratte. Sono perciò diritti universali unicamente nel senso logico della quantificazione universale dei loro titolari; sicché valgono, piaccia o non piaccia, al di là del consenso ad essi prestato, essendo anzi stabiliti proprio perché tale consenso non è affatto scontato, neppure presso la nostra cultura.
Luigi Ferrajoli
tratto dal Capitolo Uguaglianza e Differenze. Diritti di libertà e laicità
del suo Manifesto per l’uguaglianza
Anticorpi GLF LATERZA