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873. Open space e Call center: i moderni luoghi della schiavitù

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“ (…) Il 17 marzo 2006 viene data, su Repubblica, l’informazione che interessa gran parte del mondo del lavoro di oggi. Nel 2005 levita, dell’11%, il fatturato annuo del mercato dell’arredamento da ufficio, riguardante la tipologia diffusa dell’Open Space: una creazione di Robert Propst che in punto di morte sente il bisogno di chiedere scusa al mondo per la sua invenzione, per tutto ciò che questa sua creazione ha provocato, in fatto di danni fisici, psicologici e spirituali al lavoratore, impossibilitato a decidere secondo la propria opinione quando essa contrasta con gli interessi del padrone. L’idea di Robert Propst viene colta dai padroni come l’occasione per rompere l’equazione un dipendente = una stanza. Viene sfruttata l’idea a danno della persona-lavoratore: vengono dimezzati gli spazi lavorativi e raddoppiati il numero di lavoratori negli stessi locali, risparmiando su tutto. Oltre agli spazi vengono ridotti i diritti della persona-lavoratore. Da questa infausta idea deriva anche l’ispirazione del call center, la postazione di lavoro (PdL) a cella d’alveare. Senza privacy: gli uni troppo vicini agli altri. Questa postazione di lavoro viene definita, da Paul Thompson, nel suo libro Workplaces of the future”, uno “Splendente ufficio satanico”. La postazione di lavoro più diffusa è quella del call center e il termine satanico è il più indicato perché, call center, viene a significare per il lavoratore: insana forte illuminazione, occhi sempre sul video (Desktop) del computer, cuffie alle orecchie per rispondere al telefono, parlare continuamente sotto la pressione del “tempo di risposta alla domanda”, e il tutto sotto il continuo sottofondo del gran parlare di tutti (compresi quelli che lo fanno a voce alta) e senza alcuna possibilità di un po’ di silenzio. Difficoltà per una sana concentrazione; esposizione a un insidioso contagio emotivo; discussioni. È umano tutto questo? No, è satanico. Vivere in tali condizioni modifica le persone, altera le loro personalità, distorce le loro risposte comportamentali, produce tic nervosi, rende alcuni aggressivi, altri irosi, talaltri depressi. Alcuni si lasciano andare a un comportamento imbarbarito, molti si svincolano dal cortese autocontrollo civile che alcune situazioni richiedono. I valori veri e gli elementari aspetti educativi si opacizzano favorendo la volgarità e il cattivo gusto (telefonini con suonerie a tutto volume, linguaggio boccaccesco, abbigliamento poco indicato, residui di cibo dappertutto, fumatori maleodoranti dopo la fumata). L’umano, in questi ambienti, si conforma verso l’indice più basso mai verso il più alto.
L’Open Space risulta una idea sbagliata sin dall’inizio, perché non ha tenuto conto degli aspetti più elementari, e quindi ovvi, di che cosa comporti il far vivere ammucchiati, con la distanza ridotta al minimo, un individuo all’altro: farli ammalare più facilmente (raffreddori, allergie, influenze, abbassamento dell’udito, ansia, ipereccitabilità, emicrania, esaurimento, stress, depressione, fobie, perdita o rallentamento della presenza logica sostituita da un automatismo controproducente per gli obiettivi lavorativi dell’azienda); farli distrarre più facilmente e di conseguenza indurli a sbagliare più facilmente (aumento dei problemi di attenzione, di concentrazione, di valutazione, di discernimento).
Dal dipartimento di Fisica tecnica di Bari viene detto (da Ettore Cirillo, docente del Politecnico di Bari), dopo una ricerca, sulla rivista La Medicina del Lavoro: “… sono rumori che producono un dànno specifico a dànno dell’udito … danno fastidio e producono effetti di stress e riducono l’efficienza del lavoro … “.
Anche da una indagine della Gallup vengono informazioni sugli aspetti negativi dell’Open Space. E a darne ulteriore conferma è un recente studio pubblicato sul numero della rivista specializzata Journal of Enviromental Psychology. L’idea dell’Open Space, dove tutti guardano e ascoltano tutti e tutti possono essere guardati e ascoltati, ha favorito un’altra terribile idea, che continua a contribuire a modificare il centro psichico degli esseri umani, l’idea che ha preso forma nel Grande Fratello, l’individuo in vetrina che dà spettacolo di (più ego – apparenza – e meno – essere – ). Il Piano-azioni di “trasformazione” dell’essere umano procede inesorabilmente per mano dei Poteri Forti. (…)”.

Rosario Castello
tratto da Potestas Tenebrarum
Sottotitolo: I peccatori azionati: Iri, Eni, Enel, Unicredit, Telecom …

 

Cos’è un open space?
Sarebbe un “grande ambiente” sistemato in locali suddivisi non da pareti (che normalmente giungono fino al soffitto), ma da divisori, scaffalature, bassi ripiani, aste, ecc..
E per che cosa vengono adibiti? Naturalmente per “Uffici” senza scomparti separati: modello “Grande Fratello”, per esseri umani (risorse umane) da disumanizzare e animalizzare.
Si tratta di una geniale creazione, nel 1964, di Robert Propst (modello dell’Action Office) che in punto di morte chiede scusa al mondo per la sua invenzione, per tutti i danni fisici, psicologici e spirituali inferti al lavoratore, impossibilitato a decidere secondo la propria opinione.
Venne considerata tale invenzione un grande cambiamento nel campo umano del lavoro, senza considerare affatto che un “cambiamento” non necessariamente risulta sempre un “miglioramento”.
La grande scusa per imporli, questi “uffici senza pareti”, è stata quella che avrebbero facilitato la “cooperazione” e garantito l’uguale informazione di tutti i colleghi: una grande sciocchezza; una grande menzogna. Molti studi sono stati effettuati da persone serie e senza conflitto d’interessi che hanno sottolineato moltissimi aspetti negativi di questi “open space”, in termini di salute, in termine di perdita di attenzione, in termini di fattori produttivi. Studi effettuati negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in alcuni Paesi europei, compresa l’Italia.
Si tratta di un’invenzione imposta, senza possibilità di scelta dei lavoratori, per falsi proponimenti rispetto alle vere intenzioni non dichiarate: quasi sessant’anni di sperimentazione sempre più crudele nei confronti delle persone costrette a lavorarvi. Un crescendo di imposizioni lungo i molti anni, senza far troppo rumore, spesso con formule miste, per non dar troppo nell’occhio col rischio di rivelare le vere intenzioni.
I datori di lavoro, nelle vesti di “piccole realtà” o “grandi realtà”, si sono sempre protetti dietro le parole altisonanti di “competenti” assoldati che hanno perorato la loro causa, manipolando, grazie ai media, la cultura generale dominante, infiocchettando architettura, filosofia e sociologia (delle vere e proprie truffe intellettuali-culturali).
Tra questi troviamo la psicologa e architetto Elisabeth Pélegrin-Genel che straparla di architettura e di filosofia di pensiero. Costruire un impalcatura di pensiero a favore delle ragioni perseguite è molto facile, specie quando quanto deciso semplicemente si impone al lavoratore senza che abbia possibilità di scelta.
Questa trovata dell’open space fece venire in mente, a molti, quanto non avevano mai pensato nella vecchia concezione degli “Uffici tradizionali”: risparmiare sui mobili e gli immobili, un incredibile abbassamento dei costi.
Gli “Uffici tradizionali” erano suddivisi in “stanze”, ed ognuna necessariamente arredata (porte, pareti, scrivanie, mobili vari, sedie varie, panche per sale d’attesa, sale riunioni, ecc.).
L’idea iniqua fu rivoluzionaria perché fece cominciare una lenta ma inesorabile insidia contro i diritti del lavoratore, la sua qualità della vita, la sua privacy, la sua salute psico-fisica: un modello d’ufficio destabilizzante e destrutturante (in Germania, ad esempio, nacque il modello dei fratelli Schnelle, sbizzarritisi in diverse evoluzioni dei luoghi di lavoro).
L’idea-modello di Robert Propst venne seguita dall’idea dei moduli concepiti per non isolare il lavoratore-dipendente e mantenerlo in costante comunicazione con tutti i piani alti e meno alti dell’azienda. L’open space, l’idea della condivisione di uno stesso spazio di lavoro, ha fruttato molti riscontri negativi che non sono mai stati evidenziati e ascoltati veramente ma sovrapposti da teorie, ragionamenti di dubbia onestà per un’opera di convincimento subdola.
L’open space in termini concreti significa l’azzeramento di qualsiasi tipo di privacy: il lavoratore è messo in vetrina per tutte le sue ore di lavoro, è video-ascoltato costantemente.
Nel 1998, contro i “competenti” assoldati a favore dell’open space, c’è stato il neurologo Paul Thompson con il suo libro “Workplaces of the future”; a lui si aggiunge il neuroscienziato Jack Lewis sostenendo che il lavoro svolto nell’open space riduce le prestazioni aziendali del 32% e fa diminuire la produttività del 15%.
È il buonsenso a rivelare saggiamente che in un tale ambiente, superilluminato, superaffollato (50, 70 e oltre cento persone tutte ravvicinate), con un costante rumore di fondo e la somma dei rumori occasionali di tutti, il lavoratore è portato a distrarsi, a stressarsi, ad essere svogliati, a non riuscire a concentrarsi sugli obbiettivi di lavoro.
Degli esperimenti condotti all’interno degli open space, facendo indossare delle cuffie di rilevamento delle onde cerebrali, è emerso che i cervelli di quanti impegnati a lavorare in tali condizioni presentavano un evidente e chiaro stato di distrazione (un forte vagolare).
Osservazioni ed esperimenti da noi condotti per lungo tempo, su open space che superavano le cento risorse umane ammucchiate (idem nei bagni, nei luoghi non consoni al ristoro e nei piccoli banchetti assegnati, luoghi dove ognuno, secondo il proprio disagio non dichiarato, cercava il superamento in un compulsivo mangiucchiare tutto il giorno). Nelle nostre osservazioni rilevate nulla c’era che richiamava di quanto sostenuto come motivazione di detti spazi: spazi progettati per permettere ai lavoratori una migliore collaborazione, un maggiore movimento e un più facile scambio di opinioni e di soluzioni. In realtà si evidenziavano cose del tutto negative ai fini del rendimento e della produttività: un continuo squillare di telefoni fissi e di cellulari, un rispondere e un conversare a voce alta di molti, un chiacchiericcio continuo da più parti, rumori incidentali, rumori delle stampanti, delle scansioni, un continuo aprire e chiudere delle finestre che dovrebbero restare chiuse, un modificare nevrotico dell’aria condizionata secondo gli umori dei vari soggetti, ecc.. Giocano una parte pesante, quindi, le voci delle tante persone presenti, i vari telefoni (specie i cellulari messi a vivavoce), gli impianti di condizionamento, vari strumenti a seconda delle mansioni e rumori esterni vari.
Di chi è il guadagno sulla pelle dei lavoratori? In modo evidente i datori di lavoro con riduzione dei costi e spazi impiegati a disposizione. Sono riusciti a ridurre ancora di più lo spazio previsto per un singolo lavoratore, addirittura da 15 a 7/8 mq.
Da tutto ciò si evince quale sia il vero segreto intento, il vero pensiero alimentato nei confronti dei lavoratori: schiavi per il profitto.
Hanno spersonalizzato gli ambienti di lavoro (rendendoli asettici, pareti bianche o grigie riflettenti la luce) quando invece per la produttività è fondamentale, come risulta da moltissimi studi, una personalizzazione della postazione di lavoro (quadri, piante, qualche oggetto, del colore) che fa sentire a proprio agio offrendo un contesto umano e confortevole.
L’ambiente di lavoro sconfortevole che sono riusciti ad imporre è esattamente l’opposto di quanto veniva sostenuto da Robert Propst, compresa la famosa privacy che si sarebbe mantenuta senza pareti: un folle sognatore o un disonesto che sapeva di mentire, consapevole che il così tanto sponsorizzato e poi imposto “spazio lavorativo aperto” si sarebbe ridotto, per l’ingordigia dei datori di lavoro, in spazi sempre più ristretti in alveari composti da tante piccole celle l’una attaccata all’altra.
Insomma negli open space non esiste alcuna privacy e soprattutto c’è una elevata esposizione a rumori e distrazioni di ogni sorta, con il risultato di un aumento di stress e di conflitti vari amplificati dalla percezione che il posto di lavoro non fa sentire sicuri e a proprio agio. Si ottiene, nel tempo, un guasto vero e proprio nelle risposte comportamentali e comunicazionali delle risorse umane con forti ricadute sulla salute psicofisica. Difficile tornare indietro senza una vera rivoluzione culturale.

 

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