Il rapporto tra vibrazioni e sviluppo dell’uomo è spesso presente nella letteratura teosofica.
Lo studio dei chakras è un argomento lungo e difficile che ha bisogno di lunghi studi e di ancor più lunga preparazione pratica. In questa breve relazione valuteremo il significato di mantra e mandala, due realtà che racchiudono un modo concreto stimolare i nostri centri vitali cioè i chakras.
Il significato etimologico della parola mantra deriva dal verbo sanscrito “Man” che significa pensare e dal suffisso strumentale “Tra”, perciò viene generalmente tradotto come “strumento del pensiero”, pensiero espresso in formule di preghiere e di canto. È anche denominazione usuale di inni e testi vedici, quando questi testi incominciarono ad essere usati come formule magiche. La parola acquistò allora anche il significato di “incantesimo”.
Quando i bramini parlano dei mantra intendono genericamente con questa parola qualunque versetto musicale “samhita” dei 3 Veda (Rig, Yayur e Sama), cioè la parte più antica di queste scritture, non comprendendo i “brahmana” e le “upanishad” che sono storicamente posteriori.
Si attribuiscono anche altre origini etimologiche a questo termine, facendolo derivare da vari dialetti indiani con significati diversi, ma certamente posteriori al primitivo significato sanscrito. La stessa parola acquista poi sfumature diverse in rapporto alle religioni od alle Scuole che la impiegano.
Nella letteratura buddista la parola “mantra” acquista spesso un significato particolare sebbene non espressamente stabilito nei testi. Per esempio in lingua pali (testi buddisti) vengono descritti dei mantra che hanno la capacità di curare ogni specie di malattia. Il Buddha stesso insegnò un mantra di questa specie ad Angulimala, brigante convertito, quando lo invitò a guarire una donna. Nel buddhismo popolare si attribuisce alla ripetizione delle formule tradizionali del cerimoniale religioso virtù carismatiche.
Vi è anche un sistema yoga chiamato “mantrayoga” in cui l’esercizio essenziale consiste nella recitazione ritmica di formule ermetiche. Leggiamo infatti nell’”Athatarva Veda”: per ottenere la liberazione il mantrayogi che cerca appunto la liberazione mediante le formule ermetiche, deve ripetere la formula di una sillaba (Om), di 3 sillabe (sohan-sah-aham=a “Egli è me, oppure hamsah-aham-sah=Io sono Lui), quella di 6 sillabe (aum-namah-shivaya), od infine quella di 8 sillabe (aum-hram-hrim-namah e shivaya)”.
Raggiungere l’effetto desiderato naturalmente non è così semplice perché presuppone il possesso anche nel mantra yoga, come per le altre forme di yoga, di 16 requisiti e cioè: Bhakti = devozione, Shuddhi = purezza, Asana = posizione, Panchanga-Sevana = osservanza dei tempi, Achara = condotta, Dharana = concentrazione, Divya-Desha-Sevana =ricerca delle vie divine, Pranakriya = controllo del respiro, Mudra = gesticolazione, Tarpana = offerta dell’acqua, Havana = offerta del fuoco, Bali = sacrificio rituale, Yajna = adorazione rituale, Yapa = ripetizione, Dhyana = contemplazione e Samadhi = identificazione.
La ripetizione consiste poi in 14 modi diversi a seconda dei risultati che si vogliono ottenere.
Le scritture esoteriche riportano un gran numero di mantra oltre a quelli elencati nell’antico “Atharvaveda” che si distinguono in 4 categorie: mantra Siddha = mantra benefici perché procurano gli effetti desiderati in un tempo stabilito, mantra Sadhya considerati come servi fedeli che procurano gli effetti dopo lungo tempo, mantra Sasidha = mantra che producono effetti temporanei per meriti personali ed infine mantra Ari = mantra malefici che impediscono i successi.
Cosa sono allora veramente i mantra? Sono delle parole formate da sillabe simboliche che unite in base a certe regole, codificate nel mantrashatra, quando vengono pronunciate con ritmo ed intonazioni speciali, producono effetti psichici e fisici.
Le formule mantriche furono composte nei tempi antichi dai veggenti che conoscevano la potenza ed i segreti del suono. Le formule possono avere significati diversi od anche nessuno, ma il loro vero senso e l’intonazione vengono trasmessi dal Maestro al discepolo attraverso la catena ininterrotta delle iniziazioni. I mantra che si leggono nei libri non producono solitamente e, direi io fortunatamente, alcun risultato.
L’indologo tedesco Glasenapp, che ha scritto Budddistische mysterien, riassume il punto di vista degli studiosi occidentali sui mantra in questi termini: “Al tantrismo è stato ritenuto in occidente di attribuire un significato magico alle sillabe segrete (Biya) e alle espressioni (mantra) e di aver sviluppato una dottrina di queste formule che è una virtuale linguistica occulta (mantrashastra). Fin dai tempi dei testi Brahmana del periodo vedico alle sillabe inintelleggibili come “Om, Hum, Khat, Pat”, viene attribuito un significato metafisico. La letteratura tantrica ha poi accresciuto enormemente il numero di queste sillabe, ed ha stabilito dei metodi quasi scientifici su come conbinare queste sillabe allo scopo di sviluppare i poteri latenti …”
Questo punto di vista non solo di Glasenapp ma anche di altri indologi occidentali “profani” non tiene conto dell’esperienza millenaria dei popoli orientali per il quali la “parola” non aveva solamente un significato convenzionale come ai tempi nostri, bensì un preciso rapporto psicologico con la realtà spirituale che la parola esprime mediante un complesso meccanismo psicofisiologico. L’origine del linguaggio s’identifica con l’origine dell’umanità stessa e rappresenta tuttora lo sviluppo intellettuale dell’uomo ed il suo senso estetico creativo.
Alexandra David Neel, nel suo libro Viaggio nel Tibet si sofferma a lungo nell’ottavo capitolo su un personaggio conosciuto in Tibet che era capace di riprodurre ogni specie di suoni. Questo personaggio le spiegò che tutti gli esseri e tutte le cose producono dei suoni secondo la loro particolare natura e lo stato fisico in cui si trovano: “Perché tutti gli esseri e tutte le cose sono aggregati di atomi che danzano e con il loro movimento producono suoni. Quando cambia il ritmo della danza, cambia pure il suono prodotto … Ogni atomo ripete perpetuamente il suo canto ed il suono crea ogni momento delle forme dense o sottili. Come esistono dei suoni creativi, così pure esistono suoni distruttivi. Chi è capace di produrre entrambi a volontà può creare o distruggere”.
Questi concetti espressi dal personaggio conosciuto dalla David Neel si riferiscono alle nozioni della fisica, ma ovviamente l’effetto dei mantra non è solo dovuto alla corretta intonazione, bensì all’atteggiamento spirituale di chi lo esprime. Leggiamo infatti nello stesso testo: “Il mantra conferisce potere soltanto a chi è consapevole del suo significato interiore, che conosce i suoi metodi operativi e che sa che il mantra costituisce un mezzo per risvegliare le forze latenti in noi con l’aiuto delle queli siamo in grado di dirigere il nostro destino ed influire sul nostro ambiente”.
La dottrina dei mantra è molto più complessa di quanto il profano possa immaginarsi. Il Lama Anagarika Govinda, un buddhista di origine tedesca che visse oltre vent’anni in diversi monasteri tibetani, fu incaricato di divulgare in occidente alcuni elementi essenziali della dottrina della tradizione tibetana. Nella sua opera Foundation of Tibetan mysticism spiega che questa dottrina si basa sulla conoscenza dei centri di forza, “chakra” ed il modo di risvegliarli con la meditazione e la ripetizione modulata dei mantra.
Nella letteratura teosofica moderna, troviamo anche la descrizione di questa dottrina, fino ad allora “esoterica” nelle opere di C.W. Leadbeter (The inner life e The chakra) ed in diversi riferimenti ne La Dottrina Segreta di H.P. Blavatsky, che si sofferma spesso sui mantra. Afferma infatti: “Il canto di un mantra non è una preghiera, ma piuttosto una frase magica nella quale la Legge occulta della casualità si collega e dipende dalla volontà che agisce sul cantore, consiste cioè in una successione di suoni sanscriti e quando le parole e le frasi vengono pronunciate secondo le formule magiche dell’Atharva Veda, producono un effetto istantaneo e meraviglioso anche se comprese da ben pochi … Il linguaggio degli uomini della terra non può raggiungere i Signori. Ad ognuno bisogna rivolgersi con il linguaggio del suo rispettivo elemento. Questo linguaggio è composto di suoni, non di parole, di suoni, numeri e figure e chi sa come fondere questi 3 elementi richiama la risposta della potenza che vi sovrintende … Questo linguaggio è quello degli incantesimi o dei mantra come vengono anche chiamati in India. Il suono è il più potente ed efficace agente magico ed è anche la prima delle chiavi che apre la porta di comunicazione tra i mortali e gli immortali … Nel senso esoterico mantra (la facoltà psichica che convoglia la percezione o il pensiero) costituisce la parte più antica dei Veda … È la parola fatta carne, cioè resa oggettiva per mezzo della divina magia.”
È giusto citare infine anche un’opera posteriore agli autori teosofici per il suo concreto apporto e cioè The serpent power di sir Arthur Avalon.
I mantra costituiscono pertanto un argomento di estremo interesse anche perché oggi la scienza si è orientata sulla ricerca degli effetti psichici dei suoni e la Teosofia potrebbe offrire una direttiva per tali ricerche.
Il rapporto preciso tra mantra, chakra, mandala ed altre correlazioni non è mai chiarito, ma solo accennato dai vari autori, lasciando al ricercatore la scoperta finale.
Il mantra è dunque un simbolo concentrato di realizzazione quando viene praticato da qualcuno per il quale è “energia cosciente” e può elevare l’aspirante ad un livello superiore se vi è purezza d’intenti, ma può rivelarsi appieno solo nell’adepto.
Tutte queste spiegazioni apparentemente chiare non dicono il modus operandi della tecnica mantrica. Un ulteriore aiuto al ricercatore può essere dato dal ricordare che ad ogni “petalo” dei chakra si attribuisce una sillaba dell’alfabeto sanscrito più la sillaba Ksa per completare la serie di 50 sillabe. Infatti le lettere dell’alfabeto “devanagari” (scrittura degli dei) consistono in 49 segni grafici (16 vocali + 33 consonanti). Il numero dei petali dei sei chakra corrisponde a 50, perciò viene aggiunto il segno grafico Ksa. Il settimo chakra, quello della sommità della testa, viene escluso dal computo perché riassume tutti gli altri.
Ogni petalo dei chakra è un’ondulazione del rispettivo centro di forza e questa ondulazione è determinata dall’esercizio di una specifica qualità morale. Le qualità morali possono essere acquisite con l’esercizio costante nella vita giornaliera, ma anche stimolando con vibrazioni corrispondenti il relativo petalo, modulando le sillabe dei mantra con canti e suoni magici o liturgici composti da veggenti o sensitivi che ne potevano sperimentare l’effetto.
Lo sviluppo delle virtù morali determina nello stesso tempo una maggiore ampiezza ed intensità vibratoria dei rispettivi petali dei chakra ed i poteri o “siddhi” corrispondenti.
La modulazione dei mantra fatta correttamente può pertanto aiutare sia l’acquisizione di determinate qualità morali, sia l’apertura dello sviluppo interiore.
Questa teoria viene affermata nella scritture indiane come “Dhyanabindu Upanishad” e sostenuta da autori moderni come Steiner.
C.W. Leadbeter osserva invece, a mio parere in modo assolutamente giusto, che vi sono anche dei veggenti non virtuosi e dei virtuosi non veggenti. Forse ciò è dovuto al fatto che la veggenza ottenuta senza requisiti morali è derivata da fattori patologici come uso di droghe o medianità e che pertanto si può manifestare in modo saltuario, involontario ed incompleto, causando spesso danni all’organismo psicofisico di chi lo pratica. Nel caso invece dei virtuosi non veggenti possiamo affermare che le loro virtù non hanno ancora raggiunto quell’intensità sufficiente ad aprire nel modo giusto la percezione dei mondi più sottili.
Da quanto sopra detto risulta evidente un preciso rapporto tra le qualità morali, lo sviluppo dei poteri latenti ed i centri di forza o “chakra” dell’organismo psicofisico dell’uomo. L’esercizio di particolari qualità morali per mezzo della natura vibratoria del pensiero e del sentimento stimolerebbe le corrispondenti ondulazioni, i cosiddetti petali dei centri di forza e questi, quando raggiungono una determinata intensità, realizzerebbero nell’uomo le relative facoltà, sintesi delle qualità morali dei rispettivi petali. La stimolazione può avvenire a diversi livelli con l’esercizio costante, cosciente e convinto delle virtù, con la meditazione guidata, con la ripetizione ritmica di formule mantriche, con la pratica dello yoga o di tecniche simili o, semplicemente, con l’intuizione.
Una delle numerose correlazioni che legano questi processi sono i “mandala” (dal sanscrito = cerchio) che hanno una profonda risonanza nella vita inconscia dell’uomo come gli archetipi junghiani. Nella letteratura indiana “mandala” equivale a “chakra” della letteratura teosofica per indicare i centri psichici dell’uomo. Alcuni psicologi moderni della scuola junghiana accettano la tesi teosofica della localizzazione di questi centri in corrispondenza con plessi nervosi e gangli, mentre altri ritengono che questi centri non abbiano alcuna localizzazione fisica ma servano soltanto come mezzo per agevolare il processo della meditazione. A sua volta però la meditazione “guidata” aprirebbe i centri psichici. È interessante il fatto che questi centri non vengono citati solo nella letteratura indiana (purana, upanishad ecc.) ma anche nella letteratura mistica occidentale che non aveva rapporto diretto con le fonti indiane o tibetane. A tale proposito Leadbeater cita l’opera Teosophia practica di Georg Gichtel di Ratisbona, discepolo di Jakob Boehme, stampata nel 1696, dove viene riportata una tavola a colori che rappresenta il corpo umano con sette centri di forza al cui centro è contenuto il simbolo di un pianeta. Questo comporterebbe che mistici occidentali conoscevano l’esistenza di questi centri psichici ed anche i complessi rapporti del microcosmo con il macrocosmo.
Leadbeater sostiene anche che i cerimoniali religiosi e massonici hanno pure lo scopo di stimolare questi centri psichici in modo da elevare la coscienza dell’uomo ad un livello superiore difficilmente raggiungibile solo con i propri mezzi. Nella sua opera La scienza dei Sacramenti, Leadbeater spiega con molti particolari l’effetto del cerimoniale sui corpi sottili, mentre ne Il lato occulto della Massoneria viene esposto il cerimoniale massonico risalendo alla tradizione dell’antico Egitto (che Leadbeater avrebbe rivisitato con la chiaroveggenza) e gli effetti su coloro che vi prendono parte. Nei monumenti funerari dell’antico Egitto si trovano i riferimenti per ricostruire il predetto cerimoniale mentre gli effetti vengono descritti dai simboli geroglifici che li accompagnano, nei quali le divinità rappresentano le relative forze psichiche.
La teoria dei mandala s’inserisce in questo contesto, in quanto ad ogni chakra si attribuisce un simbolo geometrico che nello stesso tempo rappresenta un corpo ed una forza corrispondente che l’astrologia esoterica è in grado di individuare.
I mandala (letteralmente cerchio) sono strettamente connessi con i chakra e consistono in un tentativo di rappresentare graficamente lo schema dell’Universo e dell’uomo dalla discesa nella materia all’ascesa allo spirito.
Allo schema del mandala viene attribuita una proprietà magica: la capacità di dissolvere o reintegrare la coscienza dell’uomo. In realtà ha effetto soltanto sul candidato che è consapevole del suo effetto e medita sul mandala corrispondente al risultato che vuole ottenere. In tal modo assorbe i concetti simbolico-intuitivi connessi e viene aiutato nel determinare l’apertura della mente.
Gli schemi teosofici che rappresentano la costituzione occulta dell’uomo e del mondo con i rispettivi piani e corpi possono avere proprietà analoghe quando vengono presi come mandala di meditazione perché offrono a chi medita la visualizzazione delle realtà archetipali che esistono nella sua coscienza ed in questo modo si stabilisce, attraverso l’intuizione, un rapporto psicologico tra la realtà spirituale, lo schema esterno (mandala) e l’uomo.
La descrizione dei vari mandala con colori, sillabe mantriche e settori con segni specifici, si riferisce al chakra corrispondente inteso come senso psichico con le rispettive proprietà. È importante per questo ricordare come nei nostri tempi C.G. Jung intravide nei mandala gli archetipi esistenti nell’inconscio individuale e collettivo dell’uomo con le facoltà potenziali che una volta sviluppate permettono all’uomo di raggiungere la reintegrazione della coscienza.
Per capire quanto l’ipotesi junghiana sia vicina al nostro pensiero teosofico dobbiamo capire cosa Jung intenda per archetipo. Il termine archetipo è spesso frainteso in quanto identificato con immagini o motivi mitologici, che sono rappresentazioni consce della mente. Tali immagini collegate con il livello culturale delle persone, cioè con quanto hanno appreso con lo studio e l’esperienza, non possono essere considerate ereditarie né tantomeno espressione di verità riferibili alle origini del mondo. L’archetipo invece è la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, anche in presenza di sensibili variazioni individuali, continuano ad arrivare dal medesimo modello fondamentale. Esistono per esempio diverse rappresentazioni del motivo “fratelli nemici” (Romolo e Remo, Caino e Abele ecc.), ma il motivo rimane anche in diverse parti del mondo sempre lo stesso. Questo archetipo generale diventa archetipo soggettivo quando una persona aggiunge al motivo di base energia psichica ed emotiva della sua elaborazione connessa a problematiche personali. Gli archetipi sono quindi tendenze istintive altrettanto marcate quanto l’impulso degli uccelli a costruire il nido o a migrare. Gli istinti sono stimoli fisiologici percepibili dai nostri sensi, gli archetipi invece vengono percepiti attraverso immagini simboliche la cui origine è ignota alla ragione e si riproducono in ogni tempo e in ogni parte del mondo.
L’archetipo junghiano è collegato, ed ecco quindi il parallelismo con mantra e mandala, al bisogno dell’uomo d’introiettare qualcosa di esterno a noi per migliorare e per sopravvivere. Evoluzione e sopravvivenza sono dunque immagini archetipali collegate al mistero dell’esistenza. L’istinto di sopravvivenza è la messa in atto di reazioni fisiologiche sia mentali che fisiche che l’archetipo ha scoperto e caricato dell’energia necessaria.
Ecco allora che, come sopraddetto, anche uno schema teosofico (per me il primo è stata la figura 65 a pagina 168 del libro Il mistero della vita e della forma di C. Jinarajadasa) diventa un simbolo individuale di un archetipo evolutivo ed assume la funzione di mandala, diventando in tal modo un aiuto a sviluppare quel chakra, o meglio quel determinato petalo del chakra che possiamo o vogliamo aprire in quanto più vicini alla nostra personale natura e quindi più facile per noi per incominciare.
Ciò che è difficile nel mondo occidentale viene invece universalmente accettato nelle tradizioni esoteriche indiane e tibetane. Nel libro tibetano dei morti, scopriamo che “Ogni essere vivente in tutti gli stadi di esistenza possiede una forma corporea intonata ad una certa frequenza vibratoria. Mantra è una sillaba o una serie di sillabe della stessa frequenza di un oggetto, ma anche di un’entità (di solito si tratta di un’entità spirituale invisibile, di un Dio o di un demone) al quale esso appartiene. Il mago esperto che conosce il mantra di quella deità od ordine di esseri inferiori, può, intonandolo in modo appropriato, invocare la rispettiva deità o dominare gli esseri inferiori”. Con riferimento a questa definizione, noi possiamo metterci in sintonia con tutto quello che esiste purché conosciamo la relativa lunghezza d’onda ed il modo come produrla con l’attività del pensiero, delle emozioni, della musica, dei colori o della voce. Le vibrazioni della voce corrispondenti a determinate funzioni sono rappresentate dalle rispettive sillabe mantriche rivelate dai veggenti ai loro discepoli.
La sillaba mantrica “HUM” dei tibetani viene considerata uno dei mantra più efficaci come l’AUM (OM) degli indù. Viene usata anche nei rituali tantrici ed è associata al chakra della parte inferiore del corpo, dove risiede il kundalini. Enorme è il pericolo di tale risveglio senza l’aiuto e la saggezza di una vera guida.
In un testo iniziatico tibetano viene citato il mantra “Tog-pa gya gya e-ma-ho” (tre volte grande è la divina saggezza – compassione a tutti gli esseri). Viene però spiegato che gli insegnamenti contenuti in questo mantra sono troppo profondi ed esoterici per essere compresi e nemmeno insegnati a chi non sia purificato e disciplinato. Questi insegnamenti devono avere un sigillo di segretezza e non dovrebbero mai essere resi pubblici senza un’autorevole autorizzazione. La forma tibetana “Tog-pa” (che corrisponde al sanscrito samaya) significa “percezione completa, infallibile conoscenza, completa realizzazione della verità”, corrisponde ad autorealizzazione o autoconoscenza. Sempre nello stesso testo scopriamo però che tog-pa non può essere compresa senza l’esercizio yoga. Il primo passo consiste nel comprendere tog-pa intellettualmente, il secondo nell’approfondire ed espandere questa conoscenza con lo studio, appena al terzo posto viene il “meditare” sul tog-pa ed il quarto sarà comprenderlo completamente. Questa comprensione equivale alla realizzazione dello stato del Buddha.
Possiamo così capire come per i veggenti tibetani ed indiani i mondi soggettivo ed oggettivo, spirituale e materiale, non sono separati, bensì comunicano tra loro per mezzo delle vibrazioni corrispondenti, conosciute le quali l’uomo può mettersi in sintonia diretta con la realtà trascendentale.
Tale esperienza però è accessibile soltanto a chi scopre il rapporto esistente tra vibrazioni cromatiche, acustiche di altro tipo con i rispettivi centri psichici di percezione. La via più breve e più saggia rimane sempre quella dell’esercizio delle virtù morali che richiedono comunque una forte accelerazione delle nostre abituali vibrazioni e che permettono una lenta ma stabile evoluzione nella lunga strada prima verso il Sentiero e poi verso il Maestro.
Possiamo concludere salutando con Om Mani Padme Hum.
Diego Fayenz
tratto dalla Rivista Italiana di Teosofia ANNO LXVI N. 11 – NOVEMBRE 2010
Diego Fayenz è il Presidente del Gruppo Teosofico
Giuliano “E. Bratina” di Trieste