Gran parte dei cosiddetti “ricercatori della verità” pensano e parlano piuttosto confusamente di cose spirituali. Non è l’affermare di essersi incamminato su un “sentiero realizzativo” che lo rende tale. Solo una sofferta maturazione interiore rende consapevoli delle proprie istanze realizzative, facendo individuare il percorso più consono al proprio stato psicologico. Aver bisogno della Verità come dell’aria che permette di respirare è il metro giusto per misurare la propria aspirazione e la propria “posizione coscienziale”.
Un importante atto di consapevolezza degli “inizi” è quello in cui ci si rende conto chiaramente che il “sentiero realizzativo” non porta a “divenire qualcosa” (un continuo fenomeno mutante) ma ad “essere ciò che si è realmente” (Sé, atman-Brahman, Assoluto metafisico).
Per molti ricercatori è difficile comprendere che il “sentiero realizzativo” (sadhana) consiste nel realizzare la disidentificazione dai vari corpi-veicoli che si possiedono: i corpi-veicoli insieme alle loro qualità specifiche. Si tratta di un processo che deve veder scomparire l’“io” che si identifica con i corpi-veicoli e le sue qualità: niente più identificazione in un nome e in una forma. Ogni nome-forma appare e scompare, è relativo e non assoluto, quindi non-reale. L’individualità separata deve scomparire.
Un “io” è solo un riflesso dell’Uno-Realtà, quindi è l’“io-riflesso” che deve realizzarsi mentre vive le contingenze del tempo e degli effetti. L’“io” vive nello stato illusorio della molteplicità, è un prigioniero delle “apparenze” che risponde alle sollecitazioni di una falsa realtà e si droga di sensazioni per stordire la propria inquietudine.
Cosa si cerca di fare in un “sentiero realizzativo”?
Si cerca di manifestare la Realizzazione, cioè di attuare “ciò che è Reale” (Sé-spirito-atman), effettuare il passaggio dalla potenza all’atto.
Non si tratta di attuare ciò che brama l’“io” psico-fisico, quello empirico, infelice, duale, inquieto, ma si tratta dell’attuazione-realizzazione inerente al Sé, alla vera natura dell’Essere.
La Realizzazione è anche Liberazione dalla falsa rappresentazione che l’“io” ha di sé. L’“io” persegue false verità, per questo non riesce ad emergere mai dall’ignoranza-avidya.
La Realizzazione del Sé è di là da ogni processo di potenza e atto.
L’“io” se desidera significa che è incompiuto, che sta nella necessità, quindi le sue sono false realizzazioni per cercare di apparire “ciò che non è”.
Il lavoro svolto per la Realizzazione, all’interno di un “sentiero realizzativo”, è Metafisica. Il termine metafisica soddisfa il significato di “oltre” ciò che riguarda la sfera fisica, rappresentando così la “Scienza della Realtà in sé” che si interessa di “ciò che è” (o dell’Assoluto). La Realizzazione Metafisica è, quindi, l’attuazione dell’Assoluto.
L’“io” è molto bravo a creare falsi sentieri spirituali, sentieri in cui si resta intrappolati per aver considerato poco importante il poggiarsi su oggetti esterni quando, invece, non può esserci vera realizzazione con il desiderio verso qualcosa, perché essa è possibile solo se si è liberi da qualsiasi tipo di relazione. Molti sono i ricercatori che pensano alla Realizzazione in modo fantasioso, utilizzando male la mente: parlano di realizzazione metafisica ma si appoggiano sull’“io empirico” (psicologico) come fosse la vera realtà, rivelando la nascosta paura dell’estinzione, dell’annichilimento che gli impedisce la vera Realizzazione metafisica del Sé.
L’“io” si poggia sulla dualità; il Sé non si poggia su niente perché è consapevole della realtà della non-dualità.
La fase più importante di un “sentiero realizzativo” non è fatta di “pratiche del corpo o della psiche”, utili in altre fasi, ma di “svelamenti”, cioè dell’eliminazione di tutte le proiezioni effettuate dall’“io-mente” sul Sé-Essere, le quali nascondono quest’ultimo.
Svelare, scoprire, eliminare, conoscere: ecco la vera sadhana.
Esistono molti sentieri, confusi per vie di Conoscenza spirituale (Vidya), che offrono mezzi empirici (della mente) per ottenere “qualcosa” nel mondo della sfera grossolana o in quella sottile, ma non nella Realtà trascendentale. Questi sentieri non conducono nel dominio dell’Assoluto.
L’uomo profano e l’uomo spirituale subiscono, entrambi, l’azione della maya. La maya è ciò che fa scambiare una cosa per un’altra, è ciò che vela, impedisce di vedere una cosa per ciò che è. L’esempio classico, per comprendere cosa è la maya, è quello in cui ci si trova a scambiare una “corda” per un “serpente”, finché non ci si rende conto dell’errore, cioè finché non ci si risveglia a ciò che è realmente. Questa è la maya: un errore percettivo, conseguenza di un errore proiettivo, dovuti all’ignoranza-avidya.
Un “sentiero realizzativo” trova la sua ragione nella ricerca della Conoscenza (Vidya) che poggia necessariamente sulla discriminazione (viveka) e il distacco (vairāgya). Due fondamenti importanti, sin dalle fasi iniziali del cammino, perché la discriminazione tra Reale e non-reale e il distacco dal non-reale portano allo svelamento del Reale.
La mente empirica (manas), sul “sentiero realizzativo”, può essere un grande aiuto ma anche un grande impedimento: è il suo uso corretto che può aiutare in quanto veicolo-strumento che fa da intermediario tra il Sé e il veicolo-corpo sensorio.
Ecco perché è importante sapere, fin dall’inizio del cammino, che gli uomini non sono altro che “esseri”, caduti nell’oblio di sé, che devono riprendere la propria natura, risolvendo l’illusione che gli ha fatto disconoscere la propria origine divina. È la seconda natura, illusoria, che ha velato le cose come sono realmente e per questo necessita risolvere. Esistono, infatti, più vie a seconda del profilo psicologico dell’individuo-ricercatore. Non si può però intraprendere una di queste vie senza aver chiaramente riconosciuto quanto appena detto sopra, sul riconoscimento delle due nature: una, quella da riprendere perché vera e reale, la seconda, quella da risolvere perché illusoria e non-reale. È un problema che riguarda la Vita vera in cui non servono a nulla, se non a peggiorare, i vari “conforti psicologici” che molti mistificatori offrono (esperti, consulenti spirituali, pseudo-maestri, medium, ecc.). Sarebbe facile, volendo, smascherare questi mistificatori perché offrono sempre, con grande astuzia, dei surrogati della conoscenza mirati solo a confortare psicologicamente ed entusiasmare (eccitare i guna-qualità, rajas e tamas, nel mondo fenomenico), ma mai a dare una vera briciola di Conoscenza metafisica per condurre alla Realizzazione.
La vera Conoscenza dell’Anima (Atmavidya) è lontana dai mistificatori perché essi non la conoscono né possono raggiungerla.
Quando esotericamente si parla di “morte iniziatica” significa che l’“io psicologico” (avido di “conforto”) deve morire, altrimenti il Sé non può manifestare la sua piena natura.
È bene rendersi conto, prima possibile, che a rendere difficile la sincera intraprendenza per una autentica via di risveglio è la caotica vita sociale, a cui sono soggetti quasi tutti gli individui per fronteggiare il materialismo-consumismo alienante: una folle corsa che disumanizza e aumenta i conflitti tra i vari “io”. Il richiamo profondo della coscienza, quindi, è sempre per pochi, per quelli che siamo costretti a definire “pronti”, “qualificati”. Quei pochi che, rispetto ai più “addormentati”, hanno cominciato con il risvegliarsi prendendo consapevolezza che “qualcosa” non andava (in loro).
Tutti dovranno riconoscere, prima o poi, che l’ente che discende-cade-nasce, cioè che si incarna nella realtà del divenire, è la sintesi di atman-Spirito, jivatman-Anima e ahamkara–io-corpo- personaggio karmico.
L’atman è la scintilla divina nell’ente che si incarna; il jivatman è l’Anima, cioè il mediatore tra lo Spirito e l’io-corpo-personaggio (tra l’individuale e l’universale); l’ahamkara è, per l’appunto, l’io-corpo-personaggio karmico.
Il jivatman è un riflesso coscienziale dell’atman atemporale e l’ahamkara è, a sua volta, un riflesso del jivatman. È l’ahamkara che necessita di realizzazione o liberazione, essendosi “scisso” dalla sua controparte universale, ma continuando a credersi “assoluto”, quando non è altro che un riflesso, un “relativo”. Questo ahamkara si aliena sempre di più affermando continuamente: “io sono questo; io sono quest’altro; io posseggo questo (oggetto, persona, ruolo); io ho potere su; ecc.”. È il generatore del “senso dell’io-mio”. Così facendo oblia la controparte divina confermando la propria “scissura-caduta”, facendo di sé un “dormiente separato” che si crede “assoluto”.
Tutti gli esseri umani incarnati sono dei “caduti” nella dualità che devono risolvere la propria scissura con il ritorno all’Unità. Si tratta di un ritorno al proprio stato originario, un ritorno-rientro in sé stessi per essere Uno-senza-secondo.
Per chi si è fatto discepolo non c’è altra via che la disciplina spirituale (sadhana) per conseguire la Conoscenza suprema (paravidya), la Realizzazione, la Liberazione.
L’avanzare sul “sentiero realizzativo” richiede sempre maggiori prese di consapevolezza perché possa realizzarsi lo stato di “coscienza-consapevolezza-conoscenza”.
Tra le diverse prese di consapevolezza vi è quella che contempla la Manifestazione universale (prakrti) che è la sostanza universale con cui sono fatte tutte le cose-forme (sensibili e intelligibili): dalle “particelle” più elementari agli “universi”, comprensiva anche di ciò che gli scienziati (in qualità di “io” incompiuti) chiamano “materia oscura” ed “energia oscura”.
Tutto ciò che può essere osservato è “fenomeno” prodotto dalla “sostanza universale-prakrti” (ciò che nasce, cresce e muore). Questa “sostanza” muta continuamente, passando per molti gradi di densità energetica (da massa può passare in energia fisica, in superfisica, in energia sottile e addirittura in “non-materia”).
Tutti i “piani” e i “corpi” esistenziali sono costituiti dal sottilissimo tessuto di maya-prakrti. Per chiarezza, si può dire che il corpo fisico grossolano dell’essere umano è maya-prakrti, perché fenomeno che nasce, cresce e muore. È questo fenomeno che ha indotto molti ad una concezione materialista dell’esistenza, vedendo nella materia una realtà assoluta, restando ciechi alla realtà dell’atman-Spirito.
L’atman-Spirito quando si ritira dal corpo fisico grossolano (di maya-prakrti) lo lascia inerte, senza intelligenza, senza autocoscienza e lo percepisce come “altro da sé”. Quando il corpo-veicolo è in vita esprime delle “qualità” mediante la “prakrti-quantità”. Un corpo-veicolo, in qualsiasi piano esistenziale, è funzionale a far esprimere e operare l’atman-Spirito.
Sono in errore coloro che pensano che la metafisica (della Non-dualità) disconosca e rifiuti la maya-prakrti, se così fosse sarebbe una manifestazione che rientrerebbe nell’ignoranza-avidya, ma così non è. Non viene richiesto di ignorare la maya ma di non identificarsi con essa, con i suoi fenomeni-prodotti.
L’ignoranza-avidya può essere eliminata perché non è reale-assoluta.
Quando ci si risveglia si esce dallo stato dormiente della coscienza: il sogno-universo-maya-prakrti, che viene proiettato sul tessuto dell’aura (foggiata dalla sostanza-prakrti), scompare.
L’“io” (ahamkara), per sua natura irrequieto, cerca continuamente esperienze mediante qualità da esprimere, per sentirsi appagato ma resta sempre insoddisfatto.
Il jivatman-Anima si esprime su tre livelli esistenziali: il grossolano, il sottile (universale), il causale (il principiale noumenico). Il jivatman non fa alcun tipo di esperienza sensoriale perché è “contemplazione”. È l’“io-ahamkara” (“senso dell’io”), che vivendo la condizione di “caduto” sul piano sottile inferiore e del grossolano, agisce, si muove e crea fuori di sé per esprimersi. La sua azione corrente non è quella indicata dalla Bhagavad-Gita (“azione senza azione”) ma quella che è sempre promossa da un fine. L’“io-ahamkara” se è caratterizzato dal guna-qualità sattva la sua azione è “attuazione” dell’Essere che si svela; se è caratterizzato dal guna-qualità rajas, serve la legge della necessità (“corrompendosi”) imprigionandovisi.
L’io-corpo-personaggio (ahamkara) non riesce a starsene tranquillo, si agita, si scompone trasmettendo il suo stato agli altri “io”, assicurando uno stato conflittuale generale per tutti.
L’atman è, quindi, immoto mentre l’“io-jiva”, lo spirito individuato si agita nel mondo della dualità, sperimentando piacere-dolore con i molti frutti che gli assicurano un pesante karman.
Il jiva è il riflesso del Sé-atman che opera attraverso l’intelletto-buddhi che illumina gli altri veicoli inferiori. Il jiva, però, è costretto a continuare l’esperienza nel samsara finché l’energia-contenuti, accumulata in citta -subcoscienza non possa estinguersi-risolversi nel Sé-atman-Brahman. Il jiva è indotto a pensarsi finito, limitato in una forma e soggetto alle leggi del karman, per l’oblio della propria reale natura.
Il difficile stato di “Iniziato” è uno stato coscienziale corrispondente ad una potenza vibratoria superiore, in grado di varcare i confini della “materia” e attraversare tutti i piani del “regno sottile-astrale”. Si tratta di uno stato vibratorio che permette di sondare i vari livelli della materia e conoscerla direttamente senza l’ausilio della mente empirica, uno stato che permette di entrare nell’astrale e di superare i guardiani di ogni piano, grazie al pieno riconoscimento dello stato coscienziale raggiunto. Tale potenza vibratoria superiore penetra ogni limite del piano fisico grossolano e del piano sottile-astrale con tutti i suoi cieli-livelli.
Senza questo stato coscienziale (potenza vibratoria) non potrebbero essere trascesi certi “portali” e penetrati certi “campi vibratori”. È così che l’Iniziato si muove tra le forze che celano la Realtà ultima. L’Iniziato manifesta naturalmente, senza averne l’intenzione, simultaneamente i poteri di conoscenza, volontà e azione. Solo in presenza di tali circostanze si può parlare del difficilissimo stato-condizione di “Iniziato” e della “Iniziazione” autentica, non virtuale ma effettiva.
Nessun “ricercatore della verità” potrà mai giungere all’Iniziazione senza una conoscenza approfondita della natura della mente e delle sue funzioni: le sole preghiere, i mantra, i canti e anche una buona devozione non sono sufficienti.
La mente, chiamata anche “Organo interno” (antahkarana), è un organo che svolge delle funzioni importanti e per questo andrebbe conosciuta nella sua intera estensione.
Una sua funzione è quella dell’intelletto puro (buddhi), funzione discriminativa e di retta conoscenza.
Un’altra funzione è quella della mente empirica (manas), una modificazione dell’antahkarana che determina la chiara conoscenza oppure il dubbio, riguardo ad un certo oggetto.
Un’altra funzione ancora è quella del pensiero rappresentativo (citta), o mente subconscia.
L’ultima funzione è quella del “senso dell’io” (ahamkara), quella forma di autoconsapevolezza che si identifica con il soggetto dell’esperienza (oggetto, azione, ruolo, ecc.).
La mente è, quindi, una modificazione della coscienza.
Con buddhi (intelletto puro discriminativo) si esprime la facoltà intuitiva-sintetica che opera nel dominio degli universali, dei principi primi, ecc..
Con ahamkara (“senso dell’io”) si esprime l’individualità coscienziale, l’esperienza-conoscenza dell’io-corpo-personaggio.
Con citta (mente subconscia) si esprime la facoltà immaginativo-proiettiva.
Con manas (mente sensoriale-empirica) si esprime la facoltà razionale-analitica.
Un sincero “ricercatore della verità”, che vuol diventare discepolo (probando all’Iniziazione), deve portarsi, sempre di più, verso la buddhi, la ragion pura sostanziale-qualitativa perché possa avvenire la “rottura di livello dell’io”, stato-condizione fondamentale per una autentica e corretta sadhana realizzativa.
La Conoscenza-Realizzazione è il fine ultimo dell’Esistenza, che non va mai dimenticato, perché è stato naturale dell’Essere. Conoscere è Essere: la Realizzazione metafisica è conoscere ed essere l’Assoluto.
L’ignoranza-avidya, di per sé limitata, ostruisce l’intelletto-buddhi dell’individuo, impedendone la percezione del Sé-atman. Quest’ignoranza si rivela potente, nonostante la sua limitazione, per le due capacità che la mente riesce ad esprimere: la “capacità velante” e la “capacità proiettiva”. Queste due “capacità”, sotto forma di veri e propri poteri, sono un vero problema sia per l’individuo profano sia per il “ricercatore spirituale”: condizione che impedisce di vedere le cose come stanno veramente, ostacolando ogni risveglio spirituale possibile.
L’ignoranza, con la “capacità velante” nasconde il Sé-atman; con la “capacità proiettiva” proietta la parvenza di “qualcosa che non è” (come il famoso “serpente” portato sempre ad esempio) su “qualcosa che è” (la famosa “corda”), velandone la reale natura. Questo semplice esempio classico va riportato sul piano della Conoscenza metafisica per comprendere come funzionano le illusioni-fenomeni della Manifestazione universale.
Questa “capacità proiettiva” è quella che crea l’illusione della totalità, dalle forme grossolane a quelle sottili, fino all’intero universo contenuto nell’Uovo cosmico.
L’immagine di “ciò che non è reale” è la percezione distorta di “ciò che è reale”. Senza percezione distorta non può avvenire alcuna proiezione. Di là dall’“io-ahamkara” che pensa-proietta vi è il Sé-atman senza dualità (il centro immobile e adimensionale dell’Essere). È l’ignoranza-avidya che determina l’incapacità a discriminare-discernere. Ecco l’importanza del risveglio: il risveglio è l’occhio spirituale che si dischiude sulla Realtà-Verità.
Un Risvegliato-Realizzato-Liberato che osserva lo spettacolo di un illusionista, pur vedendo chiaramente gli effetti di tale illusione, cogliendone in molti momenti l’ironia, resta consapevole, non potendo farne a meno, del fenomeno illusorio compiuto. Così come quando osserva i fenomeni del mondo del divenire e non li considera affatto la Realtà: Egli vede le cose come stanno veramente perché non è coinvolto nel divenire fenomenico, poiché si è posto nel puro Essere. Sembra percepire la dualità, la molteplicità come tutti ma, in realtà, è fondato nella Non-dualità.
La Realizzazione non cambia l’aspetto esteriore del Realizzato, perché esteriormente rimane soggetto alle leggi del piano della forma e del divenire (malato o sano nel corpo, bello o brutto secondo i canoni comuni, povero o ricco, famoso o sconosciuto, ecc.). Per il Realizzato la Totalità è visione interiore di Unità (Uno-senza-secondo).
Con il Risveglio-Realizzazione-Liberazione svanisce il potere della mente che si manifesta come “capacità velante” e “capacità proiettiva”, svanisce anche il jiva (in quanto proiezione dell’atman) con tutto il suo fardello karmico. Il Liberato (mukti), postosi di là dalla mente che proietta, conosce-vive istantaneamente passato, presente e futuro (il Continuo-Infinito-Presente), poiché contempla il divenire entro l’Essere.
Un Maestro riesce a vedere lo stato di avanzamento spirituale del discepolo non dalle azioni esteriori impeccabili, che possono essere dettate ancora da un istinto falso e ipocrita, ma dalla inequivocabile luce che splende dai veicoli sottili: luce che dipende dalla purezza fatta raggiungere dal discepolo ai propri veicoli sottili mediante la giusta sadhana (dei pensieri-parole-azioni coerenti, in equilibrio e in armonia secondo i guna-qualità e ben posti secondo la commensura richiesta). Questa luce è ciò che riescono a riflettere i veicoli sottili dello splendore del Sé-atman. È l’unica verifica attendibile possibile che può farsi su un discepolo e può farla soltanto un vero Maestro, che nessuno potrà mai ingannare.
Un autentico Insegnamento spirituale (metafisico) non è per confortare psicologicamente i tanti disadattati che vi si accostano, né per favorire coloro che bramano esercitare potere sugli altri per compensare la propria incompiutezza, neanche per offrire l’appartenenza ad un gruppo particolare, ma ha il fine di distruggere l’ignoranza-avidya (ignoranza metafisica): Esso è il frutto di una autentica Conoscenza-Realizzazione che perviene dalla diretta Tradizione Primordiale, di origine non-umana, ispirata direttamente dal Principio supremo e impersonale, quindi sovrastorica-culturale-etnica, ecc..
Ogni sincero “ricercatore della verità” può attingervi liberamente in ragione del proprio grado di maturità e di comprensione (“posizione coscienziale”).
Il vero “ricercatore della verità” trovata la “Via” si fa discepolo avendo chiare, innanzi a sé, le tre forme di Liberazione possibili:
Videhamukti: è la Liberazione (mukti) fuori della forma corporea (deha) che si ottiene al momento della morte, in quanto la Conoscenza già presente virtualmente;
Kramamukti: è la Liberazione (mukti), dell’anima individuata, che avviene per gradi nel corso delle esistenze che si succedono sui diversi piani esistenziali, fino alla finale liberazione (moksa);
Jivanmukti: è la Liberazione (mukti) mentre si è ancora in vita (jivan). È l’ottenimento della Realizzazione dell’Assoluto (Brahman) e la conseguente definitiva emancipazione (moksa) dai legami del samsara mentre si è ancora nel corpo fisico grossolano (sthulasarira).
“Ho trovato la lunga, stretta e antica via e l’ho percorsa. Tramite essa i saggi conoscitori del Brahman da questo mondo (loka) raggiungono il mondo celeste allorché sono liberati”.
Brhadaranyaka Upanisad IV, IV, 8
(Upanisad a cura di Raphael)