D – Con un gruppo di amici vorrei proporre una serie di domande che vertono sull’atteggiamento pratico da assumere quando particolari eventi si verificano sia durante la vita sia dopo la dipartita dal fisico. Il tutto è inquadrato nel contesto del Bardo Thötröl.
Per quanto ci stiamo interessando di Asparsavada, tuttavia io penso che comprendere nella pratica determinati atti dell’individualità possa aiutarci a raggiungere la condizione di coscienza dell’asparsin.
Una domanda è questa: vi sono una prima e una seconda morte?
R – Crediamo sia molto importante capire che vi è la soluzione o morte, come spesso viene chiamata, dei vari veicoli o corpi di manifestazione, di cui quello fisico è il più esterno, e la soluzione dell’entità chiamata individualità. Quest’ultima rappresenta la vera morte-soluzione, perché con essa si ha la liberazione o l’integrazione del riflesso di coscienza incarnato con l’atman. Quando si lascia il corpo fisico denso o quello più interno manasico, per quanto si creda di esser morti, tuttavia non si è morti; si è solo lasciato in via momentanea un veicolo di espressione per la legge ciclica o del ritmo.
Il Bardo Thötröl è, soprattutto, un insegnamento per trascendere l’individualità e integrarsi con la “Chiara Luce del Dharma”. Sotto questa prospettiva esso non è per i “morti” ma per i vivi.
D – Grazie per questa precisazione; penso che adesso l’idea ci sia più chiara. Avevo sentito parlare di più “morti”, ma non ne comprendevo il senso. Ora, parlando della soluzione dei veicoli, il ritiro dal corpo fisico come avviene? Ci sono delle fasi prestabilite secondo cui l’ente opera il suo ritiro dal corpo fisico? Se nel nascere vi sono precise sequenze di sviluppo, credo che queste debbano esserci anche nel morire.
R – Per capire meglio questo evento occorre dire che il jivatma è rivestito di cinque involucri o corpi di espressione, di rapporto o contatto con il mondo oggettivo grossolano e sottile. Ogni corpo è una finestra aperta sul piano esistenziale in cui il jivatma opera e fa esperienza.
Ogni piano esistenziale è uno stato di coscienza più che un particolare punto spaziale; è una condizione vibratoria con la sua scala di valori o lunghezze d’onda, e laddove essa ha termine incomincia quella superiore, con vibrazioni sempre più alte; e così di seguito.
Quello fisico, in cui ora noi ci troviamo, è, dunque, un particolare stato vibratorio che, per essere percepito, ha bisogno di un corpo di contatto correlato alla lunghezza d’onda dello stato in questione. Quando l’individuo lascia il corpo fisico, abbandona altresì quella possibilità di mettersi in contatto col piano ad esso corrispondente. Adesso, il ritiro dal corpo fisico come avviene? Consideriamo che il termine ritiro è il più appropriato perché il jivatma o, meglio, il riflesso di coscienza incarnato non fa altro che ritirare il suo duplice filo ancorato nel corpo fisico, mettendo questo nella condizione di disintegrarsi e ritornare al serbatoio della natura a cui, in fondo, era stato sottratto. Il jivatma, al momento dell'incarnazione, prende in prestito dal serbatoio della natura fisica una quantità di elementi minerali o chimici che restituisce quando si ritira su altri stati di manifestazione.
Un’incarnazione non è altro che l’esteriorizzazione su un particolare piano di esistenza, mentre il ritiro è caratterizzato dal processo di interiorizzazione o astrazione. Sarebbe bene meditare questi termini perché possono svelare il mistero di ciò che noi, in modo erroneo, siamo soliti chiamare “morte”.
Quando avviene il ritiro del riflesso di coscienza incarnato sono coinvolti alcuni cakra, due dei quali sono collegati col fisico denso: quello del cuore e quello della testa, mentre altri due centri minori sono collegati con i polmoni.
Il primo stacco è quello che riguarda il filo della coscienza; quando ciò avviene, l’ente perde il contatto con i cinque sensi di azione, ma non perde la consapevolezza del percepire, per quanto incapace di rispondere, essendosi affievolita la presa con i sensi d’azione del fisico; per esempio, quella attinente alle corde vocali. È uno stato simile al dormiveglia in cui si percepisce, ma non si ha la forza di reagire.
Poi avviene lo stacco o il disinnesto del filo dei due centri minori dei polmoni. Questo disinnesto può essere riattivato, in particolari condizioni, facendo azionare in modo meccanico i polmoni.
Infine, viene disinnestato il filo della vita ancorato al cuore. A questo punto l’astrazione dal corpo fisico si verifica in modo completo e definitivo.
Il processo del ritiro si svolge per stadi prestabiliti, e se a ritirarsi è uno yogi queste fasi possono essere attuate in maniera conscia, deliberata e più in fretta. Col processo di astrazione non vi è dolore, affanno o sofferenza; alcuni si trovano nel susseguente corpo pranico senza neanche avvertire il distacco dalla forma fisica.
D – Deposto il vestito fisico, si rimane con quello del prana? E per quanto tempo?
R – Sì. L’altro corpo di espressione è quello costituito dal prana (pranamayakosa).
A questo punto sarebbe opportuno precisare una cosa. Quello pranico, pur appartenendo sempre al fisico grossolano, ne è la quintessenza; è, almeno nell’accezione in cui questo termine viene qui considerato, il primo elemento, la materia prima, da cui nascono gli altri più grossolani (bhuta): aria (vayu), fuoco (tejas), acqua (ap), terra (prthivi); è l’etere degli occultisti occidentali; è l’akasa della dottrina indù.
Non abbiamo il tempo per dilungarci su questo corpo, ma possiamo dire poche cose che servono di riflessione. Esso viene anche chiamato “vitale” perché dà, in effetti, la vita agli elementi (bhuta) elettronici e molecolari, oltre a tenerli uniti. Essendo, in definitiva, di ordine fisico, per quanto non propriamente materiale o solido, sente in modo assai forte l’attrazione per il piano grossolano; un possente elettromagnetismo lo collega ai bhuta, soprattutto se è qualificato da tendenze, diciamo, terrene. Questo veicolo pranico-vitale, fatto a immagine della forma fisica, potrebbe avere vita molto breve se si praticasse la cremazione, sì da risolvere il solido, il liquido e il gassoso con la potenza del fuoco. In India ciò si pratica, mentre nell’antico Egitto si praticava la mummificazione perché, prolungando la vita dei quattro elementi (quindi del corpo fisico visibile), si prolungava altresì la vita del pranico o, come veniva chiamato, del ka. Ma l’India è stata sempre per la vera morte o seconda morte a cui abbiamo fatto cenno, mentre l’Egitto era attaccato alla terra e amante del terreno. Con il corpo pranico può essere percepito il fisico grossolano visibile perché, in fondo, si è nella dimensione fisica. Non è il caso di dire che uno yogi, astraendosi dal fisico visibile (tanto per intenderci), può materializzarsi con un altro corpo visibile, sempre sul piano fisico denso.
II manas ha la capacità di plasmare la quintessenza, sì da produrre effetti a livello dei bhuta.
L’akasha è il mercurio filosofale, non certo quello elementare e naturale, e gli Alchimisti iniziati lo conoscevano e cercavano di estrarlo dagli elementi minerali più vili e corruttibili.
– Qual è lo stato di coscienza dell’individuo che si trova nel corpo costituito dal prana?
R – È uno stato di coscienza particolare perché pur osservando e percependo il piano fisico, non vi può accedere; è come rimanere affacciati ad una finestra da dove si può vedere e sentire tutto ciò che sta fuori senza riuscire a comunicare. Vi sono comunque delle eccezioni.
– Per lo yogi avanzato, invece, questo stato offre delle possibilità?
R – Abbiamo detto di sì. Il vero yogi si servirà di questo stato solo per determinati e speciali motivi, perché considera il fisico come il piano della non-realtà ultima, della metallizzazione e della prigione.
– Posti, dunque, in questo corpo del prana, si possono operare delle rettifiche sul fisico minerale?
R – Sì; stiamo toccando il punto cruciale dell’intento alchemico. È solo da questa posizione di coscienza che si può operare sul quaternario minerale per mezzo del solve et coagula. Comunque, ci possono essere delle tecniche per estrarre il volatile dal fisso e fissare poi il volatile. In conclusione, quando si è realizzata la quinta essentia, con essa e su di essa si possono manipolare i vari bhuta. Si tenga presente che i bhuta sono già contenuti nell’akasha, ma allo stato potenziale; da qui la possibilità di operare sui bhuta.
– Su questo punto ancora una domanda: si sa che alcuni grandi Maestri hanno mantenuto volutamente il corpo fisico a lungo, perché questo?
R – Per parlare in termini alchemici diremo: per fissare lo spirito che è volatile. Il corpo, reso sattva, funge da fixativum, da base, da supporto allo spirito che, per la sua particolare natura, tende ad espandersi, a dilatarsi. Bene, andiamo oltre e consideriamo la soluzione della guaina pranamaya. L’ente, se non è avvenuta la “cottura” dei quattro elementi corporali rimasti, permane in questo corpo di espressione per un po’ di tempo; però non essendo un corpo a sé, non essendo un composto definito e stabile, ma semplice energia vitale, ponte di congiunzione tra il veicolo manasico e quello propriamente fisico visibile, esso si disperde. Il fisico si “decompone” o si “scompone”; il pranico, essendo aria, si “disperde”, per cui ritorna al serbatoio del corpo pranico planetario. Anche questo processo avviene in modo quasi inavvertibile all’ente; non comporta dolore o altro perché è processo naturale. L’ente privato del pranico si trova in un’altra dimensione, in un altro stato di coscienza, in una sfera vibratoria diversa da quella fisico-pranica. Agli occhi di questo ente, il mondo fisico, nella sua integralità, è scomparso, non esiste più. A questo punto tutti i legami con il grossolano (visva) sono interrotti, ciò che in esso avviene non è più né visto né percepito, contrariamente a quanto accadeva quando si possedeva il corpo del prana. Eppure, paradosso, non è che si sia usciti dalla sfera fisica.
– L’ente, deposto il corpo fisico-pranico, si trova con quello del manas? Che cos’è il manas, di cui tanto si parla?
R – Il corpo manomaya è un amalgama di pensiero e desiderio, di mente e sentimento, spesso si parla di kama-manas. Questo veicolo di manifestazione è il più duro a morire; è il vero corpo dell’illusione, dello psichismo, delle cristallizzazioni subconsce. In questa sfera psichica molti individui affogano, si perdono, ritardano la presa di consapevolezza del Sé. È il mondo delle proiezioni, il mondo “astrale” dell'occultismo occidentale. Diremo che questo mondo non ha una realtà sua propria perché è l’accumulo delle forme-immagini create dal manas individuato.
Se si vogliono percepire gli archetipi o le idee universali occorre salire alla sfera della buddhi o vijnanamaya, quella, appunto, della conoscenza principiale.
– È questa la sfera di taijasa della filosofia Vedanta? È la zona intermedia tra visva e prajña?
R – Sì. Il manas è l’apice dell'individualità; la buddhi, in via di discesa, è l'aspetto terminale dell’universalità. Di là da questi veicoli sottili vi è prajña, o la prima determinazione dell’ente.
– Quando si lascia il corpo fisico, si ha il contatto diretto con il jivatma?
R – Sì. Comunque questo contatto può verificarsi anche quando si è nel corpo fisico. La sadhana del discepolo dovrebbe condurre a realizzare in modo conscio l’identità con il Sé.
– In quali termini può avvenire tale incontro? Il jivatma come si presenta e come si esprime?
R – Il jivatma può prendere la forma più gradita al riflesso di coscienza incarnato. In generale si palesa come un sole sfolgorante, ma non abbagliante, o come Deva maestoso, etereo e luminescente.
La comunicazione avviene per via telepatica perché il jivatma, in fondo, comunica con il suo riflesso.
– Il jivatma è un “alter ego” dell’essere?
R – Per usare termini occidentali, diremo che il jivatma rappresenta l’Anima, mentre l'atma o atman lo Spirito, il quale, a sua volta, è della natura del Brahman.
– Dunque, se non è un ente fuori di noi, perché non si ha il riconoscimento di questa “Luce Chiara” di cui parla il Bardo Thötröl?
R – II riflesso di coscienza che si trova nell’incarnazione fisica e in quella sottile, avendo gli stessi poteri del jivatma, in forma ridotta, si è costruito il suo mondo, le sue proiezioni, le sue apparenze fino al punto da diventare alienato e in parte scisso dalla sua fonte.
Noi oggi viviamo questo stato di coscienza, e quando incontriamo noi stessi, ad altri livelli, non ci riconosciamo più. Abbiamo perso la nostra identità animica, come qualche demente, a livello manasico, perde il riconoscimento della sua identità individuale.
– Da qui il detto che siamo degli Angeli decaduti, o degli Dei addormentati?
R – Si; “cadendo” nell'individuato e nell’alienato abbiamo perso di vista la fonte da cui siamo nati. Però questo genere di “caduta” non è assoluto, ma apparente perché il riflesso di coscienza in incarnazione è solo velato, ottenebrato o addormentato.
– Insomma, per quanto svegli siamo addormentati?
R – Sì, ha detto prima che siamo degli Dei addormentati; da qui l’incitamento al Risveglio. Lo Svegliato è colui che ha risolto questo torpore, torpore che il Vedanta chiama avidya o maya.
– Il jivatma lo si vede appena si è lasciato il corpo fisico, oppure dopo che si sono fatte altre esperienze sul piano sottile?
R – Credo che non ci siano delle regole fisse. Le modalità e il momento dell’incontro sono di ordine individuale e karmico; come la stessa “morte” o la rinascita sono esperienze di ordine personale, per cui non possono esserci eventi e comportamenti uguali per tutti. Non stiamo dando una visione di principio.
– Per cui può avvenire prima o dopo quella che viene definita la ricapitolazione della vita incarnata?
R – Sì. Credo di si. Non ci sono delle norme assolute su certe cose.
D – Si parla di ricapitolazione delle esperienze vissute, ma questo che cosa rappresenta effettivamente?
R – Rappresenta la cristallizzazione subconscia proiettata sul telo della nostra stessa aura. Anche quest'esperienza, qualche volta, può essere fatta durante la incarnazione fisica.
– Mi interessa sapere se per il Realizzato questi eventi si verificano ugualmente.
R – Un Liberato ha bruciato ogni residuo subconscio divenendo Luce non maculata. Il Liberato non ha passato, non ha storia, quindi non ha futuro. Il Liberato non vive più di proiezioni o sovrapposizioni velanti.
– (primo interrogante). Ora, per risolvere questi residui subconsci, emozioni, sentimenti, ideali, ecc., occorre trovarsi sul piano sottile oppure essi possono essere trascesi anche stando sul piano fisico? I corpi del manas e del kama possono essere trascesi anche nell’incarnazione fisica? Voglio dire: la seconda morte (manas e kama), di cui parla San Paolo, deve avvenire sui piani sottili oppure può aversi sul piano fisico?
R – Quelli del manas, del prana e del fisico non sono tre livelli distinti e contrapposti. Quando è in incarnazione l’individuo li possiede tutti e tre per cui non deve attendere di entrare nel sottile (taijasa).
La vera morte dei filosofi si attua sul fisico grossolano.
Voler posporre il problema della “morte” è un alibi dell’io che cerca di perpetuarsi.
– I veicoli o corpi del jivatma fino a quando possono protrarre la loro esistenza?
R – Sappiamo che per il Buddhismo vi sono cinque skanda; essi più che corpi, come noi intendiamo questa parola, sono cinque aspetti psicologici o aggregati energetici che compongono l’individualità (rupa, forma materiale; vedana, sensazione; samjña, percezione; samskara, concetto; vijnana, coscienza coordinatrice).
Fino a quando vi sono qualità particolari da estrinsecare esse devono esprimersi e manifestarsi.
– Dunque, io posso liberarmi di questi skanda solo quando ho trasceso ogni tipo di qualità attrattiva-repulsiva?
R – Non vi è dubbio che fino a quando in noi opera il desiderio, saremo là dove esso ci porta. Laddove è la nostra passione là sarà il nostro cuore.
– Leggendo dei testi che si riferiscono al nostro tema, ho constatato alcune contraddizioni. Per esempio, qualcuno afferma che solo il karma determina l’azione sul piano del sottile per cui l’ente è un oggetto passivo del suo karma; qualche altro, invece, afferma che l’ente è libero di determinarsi; anzi, dovendosi incarnare, può scegliere la matrice della nascita.
Come mai questa contraddizione?
R – Non credo che ci siano contraddizioni; la determinazione dell’ente sussiste nella misura in cui questi è riuscito a dominare le sue “potenze”. Ma ciò avviene anche a livello fisico.
– Sono d’accordo che bisogna essere preparati per determinati eventi. Senza dubbio non è sufficiente sapere che posso essere io stesso la “Chiara Luce Bianca”, occorre che sia pronto per poterla realizzare.
R. - Vede, migliaia di persone sanno dell’esistenza dell’anima, dell’atman, ecc., ma pochissimi sanno realizzarsi come atman. D’altra parte occorre distinguere tra conoscenza intellettiva e realizzazione.
D – In altri termini, bisogna essere?
R – L’abbiamo detto spesso. Se la realizzazione consistesse solo nel memorizzare tutti i testi Vedanta, buddhisti, ecc., sarebbe molto facile. Ma, purtroppo, le cose stanno in modo diverso. Non basta leggere il Bardo Thötröl, occorre essere pronti per far fronte agli eventi del Bardo. Se non siamo “punto al centro” sul piano fisico (visva), non lo saremo neanche sul piano sottile (taijasa); se non sappiamo affrontare gli eventi sul piano fisico (taijasa); se non sappiamo affrontare gli eventi sul piano fisico con il distacco dovuto, non sapremo farlo neppure sul piano sottile.
Alcuni credono che una volta deposto il “vestito” fisico si diventi più saggi; ciò costituisce un grosso errore di valutazione.
La maggior parte dell'umanità, deposto il “vestito” fisico, si trova nella sfera intermedia sottile, sfera che è illusoria.
Per l’Asparsa lo stesso stato di prajna (causale) rappresenta la radice dell’avidva, e prajña (Dharmakaya per il Bardo Thötröl) è di la dal fisico e dallo psichico, è lo stato in cui si sperimenta il savikalpa samadhi, il più alto samadhi sul piano del manifesto.
D – Da quello che ho sentito devo dedurre che, paradosso per le mie cristallizzazioni, la morte non esiste?
R – La morte, come la si intende, in verità non esiste. Quella che noi chiamiamo morte è governata dal principio Siva, ciò vuol dire che la morte non è altro che trans-formazione, un andare di la dalla forma (rupa). È un semplice cambiamento di stato di coscienza che per alcuni, lo ripetiamo, può avvenire in modo così inconsapevole da non percepire l’accaduto.
La maggior parte dell’umanità, soprattutto occidentale, non ha saputo e non sa trovare un giusto rapporto con la morte. Drammatizzazione dell’evento, attaccamento alla forma, identificazione con gli ideali terreni, ecc., offrono uno spettacolo deludente e infantile per chi conosce e sa.
Un giorno o l’altro si scoprirà che la nascita è sotto la legge della limitazione, mentre la morte è sotto quella dell’affrancamento.
D – Così la vita dovrebbe essere una preparazione intelligente alla morte?
R – Se è possibile, alla triplice morte. Molti sono così identificati col fare da sembrare che il piano fisico debba essere il solo esistente. Spesso si assolutizza un semplice livello di vita che, per quanto possa avere la sua validità, tuttavia non è né assoluto né determinante.
Vi sono persone così attaccate ai loro desideri, ai loro ideali, alle loro aspirazioni familiari, politiche, sociali, ecc. da considerare la loro esistenza sul piano fisico come eterna.
Vi è troppa drammatizzazione sia della vita sia della morte, vi è troppa esaltazione, al limite, teatralità nel comportamento umano.
Sul palcoscenico del mondo c’è una tale identificazione con se stessi da dimenticare che il proprio ruolo è un semplice apparire e scomparire. Alcuni pagano, anche a caro prezzo, la loro interpretazione, soprattutto dopo la morte.
D – Chiedo scusa se ritorno sul mio problema, ma vorrei avere, se è possibile, una interpretazione accessibile del Bardo.
Le cosiddette “divinità adirate e pacifiche” del secondo Bardo che cosa rappresentano? Che cosa possono indicare a noi occidentali: Ratnasambhava, Amitabha, Amoghasiddhi, ecc. ?
R – Un insegnamento è rivolto ad un determinato popolo, possiede il suo linguaggio e dà un nome e una forma particolari a certe qualità che sono principi universali o qualità energetiche individuali. Lo stesso Cristo Gesù rappresenta la personificazione di un principio universale.
Certo, sarà difficile per un ristiano riconoscere Amitabha o Amoghasiddhi. Però se partiamo da questa premessa possiamo meglio capire quello che l’individuo vede nel secondo Bardo.
A questo punto è necessario approfondire la dinamica dei processi psichici, come essi nascono, come si cristallizzano e come si manifestano sul piano di taijasa.
Secondo il Buddhismo, in cui si colloca il Bardo Thötröl, i tre corpi o stati dell’Essere sono:
– Dharmakaya
– Sambhogakaya
Con il primo Bardo, cui abbiamo fatto cenno poco fa, si realizza il Dharmakaya, il corpo della Illuminazione primordiale. Con esso si è fuori del divenire-samsara perché, appunto, si è creata l’identità con la “Chiara Luce Bianca”.
Se il Dharmakaya non viene realizzato, si entra nello stato di coscienza del Sambhogakaya, o Hiranyagarbha per il Vedanta, la condizione sottile con le sue suddivisioni. È in questa sfera che, progressivamente, prendono forma le proiezioni karmiche dell’individuo.
Abbiamo detto poc’anzi che il disconoscimento del jivatma avviene perché il riflesso di coscienza incarnato s’identifica con i suoi contenuti subconsci, con le sue proiezioni. Diremo, la potenza gravitazionale dei contenuti subconsci trattiene la coscienza sul piano dell’individuato.
Ora, una volta persa l’opportunità di integrarsi con la “Chiara Luce”, si svolge una specie di dramma tra la coscienza incarnata e le sue stesse proiezioni, o “ombre”.
Come nasce un contenuto subconscio? La nostra spazialità psichica è parte della “sostanza”, o prakriti, universale; la nostra mente è parte della mente universale. Quando pensiamo per lungo tempo un evento o esprimiamo in modo reiterato una qualità, ad esempio l’amore, l’odio, l’invidia, l’avarizia, ecc., la “sostanza” psichica, o la nostra sakti, si modella fino al punto di condensarsi, fino a trovarsi massa; cioè, l’energia si solidifica portando con sé la qualificazione estrinsecata dalla coscienza. Un’idea reiterata diviene un ente qualificato capace di suscitare armonia o disarmonia. L'individuo è un creatore ma lo dimentica, per cui si tesse la tela di felicità o di dolore secondo le costruzioni erette nella sua spazialità psichica. Quindi, un contenuto cristallizzato è un ente psichico che rimane dentro la nostra circonferenza vitale fino a quando non è risolto o sciolto.
Se, per esempio, esprimo odio, che cosa avviene nella mia circonferenza psichica?
R – Avviene che a poco a poco la sua “sostanza” si modella, si rende sensibile fino al punto di cristallizzare o solidificare la qualità.
– Allora, portando questa cristallizzazione a livello sottile di Sambhogakaya che cosa avviene?
R – Avviene la proiezione degli “dèi adirati” a cui si è accennato in precedenza. Se consideriamo che anche il piano sottile o di Sambhogakaya è formale, dovremo convenire che ogni idea, o contenuto psichico, si palesa per mezzo di una forma, un simbolo, un corpo-strumento. Sul piano del manifesto la Vita si esprime per mezzo della qualità, e questa per mezzo di un supporto materiale o strumento formale (rupa). Così, nel nostro caso, la qualità odio, sul piano sottile, si manifesta con una forma che può prendere le sembianze anche di un animale o di un dèmone, con un particolare aspetto, il quale cerca di aggredirci. Questa condizione la troviamo già nel sogno quando qualche strana “forma” (animale, dèmone, ecc.) ci assalta, e noi impauriti, per quanto cerchiamo di fuggire, ne rimaniamo costretti. I nostri mostri psichici sono l’altra parte di noi stessi. La nostra violenza la immagazziniamo, e a tempo opportuno essa si scarica su di noi. Siamo condannati o innalzati dalla qualità dei nostri pensieri cristallizzati. Nel sogno l’angoscia può trovare la sua soluzione col risveglio, ma nella condizione sottile l’angoscia non trova via di uscita e dovremo sorbirla fino in fondo. In altri termini: noi siamo divorati dalle nostre stesse proiezioni, ideazioni e qualificazioni.
– Allora il demonio esiste?
R – Il demonio (heruka) è la “personificazione” della nostra disarmonia, del nostro errato uso dell’energia, della nostra violenza cristallizzata. Il demonio è 1a parte negativa dell’individuo e può manifestarsi con una particolare forma; è la costruzione egotica di contrapposizione, di malvagità, ecc.. Nella Tradizione iniziatica occidentale si parla di “discesa agli inferi”, la quale rappresenta una tappa da attuare per conseguire la liberazione.
D – Dunque, le proiezioni degli “dèi adirati”, o degli heruka, non sono altro che le nostre cristallizzazioni? Queste forze non potremmo neutralizzarle quando saremo nel sottile?
R – Quando ci troveremo là sarà troppo tardi, perché là saremo vissuti e trascinati dai nostri fantasmi del samsara.
Avviene, ripetiamo, come nel sogno: siamo vissuti dal sogno, ne siamo resi impotenti. Durante l’incarnazione accumuliamo dei contenuti che poi proietteremo a tempo debito; avviene come se dessimo la carica ad un orologio che al momento opportuno si scaricherà da sé in modo ineluttabile.
– Purtroppo si dimentica che un’emozione o un’idea prende forma.
R – Sì, è vero. Quando l’individuo prenderà consapevolezza di essere un plasmatore di cose, di eventi, di forme, allora farà più attenzione a capire la legge della giusta “costruzione”.
– Presumo che la proiezione degli “dei pacifici” debba procedere come quella degli “dei adirati”.
R – Certo. L’individuo sperimenta in concreto le sue qualità, chiamiamole buone o cattive, e ogni contenuto-qualità si esprime secondo particolari forme (rupa). Il paradiso e l’inferno sono il prodotto delle nostre ideazioni. “Si diventa ciò che si pensa”, dice l’Upanisad.
D – Come poter uscire da queste forme qualificate che ci portano nell’angoscia o nel piacere?
R – Si, ha detto bene, “anche nel piacere”: ciò e molto importante se si vuole uscire dalla sfera di Sambhogakaya e trovarsi in quella del Dharmakaya, sul piano, cioè, della pura Luce informale e primigenia, laddove il dualismo scompare. È inevitabile che il lavoro di trasformazione debba avvenire sul piano fisico grossolano. Il Bardo Thötröl, ripetiamolo, non è un insegnamento per i morti, ma per i vivi, anche perché non c’è morte. Dobbiamo risolvere il dualismo cristallizzato, dobbiamo “scaricare” la nostra subcoscienza quando siamo nel corpo fisico, così saremo liberi di realizzare lo stato del Dharmakaya, o, se si è pronti, lo stato di Svabhavikakaya, che corrisponde al Quarto o Turiya del Vedanta. Pensare di trascendere il dualismo del Sambhogakaya senza volersi realizzare qui ed ora, significa cadere in un grosso errore di valutazione che si pagherà caro al momento opportuno.
D – (precedente interrogante). Se la soluzione non avviene, occorrerà sperimentare il terzo Bardo, cioè il sidpa bardo?
R – Chi non ha realizzato il Sé deve per necessità riprendere la via dell’individuazione.
– Tralasciando le concettualizzazioni teologiche, qual è il motivo psicologico e pratico della reincarnazione?
R – Riteniamo il termine trasmigrazione più adatto allo stato dell’io sperimentatore. Prima di tutto dobbiamo considerare che essa è un effetto e non una causa. La causa della trasmigrazione, nei differenti stati individuati, è rappresentata dalle vasana non risolte, dai samskara che si perpetuano nella nostra spazialità vitale.
Quando ci troviamo nel Sambhogakaya, senza aver risolto i nostri contenuti, che cosa succede?
I semi, che ormai si trovano allo stato potenziale, a poco a poco premono per germogliare e rifiorire, per cui l’entità viene sospinta la dove essi possono estrinsecarsi.
La trasmigrazione, dunque, avviene perché dei semi non bruciati premono per manifestarsi: non c'è niente di misterioso in questo processo; diremo che è semplice, “scientifico” e consequenziale.
Fino a quando perdura la sete per qualche cosa, perdura anche la sperimentazione e l’incarnazione. Il terzo Bardo è l’effetto inevitabile della non soluzione dei samskara e dell’ahamkara, il “senso dell’io”.
Raphael
tratto da Di là dal dubbio
Capitolo Post Mortem e Bardo Thotrol (pp. 125-145)
Edizioni Asram Vidya