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87. Le Vie della Gita di Sri Sathya Sai Baba

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La Canzone di Dio

La devozione è l’unica via per giungere alla meta divina, l’unica panacea per tutti i mali del mondo, l’unico metodo per farvi realizzare la verità. Credo che a mala pena si troverà un indiano che non abbia letto la Bhagavad Gita; credo anche che non ci sia nessuno che non abbia mai sentito parlare di questo testo sacro o non sappia della sua esistenza. Bhagavad Gita significa “la Canzone Divina”: sono parole che sono giunte a noi come un omaggio floreale di Dio, come un prasad, un cibo sacro. Vyasa ha intrecciato i fiori delle parole di Dio, ne ha ricavato una graziosa ghirlanda e ce l’ha donata.

Tre sezioni e insegnamenti della B. Gita

Fondamentalmente la Bhagavad Gita si compone di tre parti: Karma Kanda o le pratiche rituali, Upasana Kanda o la devozione mediante la preghiera e l’adorazione e Jnana Kanda o lo stato di Conoscenza. Ognuna di queste tre parti costituisce il contenuto di sei capitoli, il cui insegnamento si riduce ai vari temi spirituali, quali la devozione, la meditazione e la conoscenza metafisica. Ma, oltre a questi insegnamenti, la Bhagavad Gita ci ha trasmesso la sua essenza, la chiave di tutti gli insegnamenti racchiusi nella grande massima “Tat tvam asi”, che significa “Tu sei Quello”. Qui sta tutta l’essenza, la nota chiave della Bhagavad Gita. I primi sei capitoli ci parlano dell’anima che risiede nel corpo e della natura dell’anima che si manifesta per mezzo di esso. I sei capitoli successivi, mentre ci insegnano la via della devozione, ci mostrano anche la natura e il contenuto di ciò che è chiamato Tat o Quello. Gli ultimi sei capitoli, mentre ci danno il contenuto e il significato della terza parola “asi”, ci rivelano anche come si può realizzare l’identità del con “Quello”, l’identità del Jivatma col Paramatma; ci esortano inoltre alla rinuncia insegnandoci il modo di far sacrifici e di raggiungere la liberazione. Studiando correttamente la Bhagavad Gita e approfondendone i contenuti, capiremo la vera natura della massima “Tat tvam asi”.

Quale corpo abbandonare?

Questa mattina vi è stato spiegato il concetto dell’abbandono secondo la descrizione della Bhagavad Gita. Mi pare che non sia stato capito del tutto  il vero significato del termine sharanagati, l’abbandono totale ed assoluto alla volontà di Dio. I nostri anziani ce ne hanno spiegato il significato dopo aver studiato molti testi e scritture. Ciononostante, abbiamo l’impressione che la parola “abbandono” significhi mettere a disposizione di Dio il nostro corpo, la nostra mente, tutte le nostre forze e tutto ciò che abbiamo. Anche supponendo che l’abbandono consista nel “porre tutto davanti a Dio”, non sarebbe comunque quello il corretto e giusto significato della parola. Se consideriamo che il corpo non soggiace assolutamente al nostro controllo e che, in certe circostanze, ci crea pure diversi problemi, non si comprende perché dovremmo cederlo abbandonandolo a Dio!

Quale mente abbandonare?

Ancor peggio, se guardiamo alla mente, che ci porta a molte interpretazioni fuorvianti. E non è tutto. Mentre, infatti, non riusciamo a tenere sotto controllo la mente nemmeno per pochi istanti, ne siamo schiavi e stupidamente godiamo perfino delle sue divagazioni. Date tali premesse, non si capisce proprio perché abbandonare una siffatta mente a Dio. Mi sembra davvero ridicolo dire “Ti lascio la mia mente, o Signore”, con l’intenzione di deporre ai piedi di Dio una mente, per il controllo della quale dovete lottare tanto e con tentativi che si rivelano spesso vani! Oppure prendiamo il caso dei vari organi sensoriali: se la mente, che è sovrana dei sensi e colei che dovrebbe controllare tutti gli organi, si trova in una condizione così miserevole, che senso ha tirare in ballo gli organi di senso per abbandonarli a Dio?

Dio non chiede

Quando dunque dite che abbandonate a Dio il pensiero, la parola, l’azione, si tratta semplicemente di una vostra soddisfazione banale; non può rappresentare la verità, né il significato della parola “abbandono”. Giammai Dio vorrebbe che voi abbandonaste o cedeste a Lui tutto ciò che possedete. In realtà, Dio non vi ha mai fatto questo tipo di richiesta. Se fate un giusto tentativo per capire l’autentico significato della parola “abbandono”, comprenderete che si riferisce davvero ad un altro aspetto e che va interpretato nel contesto di fondo della Divinità. Solo quando avrete accettato l’onnipresenza del Divino e ne sarete persuasi vedendoLo in ogni essere umano, in ogni essere vivente, potrete capire che cosa significhi abbandonarsi col pensiero, con la parola e con l’azione a Dio ed essere una sola cosa con Lui. Allora, quando avete pieno controllo sulla mente, sulle parole e sul corpo, c’è ragione di parlare di abbandono. Non appena saprete riconoscere le caratteristiche dell’onnipresenza e dell’onnipotenza di Dio, svanirà il senso dell’io, sparirà l’idea di sentirsi un “io” distinto.

La resa di Arjuna

In altre parole, mentre cerchiamo di capire il significato della parola sharanagati, notate come sul principio Arjuna abbia cominciato a far domande al Signore Krishna, credendo di servirsi della propria intelligenza, della propria capacità d’indagine e della propria abilità nel saper discernere tra bene e male. Pensava di possedere energie autonome e, poiché faceva esclusivo affidamento sulle proprie forze ritenendole eccellenti e perfino superiori ai poteri di Dio, si trovò impelagato in un mare di difficoltà, incapace di decidere cosa dovesse fare o non fare. Allorché Arjuna si rese conto che ormai non era più possibile proseguire, né tirarsi indietro, e rimase di fatto bloccato nell’agire, si rivolse allora al Signore Krishna e gli disse: ‘Accetterò i tuoi ordini; non mi trovo nella condizione di poter decidere per conto mio che cosa fare. Sono disposto a obbedirti e ad eseguire il tuo volere: qualsiasi cosa tu voglia che io faccia, la farò con tutto il cuore’. In questo modo abbandonò pensieri, parole, azioni e tutto interamente a Dio. Ecco la lezione dell’abbandono impartita dalla Bhagavad Gita.

Una resa dualistica non è completa

Ma anche questo non è propriamente un tipo di resa completa, in quanto si era creata una situazione in cui Arjuna, disposto ad un’obbedienza immediata, fu indotto ad eseguire qualsiasi ordine gli avesse dato Dio. E’ una situazione in cui ci sono due posizioni: quella di un Dio che impartisce ordini e quella di un altro individuo che si appresta volonterosamente a metterli in atto. In altre parole, qui si verifica un dualismo, composto da due entità: Dio che dà ordini e l’uomo che vuole eseguirli. Finché nella mente di una persona esiste la distinzione che pone da una parte Dio e dall’altra l’io dell’individuo, non si può vedere in questo un abbandono completo. La beatitudine e la felicità sono nell’unione, non nella divisione dualistica. Perciò, quando considerate la parola “abbandono” nel senso comune del termine, rapportandolo alle consuetudini della vita quotidiana che voi interpretate come comandi del Signore, istruzioni divine da accettare e seguire nei dettagli, si tratta ancora di una resa che ha un valore limitato.

Meritare l’insegnamento

C’è un’altra cosa che dobbiamo riconoscere e notare. Sappiamo che Krishna ed Arjuna vissero insieme per più di ottant’anni, si incontrarono molto spesso e si parlavano da amici. Ma, in tutti quegli anni, mai il Signore Krishna cercò di insegnare ad Arjuna qualcosa della Bhagavad Gita. Fu solo dopo ottant’anni di convivenza, su un campo di battaglia ed anche in certe occasioni particolari, che il Signore volle trasmettergli i contenuti della Bhagavad Gita e conferire ad Arjuna una posizione di autorità e competenza che gli consentisse di fare qualcosa. Ma approfondiamo il significato di tutto questo. Nella Bhagavad Gita, Krishna ci insegna a riconoscere quello che va sotto il nome di adhikara, ossia la persona che è degna di svolgere un incarico. E’ anche Suo intento farci capire che non v’è motivo di insegnare la Bhagavad Gita a chi non abbia ancora la qualifica, il merito e l’affidabilità di apprenderla, giacché non ha senso trasmetterne i contenuti a qualcuno che non ne sia degno e non lo meriti. E’ chiaro che solo l’affamato ha diritto di chiedere cibo, solo chi possiede il denaro ha il diritto di spenderlo, solo il povero e l’indigente merita la carità e l’assistenza. In questo modo, ognuno ha diritto a fare qualcosa. Il previo riconoscimento di questo diritto o di questa qualifica è uno degli aspetti contenuti nella Bhagavad Gita.

Devoti ma non part-time

Se avete devozione verso Dio, Egli si prenderà cura di tutto il vostro avvenire e si occuperà di tutto il benessere che vi abbisogna. Parola Sua! Così ha dichiarato il Signore nella Gita. Ma quando? Il Signore promette che ciò si verificherebbe allorquando il devoto trascorra tutto il suo tempo assorto nel pensiero di Dio e purché abbia fissa in mente l’idea che il Divino pervade ogni essere ed è presente dappertutto. Il Signore non ha mai promesso di prendersi cura del benessere d’un devoto che pensi solo in alcuni momenti, saltuariamente, a Dio e persista tuttavia nel compiere del male in nome Suo. Ci sono tre pensieri che bisognerebbe mantenere stabili nella propria mente, e sono questi:

1°) non penserò a nient’altro all’infuori di Dio;
2°) non farò niente senza il consenso di Dio;
3°) manterrò la mia totale attenzione su Dio.

Solo quando avrete fatti vostri questi tre pensieri e li saprete mettere in pratica, il Signore baderà al vostro benessere. Al giorno d’oggi, la gente non pensa alle esortazioni e ai comandi di Dio; al contrario, discute con Lui e Gli chiede perché non si prende cura del suo benessere e della sua sicurezza. Non basta una semplice lettura e ripetizione del testo della Bhagavad Gita; nemmeno riflettendo sugli argomenti ivi trattati possiamo ricavarne dei benefici. Potremo trarne beneficio solo dopo aver compreso il senso del testo, meditato sul suo significato e digerito completamente facendolo diventare parte del nostro vissuto.

La scimmia e il gatto

Vi hanno parlato del sentiero della scimmia e del sentiero del gatto. La relazione familiare che esiste fra la madre scimmia e il suo piccolo è tale che, ovunque essa si muova, pur saltando da un ramo all’altro, il piccolo si tiene stretto mantenendosi attaccato a lei, seguendola così dappertutto. Il figlio ha una fiducia innata nella madre. Allo stesso modo, proprio come fa il piccolo della scimmia che si tiene stretto alla madre in ogni condizione, in tutte le circostanze, anche noi dobbiamo attaccarci a Dio in ogni condizione, in tutte le circostanze. Ecco il genere di comportamento che dobbiamo far nostro. E’ un sentiero questo che non richiede alcun tipo di responsabilità alla madre scimmia; l’intera responsabilità della condotta ricade sul piccolo. Nell’altro sentiero, invece, quello che ci mostra la vita dei gatti, l’intera responsabilità è della madre gatta, la quale trasporta in bocca i gattini da un posto all’altro e si prende ogni cura di loro. Tale spiegazione vi è stata data per farvi capire il significato dell’abbandono totale. C’è un particolare significato in questo esempio: quando rimanete al vostro posto, Dio stesso si fa carico di ogni responsabilità per prendersi cura di voi.

Il sentiero più elevato

Se questi due sentieri, quello relativo al mondo delle scimmie e quello relativo al mondo dei gatti, possono sembrare giusti esempi di devozione per l’uomo della strada abituato al linguaggio comune della vita di ogni giorno, non così è invece per il devoto che vuole scoprire il vero significato dell’Atma, del Sé interiore. A un tale devoto è più adatto un sentiero diverso e superiore ai due precedentemente descritti. Per spiegarne il significato e le caratteristiche, Vivekananda fece un esempio interessante. Chiunque desidera raggiungere la liberazione. Potremmo dire che liberazione sia sinonimo di libertà. Il desiderio di libertà è un sintomo d’una qualche schiavitù, anche solo temporanea. Che schiavitù? La schiavitù della tua stessa famiglia, la casa dove sei legato e intrappolato, gli affetti, la tua gente. Sono queste le catene che vi tengono legati: ciò che chiamate affetto, qualche tipo di attaccamento. Quando siete incatenati dagli affetti e dagli attaccamenti familiari, ci sono due modi per liberarvene. Uno consiste nell’avere la forza per spezzare la catena; l’altro sta nel farsi molto piccoli, più piccoli possibile in modo da poter scivolare ed uscire dalla catena che vi tiene legati.

Le due Vie per liberarsi: Bhakti e Jnana

Se volete giungere alla libertà e svincolarvi dalle catene, non v’è altro sistema all’infuori di questi due, che possono prendere il nome di “Via della Devozione” e “Via della Conoscenza”. La devozione implica il riconoscimento di un maestro, davanti al quale porsi in atteggiamento umile e remissivo. Significa anche ammettere che la propria condotta dovrebbe essere tale che non gli dispiaccia ed ottenga la sua grazia. Questo è il metodo della devozione e viene citato come un atteggiamento di Dasoham, un comportamento cioè che proclama la propria sottomissione, come a dire ‘Io sono tuo servo’. Quando ti senti incatenato, se dentro di te puoi affermare Dasoham dasoham, vuol dire che sei umile, che in te sta nascendo la virtù dell’umiltà e che il tuo ego sta decrescendo. Mentre l’umiltà aumenta, tu ti stai rimpicciolendo tanto che puoi scivolar fuori dalla catena. L’altra via è quella della Conoscenza e corrisponde al metodo di uscire dalla catena dicendo a te stesso: Shivoham, shivoham, ‘Io sono Shiva, io sono Shiva’. Il che significa che ti stai espandendo e stai diventando così grande da rompere la catena ed uscirne fuori. Dunque, per infrangere la catena e per liberarti esiste sia il sentiero della Conoscenza, sia il sentiero della Devozione.

da “Corso Estivo 1972” di Sri Sathya Sai Baba

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