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88. Vedanta Advaita di Raphael

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D. Si sente spesso parlare del Vedanta Advaita in termini di religione, di filosofia e di metafisica. Ma, in definitiva, che cos’è veramente il Vedanta Advaita?

R. Dovremo dire, prima di tutto, che certi quesiti sono posti soprattutto dall’occidentale più che dall’orientale. Inoltre, l’incomprensione di alcuni si aggrava se si tiene conto che determinate parole occidentali prendono accezioni diverse in Oriente.

V’è poi da precisare che le risposte ai vari quesiti vogliono solo rappresentare delle stimolazioni per ulteriori approfondimenti in testi adatti e specifici.

Noi occidentali abbiamo un concetto di religione, di filosofia e di metafisica che non corrisponde a ciò che si vuole intendere in Oriente con tali termini. Per noi il concetto di religione deriva dal contesto ebraico-cristiano-islamico e ha un suo preciso significato inerente alla costruzione teologica che queste religioni hanno elaborato. Parlare di religione induista potrebbe essere improprio perché l’Induismo, nel suo complesso e lungo il tempo, più che religione organizzata, verticizzata e dogmatica, è un “modo di essere”, di vivere, di esprimersi. Si può parlare di “civiltà induista”, di “coscienza induista”, di “atteggiamento induista”.

L’Induismo si rifà ai Veda i quali, più che un corpus teologico o dogmatico, sono una sintesi di filosofia, metafisica, mistica, cosmogonia, magia tradizionale e di altre scienze anche pratiche. L’induista direbbe che nei Veda c’è tutto quello che si vuole conoscere. Le speculazioni delle Upanisad e quelle degli Sastra si trovano in germe già nei Veda; le idee centrali del Buddhismo e del Jainismo non sono nuove, si trovano anch’esse nei Veda.

L’induista sostiene che i Veda, e quindi il Vedanta, cioè gli scritti posteriori che fanno coronamento ai Veda, rappresentano il Sanatanadharma, il dharma eterno che è al di là dal tempo. Questo dharma, essendo atemporale, non ha storia perché non ha un inizio. L’Ebraismo, il Cristianesimo, e l’Islamismo nascono nel tempo, hanno un inizio certo e un preciso fondatore: Mosè, Gesù e Maometto. L’Induismo non ha un fondatore, i Rsi stessi che hanno steso i Veda sono solo trasmettitori di una Verità eterna che è sovra storica e non-umana. Di molti Rsi non si conosce neanche il nome, e di alcuni di essi il nome è più mitico che reale; per esempio Vyasa viene ritenuto il compilatore dei Veda, di tanti altri scritti vedici e dello stesso Mahabharata, ma Vyasa più che un nome proprio rappresenta una “funzione”, è un nome mitico e non viene considerato alla stregua di un Mosè o di un Gesù.

In occidente il concetto di religione implica un fondatore (spazio-temporale), il quale formula certi principi spirituali-morali che devono essere seguiti dai fedeli. Non è così per l’Induismo. Tutt’al più questo concetto di religione può avvicinarsi al Buddhismo, ma anche qui occorrerebbe fare molti distinguo.

Dunque, l’Induismo non è una religione, come s’intende questo termine in Occidente; è anche per questo che non è facile abbracciare, inserirsi o “convertirsi” all’Induismo. Un ebreo che voglia diventare cristiano ha solo da ricevere il battesimo cristiano, e automaticamente può essere inserito nella comunità religiosa cristiana, ma per chi vuole diventare induista non è questione di battesimo, anche perché un tale battesimo non esiste. Qualcuno arriva a pensare che induista si nasce. Ma è anche vero che in Occidente vi sono tante “coscienze induiste”, come in Oriente vi sono tante persone che si sentono cristiane o maomettane. Il termine “orientale” può non considerarsi in senso geografico.

C’è poi da notare che in Oriente filosofia e religione sono sempre unite, contrariamente a quanto avviene nell’Occidente moderno. L’una integra l’altra. Gaudapada, per esempio, commenta la Mandukya Upanisad sotto la prospettiva della Sruti e sotto l’aspetto della dialettica filosofica. In altri termini, ha unito la Rivelazione alla riflessione filosofica.

In riferimento al Vedanta Advaita non è affatto questione di parlare in termini di religione. Il Vedanta Advaita, il cui codificatore è stato Samkaracarya, si riallaccia ovviamente ai Veda e ha colto in essi il fattore prettamente filosofico e metafisico. Le sue radici sono dunque vediche, il tronco è stato nutrito da Gaudapada, maestro del maestro di Samkara, e l’albero ramificato con gli abbondanti frutti è stato sviluppato da Samkara.

Il Vedanta Advaita può considerarsi una filosofia e una metafisica, ma questi termini non vanno intesi nell’accezione che hanno in Occidente.

La filosofia nell’Occidente, soprattutto moderno, è riservata a quelle persone le quali cercano di “dimostrare”, mediante una dialettica mentale e discorsiva, una loro visione del mondo e dell’Essere. In altri termini. Si cerca di “dimostrare” verità usando la ragione discorsiva; ma si sa che la discorsività mentale ha dei limiti, perché può operare solo sul piano dell’oggetto e del contingente. Una “dimostrazione” razionale empirica dell’Essere, per esempio, implica il porsi sempre sul piano della dualità la quale, a sua volta, preclude decisamente non solo la “dimostrazione”, ma la stessa vera conoscenza dell’Essere.

Si può dire che in Occidente la filosofia risente dell’atteggiamento coscienziale tipico occidentale di porsi in termini dualistici, oggettivistici. Essa vuole conoscere l’oggetto esterno, quella orientale intende conoscere colui che cerca di conoscere l’oggetto esterno.

L’occidentale è una filosofia di semplice “dimostrazione” mentale, quella orientale è una filosofia di realizzazione.

Inoltre, mentre il filosofo occidentale ha creato il suo “sistema” filosofico, e spesso in contrasto e in opposizione con i “sistemi” degli altri filosofi, il filosofo orientale non ha creato un “sistema”, né si è arrogato la proprietà delle sue enunciazioni.

Il Vedanta Advaita (come gli altri darsana) è un darsana che si ricollega ai Veda, che attinge ai Veda, che cerca di sviluppare una “prospettiva” o un “punto di vista” che già si trova in embrione nei Veda. Darsana, difatti, non ha l’accezione di un “sistema” filosofico chiuso escogitato da qualche solitario pensatore-filosofo; il suo significato etimologico è “guardare”, “osservare”, è “punto di vista” in relazione alle Scritture vediche: Veda e Upanisad (Sruti). Ma anche la filosofia greca, nella sua accezione più ristretta, era una filosofia che attingeva il suo contenuto dai Misteri. E i Misteri rappresentano un ramo di quella Dottrina eterna che abbiamo chiamato Sanatanadharma. Orfeo, Pitagora, Platone, Plotino – per citarne solo alcuni – attingono ai Sacri Misteri. E lo stesso Cristianesimo, pur innestandosi ai Sacri Misteri (nella Santa Messa vien detto appunto: celebriamo i Sacri Misteri), li ha rifiutati e disconosciuti. Così, quando parliamo di filosofia ci riferiamo a quella Philosophia perennis che non ha storia e non è stata formulata da mente umana.

Il termine metafisica ha un’accezione più specifica e si riferisce a quel Ramo della Filosofia che tratta del Reale assoluto, di là da tutte le contingenze, di là dal manifesto, nella sua integrale estensione, di là quindi dal tempo-spazio-causa.

Nell’Occidente moderno chi parla di metafisica … può essere messo al “rogo”, tanto è il rifiuto del trascendente. Ma, invero, nell’Occidente moderno non esiste più neanche la filosofia, perché è stata fatta scendere a livello di filosofia della scienza, della politica, del diritto, ecc.

da “Il Sentiero della Non-Dualità” (Advaitavada) di Raphael

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