Un insegnamento riguardo alla capacità di riconoscere la “via”, o il “maestro”, ci viene dalla storia di Narota, asceta tibetano del X secolo, che, durante il noviziato, errando di contrada in contrada alla ricerca del proprio maestro, Tilopa, si lascia sfuggire una serie di occasioni di ritrovarlo, perché ogni volta incontrandolo non lo riconosce: giunge talora persino a scagliarglisi contro. Narota viene giocato dai più legittimi stati d’animo, in quanto il maestro gli va incontro in vesti inaspettate, non rispondenti al cliché che egli se ne è fatto, epperò non appagante il suo sentimento umano: che è dire la sua brama. Non diversamente si comportano oggi coloro che cercano lo Spirito nella forma con cui preventivamente se lo sono rappresentato o l’hanno appreso nei testi: lo respingono, se si presenta nella veste da essi non prevista.
Questo non riconoscere il maestro, o avversarlo, tuttavia, è positivo dal punto di vista temporale dello Spirito, poiché comporta che tutta la vita del discepolo sia una continua correzione del suo discernimento: che in tal modo diverrà un giorno strumento della scelta cosciente. Narota infine trova Tilopa. L’Iniziazione è un trascendimento dell’umano: dell’umano che, in quanto tale, in profondità rifiuta il proprio trascendimento, e per tale rifiuto è dotato di molta logica. Il discepolo può avversare il Maestro che invece dalla profondità della coscienza cerca: può in tal senso persino mobilitare argomentazioni esoteriche: ma è sempre la dialettica, espressiva dello stato di caduta, di cui l’Iniziazione è reintegrazione.
Nei tempi in cui la dialettica è la misura dell’umano, è difficile che il punto di partenza del discepolo sia il riconoscimento del Maestro. Nei tempi dell’autocoscienza razionale, dell’individualismo, dello gnosticismo incapace di scindere da sé il sensualismo costituzionale al tipo umano moderno, tale riconoscimento è decisivo per l’esperienza interiore. Non si tratta infatti del rapporto con un’opera o con una dottrina, bensì con una corrente di forza. Secondo il Sataro Don Marco, nel nostro tempo vi sono uomini che, per quanto cercatori dello Spirito, pure soltanto dopo la morte possono riconoscere il proprio Maestro: contro il quale possono anche aver combattuto tutta la vita.
Le confusioni, indefinitamente possibili, sono nullameno necessarie, se servono a obiettare l’errore, del quale un giorno sarà dato cogliere, oltre la forma transitoria, il contenuto di realtà. Sono così comprensibili le finzioni di “maestrato”, di personaggi che possono persuadere se stessi, epperò gli altri, circa un maestro incontrato, come tutta la popolazione di cercatori dei filoni segreti o perduti della Tradizione, continuamente giocati da qualcuno che lascia intravvedere se stesso come depositario di tale filone: un giuoco continuo di assoggettamenti reciproci, di cui il più delle volte l’Inconscio come corrente sub-individuale tiene le fila, manovrando i presunti cercatori del superindividuale, la cui capacità di entusiasmarsi dinanzi al balenio di una qualsiasi luce artificiale che appaia la trascendente luce della Gnosi, pur testimoniando di una qualche vocazione, lascia intendere quanto manchi l’indipendenza interiore, o la capacità di reggersi da sé, che è il segno dello Spirituale, ma soprattutto quanto manchi una educazione del pensiero, la consapevolezza dei mezzi di conoscenza occorrenti all’impresa dello Spirito.
A questa popolazione di cercatori sarebbe saggio fornire un metodo di formazione dell’organo del pensiero, piuttosto che suggerire una scelta, o indicare la figura di un Maestro, o parlare in nome del “proprio maestro” come di un garante delle speculazioni filologiche-esoteriche ammannite. Nell’anima del cercatore viene metafisicamente indotto il limite del realismo primitivo, se gli si suggeriscono rappresentazioni mediante cui riconoscere la figura del Maestro, o intuire i valori in cui si esprime il suo insegnamento, o la sua influenza. La questione che piuttosto si pone in tal caso, è stabilire a chi appartenga l’iniziativa, se al discepolo o al Maestro: se il discepolo trova il Maestro perché lo ha cercato, o piuttosto perché il Maestro ha deciso di andargli incontro. L’arte di ravvisare il Maestro è indubbiamente in relazione al grado di sviluppo del discepolo. Ma se il Maestro è una realtà sostanziale del cammino del discepolo, è evidente che, ad ogni momento di tale cammino, egli è in rapporto con il Maestro: questi agisce su di lui anche col non apparirgli, con il lasciarlo a sé in solitudine, in assoluta libertà. Il non comparire del Maestro può essere l’aiuto essenziale per il discepolo, perché egli possa veramente muovere da sé (ex se) a ritrovarlo.
Se maestri spirituali circolano ancora tra gli uomini, è difficile che nell’epoca della politica e della pubblicità essi siano abbordabili e indicabili. Già accade che talune persone occidentali in momenti di crisi interiore, per via aerea si rechino presso accoglienti aspra indiani, in cui vengono forniti di mantram, asana, temi di meditazione, tecniche del pranayama ecc., e poi tornino fiduciosi e discepoli, il guru in molti casi sta sostituendo lo psicanalista.
Ogni reale ricercatore è un discepolo, e, in quanto discepolo, è già in relazione con il proprio Maestro. Ma la situazione dell’uomo contemporaneo è tale che la direzione del mondo spirituale esige un estremo rigore per non venir compromessa da velleità umane. Infatti, il livello in cui è possibile che abbondino gli pseudo maestri, i facili predicatori e salvatori, la serie dei propinatori di tecniche Yoga, o i riluci datori della Gnosi, è quello dell’intellettualismo mistico contemporaneo, capace di soddisfare le immediate esigenze logiche della ricerca e l’istanza psichica, piuttosto che la richiesta reale dell’Io. Questa richiesta non viene riconosciuta. Così, la recezione di una “trasmissione” che, pur presumendo trascendere la coscienza razionale, non diviene atto dell’autocoscienza del chela, è sostanzialmente il persistere di un intellettualismo che pone l’”influenza spirituale” di là dal soggetto che solo può sperimentarla. Se il soggetto è lo Spirito, non è certo l’ego: perciò la reale esperienza non è quella che esclude il soggetto, come nei casi in cui la coscienza diminuisce sino alla medianità, bensì quella in cui il soggetto è tanto consapevole da avvertire il proprio fondamento e da non concepire altri fuori di sé.
Un discepolo che concepisca l’Atman dovrebbe avvertire che non lo concepisce fuori di sé, anche se ancora non lo realizza: dovrebbe evitare di cadere nell’intellettualismo che elabora fuori di sé un “principio”, o un “assoluto”, semplicemente rappresentandolo, o ideandolo. Problema che non si poneva un secolo fa, né alla fine del secolo scorso o agli inizi di questo, ma oggi si pone come fondamentale, perché nella struttura psicofisiologica dell’uomo, come risulta a una serie di indagini concordanti, qualcosa è cambiato: egli è divenuto definitivamente un cerebrale. La tentazione di identificare il semplice pensiero intuente, con quello che Guénon chiama “intelletto puro”, il cui ordine è sopraindividuale, è il segno della inconsapevolezza di un simile mutamento.
A coloro che seguono i sentieri dell’Oriente, va ricordato che il tema dell’Atman o del Jivatman si regge soltanto su quello della essenziale soggettività, in senso vedantico e non in senso filosofico idealistico: ma perciò esso oggi è ravvisabile, in rapporto a una via occidentale, o “moderna”, come esigenza di una metànoia, o di una conversione del pensiero razionale. Il superamento del limite del pensiero riflesso, è in sostanza la chiave della relazione con il Maestro. V’è un tratto del sentiero che congiunge discepolo a Maestro, che deve essere percorso dal discepolo: dipende solo da lui, dalla sua iniziativa, o dalla sua libertà, il percorrerlo. Si tratta infatti della sfera della razionalità ferramente in sé conclusa e, per la sua stessa struttura, opposta a qualsiasi influenza spirituale: è la barriera che non può essere superata dal Maestro, ma da colui che all’interno di essa è prigioniero. È prigioniero, ma dispone di un veicolo interiore che muove simultaneamente entro e fuori la barriera: il pensiero. Tale veicolo può condurre lo sperimentatore cosciente, che liberamente voglia, oltre il limite di chiusura: egli può pensare, perciò può giungere a contemplare il pensiero.
Dovrebbe essere evidente a ogni ricercatore che il pensiero razionale, in quanto è il gradino più basso della conoscenza, è perciò il primo della risalita. Non v’è pensiero che, per quanto arido e mediocre, non rimandi alla sua fonte interiore: il non riconoscere tale possibilità e il voler trascendere il pensiero mediante una qualsiasi azione interiore che ignori il punto in cui l’interiorità subisce il vincolo razionale, è la causa del fallimento di ogni impresa dello Spirito in questo tempo.
tratto da ”Yoga – Meditazione – Magia” di Massimo Scaligero, Teseo – Roma