Il Bhagavata Purana condivide, insieme alla Bhagavad Gita, una posizione unica nella letteratura religiosa dell’India.
Dopo le Upanishad e la Bhagavad Gita, lo Srimad Bhagavatam è il più popolare e autorevole testo sacro della tradizione indiana. Per mezzo di storie tratte dalle vite di avatar, saggi, santi, devoti e re, esso divulga al popolo le verità e gli insegnamenti dei Veda. Ancora oggi centinaia di milioni di Indù trovano in esso la più cara espressione della loro fede religiosa e una fonte inesauribile d’ispirazione spirituale. Studiarlo è il modo migliore per familiarizzare con la religione e la spiritualità indiana.
I Purana appartengono alla Smrti, vale a dire alla tradizione. Si sostiene che la letteratura appartenente alla Smrti abbia come sorgente i Veda (la Sruti), e come tale va considerata in possesso di autorità.
La Sruti e la Smrti sono le due fonti d’autorità nell’Induismo. Sruti letteralmente vuol dire ciò che è stato udito; Smrti indica ciò che viene ricordato. Sruti è rivelazione e Smrti è tradizione. Sruti è l’esperienza diretta fatta dai rishi che udirono le eterne verità della religione e le registrarono per il bene dell’umanità. Tutto ciò che loro trasmisero andò a costituire i Veda, la principale autorità.
La Smrti, cui appartengono i Purana, è l’autorità secondaria che è basata sulla Sruti e da essa trae sostegno. Anche quando i contenuti della Smrti non possono essere rintracciati nei Veda, si inferisce che tali testi vedici debbano essere esistiti. La Smrti va considerata priva di fondamento solo quando è direttamente contraddetta dai Veda. In genere i testi che appartengono alla Smrti vengono considerati una continuazione dei Veda, sebbene di fatto siano stati scritti in epoca più tarda e in differenti periodi e nonostante introducano spesso nuovi concetti e ideali.
I Purana furono scritti per divulgare la religione dei Veda; essi ne contengono l’essenza e si prefiggono lo scopo d’imprimere nelle menti delle masse i loro insegnamenti, ispirando devozione per Dio attraverso esempi concreti, miti, storie, leggende, vite di santi, di re e di grandi uomini, allegorie e cronache di grandi eventi storici.
I Purana non furono composti per i bramini, i pandit e gli studiosi, ma per la gente comune che non poteva comprendere o studiare l’alta filosofia dei Veda. Il linguaggio dei Veda è arcaico e pieno di simbolismi esoterici, mentre la sottile filosofia del Vedanta e delle Upanishad è molto difficile da comprendere ed assimilare. Da qui il valore dei Purana, che hanno il merito di presentare le verità filosofiche e i preziosi insegnamenti dei Veda in maniera popolare, semplice e facile per tutti. I saggi che li scrissero illustrarono gli eterni principi della religione, permettendo anche alle persone comuni di accedere ai misteri della vita e alla via che porta alla beatitudine.
In tutto vi sono diciotto Purana principali o Mahapurana, e un numero uguale di Purana secondari o Upapurana. Tra i Mahapurana i più importanti sono lo Srimad Bhagavata Purana e il Vishnu Purana.
Sebbene sia uno dei più recenti, il Bhagavatam è il Purana più importante per popolarità ed influenza; esso rappresenta un punto di riferimento fondamentale per l’Induismo e si colloca al centro della sua tradizione religiosa e filosofica.
Il testo come noi lo conosciamo dev’essere di composizione alquanto recente. Il fatto che Ramanuja non lo abbia menzionato né citato potrebbe essere un motivo valido per farci supporre che la data della sua composizione non sia anteriore al 1100 d.C. Secondo altri, Ramanuja non lo avrebbe citato perché questo Purana, ispirato al Kevaladvaita, non si presta a corroborare le sue tesi. Questa ipotesi, sostenuta dal fatto che lo Srimad Bhagavatam era noto ad Al-Biruni (X-XI secolo) ed è stato citato da Abhinavagupta (XI secolo), può farci pensare al 1000 d.C. circa come data definitiva della sua composizione.
Ricordiamo che probabilmente il Bhagavatam doveva essere un libro assai antico, arricchito e manipolato a più riprese nel corso dei secoli. E’ opinione di molti studiosi che questo periodo d’interpolazioni sia cessato dopo l’avvento del movimento della bhakti vaisnava tamil, poiché il Bhagavatam cita gli Alvar, i santi vaisnava dell’India del Sud. Madhva (XIII secolo) dedicò a questo Purana una delle sue opere più importanti; di certo, durante il suo tempo, il Bhagavatam era già molto famoso.
Il Bhagavatam appartiene alla tradizione vaisnava e, sanscritizzandosi, cerca di conformarsi all’ortodossia vedica, echeggiando perfino lo stesso linguaggio dei Veda. La tendenza arcaicizzante presente nel testo induce l’autore ad incorporarvi il maggior numero possibile di antiche formule di reminiscenza vedico-upanishadica, per dimostrare l’antichità del testo e la sua aderenza alle antiche tradizioni.
Con la sua visione di sintesi, il Bhagavata Purana, insieme alla Bhagavad Gita, rappresenta l’Induismo; in esso confluiscono varie componenti mitologiche e filosofiche, in cui ideali e visioni diverse vengono amalgamate e fuse insieme per formare e plasmare un’unità organica, coerente e sistematica, pur conservando varie sfaccettature.
Ancora, insieme alla Gita, il Bhagavatam rappresenta il testo principale prodotto dal movimento bhakti – scaturito spontaneamente dall’intimo dell’animo religioso indiano – che qui s’incontra e si fonde con la tradizione vedica.
Dio, nel Bhagavatam, è chiamato con differenti nomi, quali Brahman, Paramatman, Bhagavat, Atman, Purusha, ecc.; ma qualunque sia la parola usata, è sempre chiaro che la Sua essenza consiste di pura Coscienza senza forma, assolutamente priva di qualsiasi dualità o distinzione.
Egli è il Supremo che trascende ogni cosa; con il potere della Sua maya, che consiste dei tre guna, Egli crea e dissolve gli universi. Maya rappresenta soltanto un Suo potere esterno, attraverso cui emana da Se stesso la creazione. Pur restando trascendente al di là di tutto, Inconcepibile, Egli è il Substrato della creazione; la maya è dunque sottomessa alla Sua vera natura, che è assoluta e pura Coscienza.
Durante il pralaya, la dissoluzione e il riassorbimento dell’universo, le anime individuali (jiva) rimangono come assopite e i guna esistono solo nella loro forma potenziale e di equilibrio. Poi con il Suo potere Egli desta Prakriti, che è la Sua shakti e maya, e le anime individuali vengono proiettate di nuovo nel mondo di nome e forma.
A voler analizzare, potremmo dire che Dio ha tre distinti poteri: il potere interno, imperscrutabile e trascendente, che costituisce la Sua Essenza e natura; il potere esterno o maya, e il potere che manifesta le anime individuali. Brahman è però un’unica Coscienza indifferenziata, e dal punto di vista della più alta realizzazione vedantica non vi è alcuna distinzione o differenza tra il ‘potere’ e il ‘possessore del potere’.
Esiste una sola Realtà Assoluta, che si manifesta sia come potere sia come possessore del potere. Quando si guarda il possessore del potere, Lo si chiama Dio oppure Bhagavat o Purusha o Ishwara, ecc.; quando si vuol sottolineare il potere, allora lo si chiama Shakti, Prakriti o Maya, Spirito Santo, Energia Primordiale, ecc.
Nel Bhagavatam le anime individuali sono considerate parti di Dio e manifestazioni di uno dei Suoi poteri; tuttavia pur essendo manifestazioni di un potere di Dio, i jiva non sono identici a Lui, ma distinti da Lui proprio perché manifestazioni di uno dei Suoi poteri. L’unità o identità tra Dio e i jiva è legata al fatto che la Realtà ultima esiste di per sé, in maniera totalmente indipendente; non esiste un’altra entità [né purusha (i jiva) né prakriti (il mondo)] che gli stia a fianco, poiché sia i jiva che il mondo derivano la loro esistenza da Lui e sono mere manifestazioni del Suo potere.
Le anime individuali e il mondo esistono solo in Dio e per Dio: Egli è il Substrato, la Causa di manifestazione, sostentamento e distruzione dell’universo e dei jiva; Colui che testimonia gli stati di veglia, sogno e sonno profondo; Colui che sostiene il corpo, i sensi, la vita e la mente; la Causa incausata che trascende tutto. Quando questa Realtà Assoluta è vista come personale, nella pienezza di tutte le Sue relazioni, allora è chiamata Bhagavat, Dio; quando viene concepita senza e al di là di ogni relazione specifica, nel Suo aspetto trascendente e inconcepibile, allora viene chiamata Brahman.
Lo Srimad Bhagavata Purana offre una versione del Samkhya differente da quelle forniteci dai testi classici di questo sistema filosofico. Mentre questi ultimi ci presentano un sistema ateo o estraneo all’idea di Dio, il Samkhya del Bhagavatam, seguendo la grande sintesi della Gita, è teista e considera il Purusha come Ishwara equiparandolo a Dio.
Esiste un Purusha che splende di luce propria, senza qualità e senza inizio, che si manifesta anche come la somma di tutte le anime individuali e che trascende la sfera di Prakriti. Per mero gioco (lila), il Purusha accetta Prakriti, che lo avvicina con il suo permesso; il Purusha viene però catturato dai movimenti di Prakriti, che produce da sé diversi tipi di creazioni, ed è accecato dal potere oscurante della sua ignoranza.
A causa di una falsa sovrapposizione, il Purusha pensa di essere l’agente che sperimenta i cambiamenti prodotti dal movimento dei guna di Prakriti; in tal modo è preso nel ciclo di nascite e rinascite, e rimane legato alle leggi del karma. In realtà, Prakriti è la sola ed unica causa dei suoi stessi effetti, mentre il Purusha è solo il testimone di piacere e dolore.
L’evoluzione delle ventiquattro categorie di Prakriti è data, in senso ascendente, dai cinque elementi grossolani (mahabhuta), i cinque tanmatra, i dieci sensi (grossolani e sottili) e il microcosmo (l’antahkarana, formato da: manas, buddhi, ahamkara e citta). A questi bisogna aggiungere la venticinquesima categoria, il tempo (kala), che alcuni considerano non come evoluta da Prakriti, ma come lo sforzo trascendentale del Purusha. Dicono che, nell’uomo, Dio si manifesti internamente come il Sé interiore, il Testimone, ed esternamente come kala nei molteplici oggetti d’esperienza.
Il Purusha va considerato sia sotto l’influenza di Prakriti sia libero da essa, nella sua capacità trascendente (vale a dire, come Dio). Kala con la sua influenza disturba l’equilibrio dei guna e dunque dà vita alle loro trasformazioni; da ciò, grazie alle direzioni delle leggi del karma, tenute da Dio, evolve la categoria del mahat, che dà luogo a tutto il resto.
L’unico Purusha, riflettendosi nella Prakriti, proietta un’ombra d’infiniti sé (purusha), i quali vengono illusi dall’ahamkara (ego) e si considerano degli agenti attivi; così, malgrado non siano soggetti a nascita e morte, continuano a soffrire la schiavitù del samsara, come un uomo che soffre per un cattivo sogno.
Coloro che desiderano la liberazione devono fermamente praticare il non attaccamento ai piaceri del mondo e sviluppare una grande devozione.
Gli uomini ottengono la liberazione solo quando abbandonano l’amore di se stessi (l’ahamkara) e possono realizzare la verità di Purusha e Prakriti, vale a dire che il primo è l’unica Realtà incondizionata che sta alla base di ogni cosa, come il sole che crea le illusioni dei suoi riflessi nell’acqua. Essi pervengono alla liberazione quando realizzano che il vero Sé, la Realtà, è sempre presente come Colui che manifesta, testimonia e sottostà alla nostra personalità biologica, sensoriale e psichica, e che questa Realtà viene sperimentata nel sonno profondo senza sogni (quando l’ego cessa di esistere).
Il primo skandha del Bhagavata Purana inizia con una citazione del Vedanta-Sutra, il che testimonia in maniera esplicita lo stretto legame del testo con questo darshana. Ancora, l’uso continuo che l’autore di questo Purana fa delle categorie dell’Advaita Vedanta, soprattutto di quella di maya, avvalora la nostra ipotesi.
Il Bhagavatam definisce maya la manifestazione del potere esterno di Dio, come ciò che non può manifestarsi se non per mezzo della Realtà ultima, anche se non è presente in essa. Maya, dunque, è ciò che non esiste al di fuori di Brahman e che, tuttavia, non ha esistenza in Brahman. Anche in questo, il Bhagavatam si colloca dal punto di vista dell’Advaita Vedanta. Ricordiamo, infatti, che per Shankara maya non è né illusione né realtà, né Brahman né non-Brahman.
In un passaggio del Bhagavatam ci si chiede come Dio, essendo in Se stesso libero, possa legarSi in schiavitù con maya. In realtà, si risponde, per Dio non esiste schiavitù: come nel sogno un uomo può percepire di aver avuto la testa mozzata dal corpo, o come si può scorgere il proprio riflesso nell’acqua muoversi a causa delle onde, così le anime individuali che sembrano soffrire la schiavitù del mondo sono solo riflessi di Dio. Ne consegue che i jiva sono creazioni illusorie assolutamente irreali, come il mondo nel quale fanno le loro esperienze.
Nel passo seguente si afferma in maniera chiara e precisa che il mondo si manifesta solo nella coscienza, ma che in realtà non esiste.
Qui, e in altri punti ancora, è chiaro come il Bhagavata Purana contraddica distintamente certe interpretazioni dualistiche che si è cercato forzatamente di dare alla sua filosofia.
A parte il dharma proprio alle differenti caste e ai diversi stadi della vita (ashrama), nei testi vedici si hanno tre momenti nello sviluppo del concetto di dharma: dharma come dovere di seguire le ingiunzioni vediche, dharma come virtù morali quali non violenza, sincerità, autocontrollo, ecc., e quello che Yajnavalkya definisce il dharma supremo, cioè l’autoconoscenza per mezzo dello Yoga.
Il Bhagavatam introduce un nuovo aspetto del concetto di dharma, vale a dire l’adorazione disinteressata di Dio – per amore dell’amore – un’adorazione compiuta con il cuore puro e sincero da uomini benevoli verso tutti e liberi da ogni forma di gelosia.
Questo tipo di adorazione implica, naturalmente, la conoscenza dell’Assoluto, giacché deriva dalla realizzazione dell’adorabilità del Signore, e conduce alla beatitudine suprema. Quando lo spirito dell’uomo viene liberato dalle impurità che gli sono estranee, questa condizione naturale costituisce il suo dharma.
Il dharma, dunque, non è una cosa che va ottenuta o conquistata, un’acquisizione esterna, ma costituisce la natura più profonda e autentica dell’uomo che si manifesta non appena si rimuovono le impurità che si sono sovrapposte.
Il Raja Yoga di Patanjali si può considerare la parte pratica della filosofia Samkhya ed ha come fine la realizzazione di Dio (Purusha).
La devozione e l’amore per Dio sono un altro modo per acquisire la giusta conoscenza e saggezza circa l’unicità della Realtà Assoluta e la vera relazione tra Prakriti e gli illusori sé individuali. Quando grazie alla para-bhakti o devozione suprema per il Signore, la mente si distacca da tutti gli altri oggetti – e non ha più un oggetto di meditazione – scompare come una fiamma che si estingue e il sé individuale, libero dai condizionamenti impostigli dalle trasformazioni dei guna, si ritrova finalmente unito al trascendente e supremo Purusha.
Il tema e il fine principale dello Srimad Bhagavata Purana è senz’altro la celebrazione dell’ideale avatarico, l’incarnazione divina. Poiché il Signore è l’artefice dell’universo, che ha creato per mezzo della Sua maya, a Lui appartengono i Veda, i sacrifici, le pratiche ascetiche, lo yoga, la conoscenza, la devozione e ogni opera. Perfino la sola invocazione del Suo nome divino è sufficiente per avere la certezza della Sua protezione, e quindi per salvarsi dal samsara. Ogni volta che il male predomina sulla terra e sta per sopraffare il bene, Dio S’incarna in una delle Sue forme per proteggere e soccorrere i giusti e far trionfare la giustizia. Dio assume le forme che vuole, Si manifesta come vuole e nessuno può rendere ragione delle Sue rivelazioni e incarnazioni.
L’Avatar ha sempre una missione precisa, determinata dalle diverse circostanze storiche, sociali e religiose nelle quali si svolge il Suo gioco divino. Il processo dell’incarnazione avviene con l’ausilio di maya, anche se l’Avatar non è mai coinvolto nel divenire e nelle limitazioni del mondo, se non in maniera apparente. In realtà Egli, pur sembrando limitato nella forma, è completamente libero e trascendente.
Il testo di questo Purana raggiunge l’apice con la presentazione di Sri Krishna, l’Avatar più umano e più bello, Colui che incarna gli ideali del dio-bambino e del dio-giovane.
Il posto preminente che il Bhagavatam assegna all’incarnazione di Krishna serve a sottolineare il rapporto d’amore tra Creatore e creatura, che si manifesta nella moltiplicazione dell’Amore stesso nella persona di Sri Krishna, il quale si fa tutto per tutti.
Il decimo libro del Bhagavatam narra la vita di Krishna e i suoi giochi (lila) divini.
L’undicesimo libro entra nel vivo della vita spirituale e riporta gli insegnamenti di Sri Krishna al discepolo Uddhava. Questo libro da solo, noto con il nome di ‘Uddhava Gita’, costituisce un autentico testo sacro all’interno del testo sacro ed è considerato pari e complementare alla ‘Bhagavad Gita’.
L’eccellenza particolare del Bhagavatam sta nella sua capacità di riconciliare il cuore con la mente, bhakti e jnana, devozione e conoscenza. “E’ fritto nel burro della Conoscenza”, disse Sri Ramakrishna, “e immerso nel miele dell’Amore”.
Nella presente versione sono state incluse solo le parti più interessanti dell’opera – circa metà dell’intero volume. In questa versione divulgativa, curata da Swami Prabhavananda, circa metà dell’opera è riassunto e parafrasi piuttosto che traduzione; il rimanente, e soprattutto la parte principale che comprende l’insegnamento di Sri Krishna al discepolo Uddhava (Libro XI), è stato tradotto integralmente, senza omissioni e quasi alla lettera. In ogni parte, comunque, l’intento principale è stato quello di rendere lo spirito interiore del testo sanscrito.
tratto da “Srimad Bhagavatam” Edizioni Vidyananda