Un gran numero di false concezioni sulla religione indiana ha ancora cittadinanza, anche in ambienti eruditi. L’induismo viene presentato come un politeismo, benché non sia più politeista del cristianesimo; a questo proposito, ci si potrebbe stupire leggendo quest’affermazione, che proviene da una fonte autorevole, e non certo di secondaria importanza, trattandosi di S. Tommaso d’Aquino: “Non non possiamo dire il solo Dio, poiché la deità è comune a molti” (S. Th. I, 31, 2). E come i musulmani hanno erroneamente considerato il cristianesimo un politeismo, i cristiani si sono ingannati assimilando l’induismo al politeismo.
In verità, né cristianesimo, né induismo sono politeisti, benché siano entrambi polinomiali; è in effetti inevitabile che il Principio Supremo riceva un’infinità di denominazioni, proprio a causa della sua infinita varietà e della sua modalità universale, per quanto perfettamente semplice, unico ed identico a se stesso Egli possa essere.
Nello stesso modo, l’induismo è stato interpretato come una credenza panteista, il panteismo essendo la dottrina secondo la quale ogni cosa è Dio. È tuttavia un fatto che questa visuale è sempre e categoricamente sconfessata nell’induismo, a causa dell’incessante affermazione simultanea dell’immanenza e della trascendenza della Divinità, e per la distinzione tanto ripetuta tra i Suoi aspetti finiti ed intelligibili ed i Suoi lati infiniti ed inintelligibili. Invero, le tradizioni indù e cristiana utilizzano congiuntamente, l’una al pari dell’altra, modi complementari di “affermazione” e di “negazione”. Da una parte esse descrivono la divinità conformemente ai suoi poteri, ai suoi atti ed alle sue manifestazioni di onnipresenza, dall’altra dichiarano che “nulla di vero può esser detto di Dio”, che tutto ciò che può essere detto è inadeguato o costituisce una deformazione, da cui la famosa allocuzione delle Upanishad: “No, No” (neti, neti”).
Incontriamo d’altronde ad ogni passo l’affermazione continua dell’identità, non certo riguardo all’ego empirico, tra il Sé reale e più profondo dell’uomo e l’Essenza Divina, in logoi altrettanto celebri come “Tu sei questo”, e “Solamente divenendo Dio si può realmente adorarlo”. Ciò ci porta all’esame del problema di cui ci vogliamo occupare: cosa significa realmente la dottrina indù della Deificazione? Tale Deificazione indù differisce o no dalla Deificazione cristiana come la intendono, ad esempio, un San Bernardo o Meister Eckhart?
Dal punto di vista indù il problema si può così porre: il fine ultimo dell’uomo e la sua beatitudine sono compiuti nel momento in cui non vi è più coscienza di alcuna distinzione tra se stessi e lo Spirito di Dio; esattamente come l’individualità dei fiumi che, quando raggiungono il mare – per usare una comparazione comune sia al mistico Ruysbroeck che alle Upanishad – si confonde con quella dello stesso mare: da quel momento non possiamo parlare che di mare. Se d’altra parte il cristianesimo sembra mantenere un’eterna distinzione tra creatura e Creatore, è necessario domandarsi se tale apparente contraddizione sia reale oppure no, o se la Deificazione indù e quelle dei mistici cristiani (ché anch’essi furono accusati di panteismo) non implichi necessariamente, insistendo su un totale abbandono dell’Io come condizione indispensabile, quella stessa distinzione tra creatura e Creatore, tra finito ed infinito; cosa che non solo costituisce una dottrina cristiana ortodossa, ma una dottrina metafisicamente incontestabile, di valore universale.
Ciò di cui ci occupiamo qui è l’immortalità dell’anima, e di sapere se questa immortalità è possibile, e, cosa più importante, se l’immortalità dell’anima, ammettendo che sia possibile, possa essere o no considerata compatibile in qualche modo col fine ultimo dell’uomo: la deificazione e la perfetta beatitudine.
Dottrina cristiana ed indù concordano nel riconoscere nel Messia, nell’Avatara, nell’Uomo Universale, nel Fio (dell’Uomo) l’unico, il solo attraverso il quale possiamo passare dal mondo creato di nascita e morte, di cambiamento e declino, al vasto mondo increato di luce e d’immortalità; passare dalla nostra attuale esperienza di ieri e del domani a quella di un eterno presente senza durata. È a questa grande transizione cui allude il Cristo quando afferma: “Colui che vuole salvare la propria vita la perderà”. In effetti, come proclama Eckhart, “… l’anima deve darsi la morte … Tutte le Scritture reclamano a gran voce la liberazione della prigione dell’Io”. “Essere liberato” significa ben più che il nostro “disinteressamento” d’ordine morale; esso vuol dire essere liberato completamente dall’idea del “Me” e del “Mio”, da ogni attaccamento alla nozione d’una essenza privata, indipendente sia dall’anima che dal corpo; una liberazione da ogni attaccamento a qualsiasi “sopravvivenza della personalità”, del tipo di quella che gli spiritualisti hanno confuso con l’immortalità nel senso ortodosso e strettamente spirituale di questa parola.
Questa porta messianica solare, per la quale si passa da questo mondo imperfetto per entrare in quello stato di gloria che, come dice S. Tommaso d’Aquino, “non è sotto il sole”, è una porta stretta, ma anche una porta chiusa per quelli che non sono qualificati; ciò che questo cammino è impraticabile per coloro in cui dimora una pur minima traccia d’egoismo, sia fisico che psichico. Per “pervenire al di là del sole” si deve aver abbandonato ogni attaccamento, sia del corpo che dell’anima. Quelli che sono qualificati per accedervi sono descritti come “unificati”, al fine di distinguerli da tutto ciò che rimane al di fuori, nella molteplicità. Le porte del Paradiso sono guardate dall’Angelo con la spada di fuoco, ed è precisamente nello stesso modo che nei testi indù ne è descritta l’entrata, dissimulata e difesa da raggi di luce, manifestazione esteriore destinata a sbarrare la strada agli agnostici. È solo in presenza di un essere trasformato dalla Gnosi divina che i raggi si ritirano, rivelando una strada aperta coincidente con quello che nell’induismo è definito “il Raggio preminente” e nel cristianesimo “il Raggio oscuro”, perché non è visibile al di fuori, ma si infonde (penetra) dal cuore delle Tenebre Divine, ove nessun sole brilla se non quello Spirito che nell’induismo come nel cristianesimo è chiamato “la Luce delle luci”, che è sia “oscurità” che “chiarore”, in quanto è “accecante per eccesso di luce”.
Nelle scritture indù, le qualità richieste a colui che è ammesso a passare per il Sole e ad entrare nella Divinità, come “il latte può essere versato nel latte” sono essenzialmente la verità e l’impersonalità. È come avvicinare “qualcuno la cui natura è Verità” al Sole che è la “Verità”; perché essendo della stessa qualità, non può essere accecato. Oppure, è come qualcuno che, in risposta alla domanda “Chi sei?” possa rispondere “Io sono la Luce, dunque sono Te”, e viene dunque invitato: “Entra, perché quello che io sono tu sei, e quello che tu sei io sono”. Ma se avesse risposto col proprio nome, o con quello della propria famiglia, sarebbe stato trascinato lungi dai fattori del Tempo. Come afferma un altro testo, “Dio non è venuto da nessuna parte e non è divenuto alcuno. La conclusione inevitabile è che nulla può ritornare a Dio, come simile al proprio simile, se è ancora qualcuno”.
Quindi, colui che è pervenuto al termine della propria Via ed entra in Dio, deve lasciarsi dietro il fardello delle proprie azioni, buone o cattive, poiché queste sono la base del “carattere”, e nulla di caratterizzato può confluire nella Divinità non-caratterizzata “la cui sola idiosincrasia è di essere”. Là, afferma Meister Eckhart, “né vizio né virtù hanno mai penetrato”, o, per riprendere una formula delle Upanishad, “né il vizio né la virtù possono varcare il Ponte dello Spirito, solo legame tra questo e l’altro mondo”.
Secondo S. Giovanni Damasceno, “… colui che è, è il principio dei nomi con cui si designa Dio”, e secondo le Upanishad, “Egli è; solamente così può essere concepito”. Non è dunque tramite le opere o i meriti che un uomo è qualificato per giungere alla perfetta felicità, ma solo attraverso una conoscenza ed un Amore assoluti di Dio, implicanti, quel che ne sia l’oggetto, una perfetta identità tra conoscente e conosciuto, tra amante ed amato.
Ora vogliamo accordare la concezione mistica cristiana e la metafisica indù della Deificazione in assonanza con la dottrina, riconosciuta per vera, che nulla di finito potrebbe partecipare all’Infinito da simile a simile. Dal punto di vista indù come da quello cristiano, la costituzione dell’uomo è triplice, cioè è costituita da un corpo, un’anima e uno spirito, in sanscrito rupa, nama e atman.
L’anima cristiana (psychè) è, allo stesso modo del corpo, cosa creata e soggetta a variazioni; tale appare la ragione delle parole di S. Tommaso d’Aquino: “Affermare che l’anima è di sostanza divina comporta un’improbalità manifesta” (S. Th. I, 90, 1). A volte si parla dell’anima come divenente immortale, benché essa abbia nascita nel tempo e non sia che una cosa tra le altre. Non dobbiamo dimenticare che essa può entrare in Dio solo quando diventa niente e nessuno, il che certamente non costituisce un essere alcuna cosa, né un essere tra altri.
La coscienza di un uomo può essere centrata sul suo corpo: è l’uomo-animale; sull’anima, ed è l’uomo psichico; o sullo spirito, cosa propria all’uomo spirituale o “pneumatico”. Solo quest’ultimo può tornare a Dio, per identità di natura. E tale fine ultimo dell’uomo non riguarda solo il post-mortem, poiché “Il Regno di Dio è dentro di voi” o ancora, per citare le Upanishad, “… la forma inconcepibile della Divinità, più lontana del più lontano è contemporaneamente qui, dentro di voi; benché essa non possa essere percepita dalla facoltà intrinseca dell’occhio, può essere appresa con la Verità e può esser vista dal Sapiente, in cui essa occupa la camera segreta del cuore”. E come l’insegnamento indù riconosce la possibilità di una liberazione che si realizza qui ed ora (hic et nunc), S. Agostino afferma che “… nella misura in cui noi pensiamo alle cose eterne, partecipiamo dell’eternità”, e dobbiamo convenire, con Jacob Boehme, che alla morte “… l’anima non va in nessun posto diverso da quello in cui era prima”.
Quindi, né la deificazione indiana, né quella cristiana, qual fine ultimo dell’uomo implicano una dottrina che pretenda che l’individualità finita e variabile possa assumere l’essere infinito ed immutabile di Dio. La Deificazione è la congiunzione, spesso descritta come un matrimonio, dello Spirito immanente con lo Spirito trascendente. Nessun dubbio ch’essi siano stati mai separati se non in termini di logica umana – una logica che regge le proprie individualità limitate – , poiché lo Spirito è indiviso. Essere deificato è werden was du bist (divieni quello che sei); è solo quando l’Identità viene considerata come una condizione che dovrà realizzarsi “un giorno”, quando parliamo un linguaggio troppo umano che chiamiamo la Gnosi una ricongiunzione e designiamo quelli che la realizzano come dei “perfezionati”, quasi che essi avessero raggiunto un luogo qualunque o come se fossero stati, in qualche modo, meno che perfetti. Infatti, come dice Meister Eckhart, “… quando entrerò là nessuno mi chiederà da dove io sia venuto, né quale direzione ho preso”. Perché il principio individuale molto semplicemente “non oltre” si è levato, è arrivato da lui stesso. In effetti, in Dio non può esserci distinzione alcuna tra idee ed intelletto che le concepisce; solamente usando la riserva del condizionale si può dire dell’imago imaginata che essa reintegra o che essa “diviene” l’imago imaginans nella quale essa esiste di già eminentemente.
Di conseguenza, è precisamente la deificazione indù che bisogna intendere quando ci si ordina: Siate dunque perfetti come il Padre vostro che è nei cieli”, o quando un San Paolo afferma: “Chiunque si unisca al Signore è uno spirito con Lui”. (I Cor., 6.17). In tal modo, una vera distinzione tra induismo e cristianesimo è impossibile; farlo, sarebbe dividere la verità contro se stessa.
di Ananda K. Coomaraswamy
Tratto da “I Quaderni di Avallon” n° 4 1983 – rivista di studi sull’uomo e il sacro –