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176. Ermete Trismegisto e Corpus Hermeticum da “Rebis”

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Ermete Trismegisto

Avviene, quando una civiltà non ha più la volontà, il piacere o la forza di seguire la diritta via segnata dai suoi maggiori, che procede allora a zigzag curiosando nell’orto del vicino se trova di meglio che a casa sua per ispirarsi e mettere insieme qualcosa di cui nutrire le sue energie, esauste. Avvenne quando, nella civiltà classica, tramontato anche l’estremo razionalismo della visione stoica dell’universo e dell’uomo, in un mondo in cui, s’incrociavano tutti i pensieri e i culti, e la mistica sostituiva gli antichi valori del pensiero greco e della disciplina romana, ci si lanciò in un sincretismo ansante di tutto ciò che l’Occidente e Oriente aveva prodotto e che sembrava soddisfare l’intelletto e aiutare a capire questo universo sempre più incomprensibile con i criteri e i mezzi tradizionali. La testimonianza più spettacolare di tutto ciò è un vasto corpo di scritti anonimi greci non datati e non facilmente databili con precisione, comunque in genere della tarda età imperiale, scritti che vanno sotto il nome di Corpo Ermetico. Ermete è per i Greci il dio e padre della parola, interprete e messaggero di Zeus, Platone, già lui, nel Fedro lo assomiglia al dio egizio delle lettere e dei numeri, iniziatore delle scienze, delle arti, dell’alchimia: Thot, dio trismegisto, “tre volte massimo” (Bouteille trismegiste dirà Panurgo del suo oracolo, la Bottiglia appunto). Così a Ermete Trismegisto furono attribuiti un insieme di scritti che tramandano il suo arcano insegnamento metafisico e visionario, come di chi appunto rivela finalmente il mistero dell’universo, con immagini che tra fisica e metafisica creano un’atmosfera estatica e hanno un loro fascino, a cui anche dopo non sono sfuggiti i nostri umanisti, i poeti metafisici inglesi, i pittori visionari.

Come minaccia Trismegisto, “colui che non comprende il Discorso non ha intelletto”. Questi scritti sono invero un tentativo ciclopico e disperato della mente umana per avere a tutti i costi una spiegazione di ciò che è nel suo profondo e di ciò che la circonda in alto e in basso.

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Natura e origini del Corpus Hermeticum

Dall’antichità fino al XVII secolo il Corpus Hermeticum fu dunque creduto opera del divino Hermes, nome dai Greci attribuito al dio egizio Toth, detto Trismegisto, “tre volte grande” l’origine egizia di tale epiteto è confermata dal ritrovamento nella tomba di Ibis a Sakkara (Toth è rappresentato ora come uomo-ibis, ora come uomo-scimmia) della seguente menzione in demotico e in greco: megistou kai megistou theou megalou Hermou, il grandissimo e il più grande dio, il grande Ermete. Il titolo di tris-megistos (tre volte grande) sarebbe dunque effettivamente la traduzione greca dell’appellativo egizio di Toth, dio della luna, della scrittura e dell’insegnamento, messaggero degli dèi e guida delle anime nell’aldilà.
In epoca antica sorsero presto vari equivoci sull’identità di Toth: se in Egitto questi non fu mai altro che un dio, in epoca ellenistica, negli ambienti greci alessandrini, fu identificato con un uomo in carne ed ossa. Si giunse a formulare l’ipotesi dell’esistenza di due Toth, uno divino e l’altro umano, quest’ultimo direttamente discendente dal primo.
Quel che oggi chiamiamo Corpus Hermeticum è un insieme di diciassette brevi trattati, pervenutici in lingua greca, cui si aggiunge l’Asclepio, di cui possediamo solo la versione latina (il testo greco non sopravvisse alla caduta dell’impero romano), opera probabilmente di Apuleio. Impossibile sapere se tali scritti esistessero già riuniti in un insieme organico prima dell’XI secolo, quando il bizantino Michele Psello compose, con tutta probabilità, l’opera di redazione rinvenuta in forma di manoscritto in Macedonia dal monaco Leonardo di Pistoia, grazie al quale essa giunse alla corte medicea. La raccolta comprendeva i primi quattordici trattati, oggi conservati nella Biblioteca Laurenziana a Firenze, e tale edizione, tradotta in latino da Marsilio Ficino con il nome di Poimandres (titolo in realtà del primo trattato) fu dunque pubblicata nel 1471.
Altri frammenti in lingua greca comparvero in epoche successive (l’editore Flussas aggiunse nel ‘500 un quindicesimo trattato) e furono inseriti nell’attuale Corpus, rimaneggiato fino ad acquisire l’odierna costituzione in diciassette definitivi trattati. Nessun altro passo avanti fu fatto dopo che nel 1946 Scott, Nock e Festugière esclusero l’appartenenza di un diciottesimo scritto all’unità teorico-linguistica degli Hermetica.
La storia interpretativa del Corpus Hermeticum è stata condizionata in modo determinante da due momenti fondamentali: il “grande equivoco” rinascimentale, che vide in Ermete Trismegisto un personaggio realmente esistito, sapiente profeta dell’Antico Egitto e autentico autore degli scritti, e il brusco rovesciamento di tale equivoco, creduto una volta per tutte sconfessato ad opera del calvinista Casaubon nel 1614. Dall’esaltazione mistica alla totale banalizzazione del Corpus, come un insieme frammentario e confuso di testi fondamentalmente gnostici risalenti al II-III secolo, il passo fu brevissimo. La sacralità del compito al quale Ficino si era dedicato, traducendo un’opera ritenuta ispirata quanto la Bibbia, si tramutò in un sentimento vicinissimo al disprezzo per quello che appariva ora una specie di brutta imitazione di alcuni concetti base della rivelazione giudaico-cristiana. Ancora in epoca moderna, l’edizione di Nock e Festugière, pur di grandissimo valore storico filologico, mantiene un giudizio severo e quasi irridente della teologia mistica del Corpus.
Siamo oggi in grado, liberi dagli echi di questa problematica filosofico-teologica ormai lontana, di farci un’idea più oggettiva della natura e delle origini storiche dei trattati ermetici, che ci permette, collocandoli in un contesto concettuale chiaro e in un periodo storico determinato, di valutarne con rinnovato interesse i contenuti.
Ma dal punto di vista delle origini storico-concettuali del Corpus un evento decisivo orientò l’interpretazione e la valutazione degli scritti ermetici in senso moderno: il ritrovamento di una versione in lingua copta di alcune parti dell’Asclepio, dell’integralità di un trattato, fino ad allora sconosciuto, intitolato L’Ogdoade e l’Enneade e dell’armeno Le Definizioni di Ermete Trismegisto ad Asclepio. Tali testi vennero alla luce nel 1945 fra i codici rinvenuti nei pressi di Nag Hammadi in Egitto. Questa scoperta archeologica veniva a confermare l’origine autenticamente egizia di una parte dell’impianto teoretico del Corpus, senza peraltro in nessun modo rimettere in questione la cronologia dei testi greci, risalenti al II-III secolo ed opera di autori aderenti, in ambito alessandrino, alla cultura, alla religione e alla mistica egiziano-ellenistica dell’epoca.
La squalifica netta degli Hermetica, derivante dagli studi del Casaubon e in seguito alla quale il Corpus fu entusiasticamente adottato da società e circoli esoterici (i Rosacroce, la Franca Massoneria e gli Alchimisti di tutti i tempi), è oggi dunque rimessa in discussione. L’influenza della cultura egizia sul Corpus permette di meglio individuarne l’originalità rispetto ad altre componenti che l’hanno certamente informato e costituito: dalla gnosi pagana alla gnosi cristiana, al neoplatonismo fino alla mistica ebraica. In nessun modo si tratta di entrare nel merito, né in termini di valutazione né in termini di discredito, dell’aspetto schiettamente esoterico che ognuna di queste tradizioni culturali ha generato e sviluppato nel corso dei secoli. Credo invece che l’interesse rinnovato per il Corpus Hermeticum risieda nel suo rappresentare un’originale, anche se composita, interpretazione mistico-teologico-filosofica della realtà umana come manifestazione stessa del divino. Roelof van den Broek, in un’opera di recente pubblicazione afferma che ermetismo e gnosi rappresenterebbero, in epoca antica, l’espressione di una tradizione di pensiero collocantesi in alternativa dialettica tra i due pilastri della cultura occidentale: il razionalismo filosofico greco e il complesso mondo semantico della rivelazione biblica (p. VII del Prologo). Dal Medioevo al Rinascimento, e fino ai nostri giorni, di tale tradizione è possibile seguire le tracce come espressione di una fondamentale “resistenza” al dominio razionalista da una parte e all’abbandono fideistico dall’altra. Tale resistenza si richiama a una visione di tutto l’universo come manifestazione e rivelazione di coerenza, risonanza e identità profonda tra l’autenticamente umano e l’autenticamente divino.

L’ermetismo dall’antichità al medioevo
Non è possibile seguire rigorosamente le tracce degli scritti ermetici e del loro influire sulle altre culture e correnti di pensiero dei primi secoli dell’era cristiana.
L’ermetismo, così come lo gnosticismo, il neopitagorismo, il neostoicismo, il neoplatonismo e il cristianesimo stesso costituiscono in qualche modo lo “spirito” globale di quest’epoca, differenziandosi teoricamente proprio grazie al gioco  delle reciproche influenze. Non a caso esiste ancora oggi una certa difficoltà, che va fino alla confusione dei termini: non è immediata una distinzione netta e definitiva tra gnosi pagana e gnosi cristiana, ermetismo ed esoterismo, e ancora tra gnosticismo come movimento e corrente filosofico-teologica e gnosi come paradigma di pensiero, quasi soggiacente, in ultima analisi, a ogni espressione teoretica dell’epoca. In questo senso le analogie e le differenze si moltiplicano in modo concentrico intorno a nuclei e prospettive che vanno presi in considerazione autonomamente, come piccoli mondi teoretici intercomunicanti, ma ogni volta distinti. Ciò equivale a dire che, a partire da un punto di vista teologico, ad esempio, possiamo trovare molte più affinità tra la teoria creazionistica del Poimandres e il racconto biblico del libro della Genesi, che tra quest’ultimo e la cosmologia gnostica. Ma, nello stesso tempo, le schiere degli eoni che popolano l’universo spirituale gnostico, le sephirot della mistica ebraica e le nutritissime schiere angeliche dei culti che si ispirano a Zoroastro mostrano evidenti analogie tra loro.
Ora è certo che nell’antichità e fino al Medioevo l’influenza dell’ermetismo fu profonda. Dico “ermetismo”, ben guardandomi dall’identificarlo solo con i trattati del Corpus Hermeticum e dell’Asclepio, giacché è l’insieme teorico e teologico-religioso di un corpus ben più ampio quello il cui eco appare almeno in due maggiori forme nei diversi autori che lo presero in considerazione. Da un lato, Ermete Trismegisto fu considerato trasmettitore di una gnosi e di una mistica che anche autori cristiani apprezzarono, fino a sopravvalutarne decisamente l’originalità e la portata; dall’altro, egli divenne padre dell’ermetismo magico-esoterico, cui si interessarono teologi come Alberto Magno, ma che – in epoca antica e medievale – sconfinò incessantemente dalla teologia nella teurgia, dal ricongiungimento mistico con il divino nel potere magico di intervento sull’universo in nome del divino stesso. Così si arrivò facilmente all’alchimia, certo rispettabile antecedente della moderna chimica, applicata alle arti mediche, come nel caso del grande medico medievale Pietro Albano, ma anche semplicemente considerata come “magia buona”, incredibile mescolanza di pratiche “trasformatrici” di tutti i generi, da tutti i principali pensatori, scienziati, filosofi e teologi del Rinascimento. Una cosa è certa: l’alchimia vera e propria si sviluppa nell’ambito dell’ermetismo, ma non ha legame diretto con i testi ermetici del Corpus.
Il richiamo a Ermete Trismegisto viene direttamente dalla figura mitica del sacerdote specifico di interesse. Ed è proprio nell’antichità che troviamo le prime allusioni a Ermete-mago, in parte giustificantisi con la conoscenza dell’Asclepio (cfr. la teoria delle statue-dèi e del loro potere “magico”), ma che vanno ben al di là di questo, rifacendosi a tutto l’ambiente culturale legato – come abbiamo visto – all’alessandrinismo ellenistico. In questo senso Apuleio parla della “vera magia”, quella che compie opere divine grazie alla fede, grazie cioè all’intima unione – concetto squisitamente ermetico – con il divino.

Le principali interpretazioni del corpus hermeticum nel rinascimento
Impossibile sarebbe passare qui in rassegna tutti gli autori nel cui pensiero gli Hermetica occupano un posto importante. Inoltre la saggistica è ricca di opere dedicate all’argomento. Mi limiterò a individuare in alcuni dei più significativi personaggi dell’epoca gli aspetti più interessanti e originali di tale riscoperta dei testi e dell’universo teorico dell’ermetismo. La scelta, che verte su tre grandi pensatori, Marsilio Ficino, Giordano Bruno e Paracelso, non è casuale ma specchio di un itinerario attraverso il quale, paradigmaticamente, i legami tra ermetismo, magia, concezione dell’umano e del divino svelano un’evoluzione in un senso preciso. Vedremo come soprattutto il concetto di magia diventa via via meno ingenuo e più raffinato, fino a condurci alle soglie del razionalismo secentesco, in cui non troverà più spazio se non in un contesto davvero “altro”, che la ragione scientifica e filosofica screditeranno sempre più.
Ritradurre oggi la versione greca dei Trattati e l’Asclepio latino significa soprattutto lasciarsi interpellare da un universo concettuale, essenzialmente filosofico-teologico e aperto al misticismo di tutti i tempi, che ha forgiato e continua in parte ad agire sull’evoluzione della cultura occidentale. Significa anche cercare di mettere in evidenza come ermetismo ed esoterismo non coincidano oggi e mai abbiano coinciso realmente: il passaggio da un mondo all’altro è sempre possibile e sicuramente ricco di spunti di grande interesse per entrambe le prospettive, ma in nessun caso appare al pensiero come via obbligata.
L’ermetismo del Corpus rappresenta per il lettore di oggi un approccio a un universo il cui linguaggio simbolico affonda le radici in un patrimonio assolutamente universale, a prescindere da quali siano alla base le prese di posizione teoriche e le credenze in ambito filosofico, scientifico o religioso-teologico. L’esattezza con cui oggi possiamo collocare gran parte delle sue origini letterarie e concettuali ci permette di fare della lettura del Corpus un’avventura ermeneutica, un’autentica esperienza interpretativa che, come tale, dalla ricca e complessa trama dei significati, sempre lascia scaturire un senso.

L’originalità del Poimandres
L’organicità e la pregnanza teorica dei contenuti, il suo proporsi come un’opera a un tempo filosofica, teologica e mistica, fanno del primo trattato un testo decisamente originale all’interno del Corpus Hermeticum. Ritengo dunque importante prenderlo in considerazione come un’opera a stante e individuare i passaggi in cui tale originalità e attualità emergono più chiaramente.
La cosmogonia

Il racconto della formazione del cosmo appare segnato da due caratteristiche fondamentali. Anzitutto il succedersi dei diversi stadi è inserito, al di là e indipendentemente dagli interventi divini del Logos e del Demiurgo, in una sorta di scenario di fondo, costituito dalla costante compresenza dei contrari: luce-tenebra, vuoto-pieno, spirito-materia, vita-morte. In secondo luogo, nonostante sia possibile seguire la complessa evoluzione degli eventi originari come scandita da un prima e un dopo, si trova una certa difficoltà a collocarli in una chiara dimensione temporale. È come se, in un certo modo, fosse presente nel testo una metastruttura spazio-temporale, che comprende e contemporaneamente va anche oltre il luogo e la cronologia degli eventi.
Mi limito qui a un solo ma significativo accenno. La rivelazione inizia con una visione infinita, “sub specie aeternitatis”, di tutte le cose come pervase da una luce “gioiosa e serena”. Solo in un secondo momento, ma come se si trattasse di un ritorno del tempo su di sé, subentra la comparsa dell’oscurità originaria.
Questa luce, dunque, che colpisce non solo gli occhi ma anche il cuore, è in un prima atemporale rispetto alla tenebra antagonista; costituisce inoltre una specie di contesto originario e potenziale in cui tutto si manifesta e accade: la rivelazione e la creazione stessa. È difficile non pensare alla concezione della fisica contemporanea, secondo cui le condizioni stesse di esistenza dell’universo sono intimamente legate alla luce e alla sua velocità. Ed è altrettanto facile vedere nell’immagine dell’oscurità, che insorge “a partire” e dentro la luce come sua negazione, il “vuoto” che, come assoluta non-forma, non-materia, ha in sé tutte le potenzialità dell’essere del mondo. È il vuoto popolato di particelle subatomiche, presenti e assenti a un tempo, in un punto e in un’onda, nella luce e nelle tenebre. Leggiamo in un sorprendente testo di un fisico nucleare: “In fondo ci sono due modi di dipingere il vuoto: come forma geometrica o come fiore. Il vuoto geometrico, quello di Einstein, all’inizio era vuoto e piatto. Egli vi mise la materia; allora lo spazio-tempo si curvò e gli fece l’inchino. La luce avanzò diritta insieme alle curve, conferendo alla relatività generale la sua inusitata bellezza […] Quel che qui si mostra è il vuoto che nutre, che feconda, fiorito e “relativamente” primo. È senza forma come per possederle tutte, in esso il mondo è unificato e purificato. Semplice e anteriore alla pluralità […] Il vuoto fu pieno di tutto ciò che doveva nascere”. Non solo il linguaggio, quasi ispirato, ma i contenuti stessi mostrano rilevanti analogie con il testo ermetico. E in entrambi i casi le opposizioni luce-tenebra, vuoto-pieno rimandano fondamentalmente alla dialettica essere-nulla. La fisica contemporanea, ma in particolar modo la fisica quantistica, ha fatto propri i grandi temi della metafisica, dove però la principale questione non è più sull’essere ma sul nulla.
La teoria creazionistica e “trinitaria”

Una diretta conseguenza del nuovo approccio della fisica al problema della genesi del cosmo è l’ipotesi della “creazione in nihilo”, opposta a quella della teologia fondamentale classica che parla di “creazione ex nihilo”. Affermare che Dio crea le cose dal nulla significa mettere l’accento sull’essere del mondo come derivante dall’essere di Dio. Ma nel momento in cui il Nulla diventa la prospettiva originaria nella quale Dio crea tutte le cose, la divinità stessa cessa di essere l’Essere-Uno per eccellenza e la sua dimensione trinitaria può essere in quest’ottica meglio compresa. Prima di inoltrarmi nell’analisi strettamente teologica, vorrei proporre ancora un testo di Cassé che illustra il concetto di “creazione in nihilo” quantisticamente inteso: “Simile al Dio adirato dell’Antico Testamento, il vuoto si scarica. Vi è in lui sovrabbondanza di energia. Il suo fianco si perfora e ne scaturisce la luce. Siamo più vicino alla mitologia gnostica [sicl] che alla genesi ex nihilo. Frattura e caduta del vuoto nella luce e della luce nella materia. Successione cronologica, cosmica processione: Vuoto-Luce-Materia. Dal vuoto emana la luce e dalla luce la coppia antagonista materia e antimateria”.
Leggiamo d’altra parte nel Poimandres: “ Dalla luce un Logos santo coprì la natura e un fuoco puro uscì con slancio dalla natura umida su nelle altezze […]. Quella luce disse: ‘Sono io, il Nous, il tuo Dio, colui  che è prima della natura umida apparsa dall’oscurità […]. Il Nous è Dio Padre: essi infatti non sono separati l’uno dall’altro, giacché il loro essere uno è vita ”.
Compaiono in questo quadro tre persone: Dio Padre, il Nous e il Logos (il Verbo), contrapposti come luce e fuoco all’oscurità originaria da cui la natura umida è sorta. Luce e Tenebra costituiscono entrambe, anche se in opposizione fra loro, il contesto primordiale, il pre-principio meta-temporale da cui il Tutto prenderà origine. Nessuna delle tre divinità è separata dalle altre, ma tutte sono reciprocamente distinte; Dio è quella Luce che è nell’oscurità; in quanto luminosità i tre sono perfettamente Uno, irradiazione pura di Vita e “gioiosa serenità”; ma rispetto all’essere originariamente luce nell’oscurità si distinguono uno dall’altro come Padre, Nous e Logos. È il co-esistere assoluto e originario di Luce e Tenebra che fa sì che il Padre sia uno con il Nous ma non sia il Nous, e che il Logos sia la Luce che il Padre e il Nous sono, ma da questi sia assolutamente distinto. La Tenebra costituisce quel non-luogo, quel vuoto-pieno di potenzialità del Tutto all’interno del quale l’essere di una persona divina è il non-essere dell’altra; rispetto alla luce sono invece in unità perfetta, unità cioè che, virtualmente, contiene già la molteplicità della divinità e di tutte le cose.
La “creazione in nihilo” è dunque presupposto e conseguenza a un tempo della dimensione trinitaria della divinità. È opportuno comunque ricordare che nella prospettiva gnostica e neoplatonica del Poimandres Dio è essenzialmente uno e molteplice più che uno e trina; non si può dunque parlare rigorosamente di mistero trinitario così come il cristianesimo lo intende (Padre, Figlio e Spirito). Ma in entrambi i contesti è l’essere inihilo della divinità stessa che permette alle persone divine di essere perfettamente uno e perfettamente distinte una dall’altra.

 

Quel che oggi chiamiamo Corpus Hermeticum è un insieme di diciassette brevi trattati, pervenutici in lingua greca, cui si aggiunge l’Asclepio, di cui possediamo solo la versione latina (il testo greco non sopravvisse alla caduta dell’impero romano), opera probabilmente di Apuleio.

Tratto dal Volume 1 – Gennaio 2011 –  di “Rebis” (L’Unità degli Opposti) TecnaEditrice

 

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