Il Canto XXXIII del Paradiso dantesco alla luce del Vedanta
dalla Rivista Italiana di Teosofia ANNO LXVIII N.1, Gennaio 2012 (www.teosofica.org)
Alfredo Stirati è socio del Gruppo “Roberto Assagioli” di Roma
Premessa
Leggere Dante in chiave orientalistica (il Vedanta rappresenta l’essenza dei Veda, i sacri resti dell’India) può anche apparire sconveniente e del tutto arbitrario. Tuttavia, lo studio delle religioni comparate permette d’individuare nel poema dantesco delle sorprendenti consonanze non solo con la metafisica indiana, ma anche con l’orfismo, il pitagorismo, il neoplatonismo.
Il problema apparentemente insolubile consiste nel fatto che il Poeta, come del resto tutti gli intellettuali occidentali della seconda metà del Duecento, non aveva ancora gli strumenti per poter compulsare direttamente nella lingua originale i testi della grecità ed ancor meno quelli sanscriti.
Le conoscenze, del resto ancora frammentarie del mondo classico, infatti, erano rese possibili solo attraverso traduzioni arabe e latine che tuttavia colorivano quelle antiche fonti con interpretazioni soggettive, deformandone spesso il contenuto.
Quindi, il mistero s’infittisce; pertanto occorre una premessa cautelativa in grado di prevenire facili e legittime obiezioni.
Come spiegare allora la stupefacente consonanza di pensiero tra Autori appartenenti ad aree geografiche tanto distanti nello spazio e nel tempo e per giunta privi delle possibilità di comunicare direttamente dalla caduta dell’impero romano d’Occidente?
Resta un’unica ipotesi plausibile in grado di risolvere l’enigma. Bisogna cominciare a valutare la teoria per cui la Divina Commedia non sia frutto di una fantasia letteraria, ma la puntuale registrazione di una visione interiore simile, ma non identica, a quella dei mistici (come spiegheremo in seguito), ottenuta nello stato alterato di coscienza indotto nel corso di un rito iniziatico.
Molti elementi presenti nella biografia e nel testo dantesco, infatti, fanno presupporre che Dante appartenesse ad un’Associazione esoterica di filiazione templare: i Fedeli d’Amore, in cui si praticava il rito dell’iniziazione ai Misteri Maggiori, la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Dall’antico Egitto e dalla Grecia l’iniziazione venne tramandata per vie sotterranee fino all’Europa medievale. Il che fu reso possibile dall’azione di Templari che l’acquisirono in Terrasanta nel corso delle crociate.
Tali conoscenze e simili pratiche erano violentemente osteggiate dalla Chiesa temporale che le bollò col marchio dell’eresia, poiché finivano per negare la funzione di unico ed ineliminabile intermediario tra cielo e terra che la gerarchia ecclesiastica rivendicava a se stessa.
I Templari vennero sterminati, i cosiddetti eretici perseguitati e dispersi, ma non per questo tali dottrine e riti andarono perduti o cessarono di essere praticati.
Occorreva, però, scendere di nuovo nelle catacombe, ricostituire sette segrete, elaborare un linguaggio criptato per evitare il carcere, la tortura, il rogo e la damnatio memoriae di testi incriminati che vennero inseriti dall’Inquisizione nel famigerato Index librorum prohibitorum.
È quello che fecero anche Dante ed i Fedeli d’Amore quando nascosero abilmente le loro conoscenze sotto il velo di un linguaggio derivato dalla tradizione cortese, se non addirittura dal dogma clericale e dal tomismo della Scolastica.
Tuttavia, Dante stesso fornisce ai suoi lettori un’indicazione preziosa, stimolandoli a cercare significati nascosti e più profondi nel testo del poema divino.
Sia nella Commedia (Inf. IX vv.61 segg.) che nel Convivio (Trattato II, 1 § 2), infatti, invita a non fermarsi al senso più ovvio, quello letterale appunto.
Vi sono almeno quattro sensi nelle scritture – afferma – non solo in quelle sacre: letterale, allegorico, morale ed anagogico. In Oriente si dice che le scritture possano essere decrittate addirittura con sette chiavi di lettura, anche se le ultime sono possedute solo dagli Adepti.
Pertanto, poiché la Verità è una, la ritroviamo identica, ma più o meno pura nella sua formulazione, in varie tradizioni.
Riteniamo che quanto detto, in modo necessariamente sintetico in questa sede, non solo possa giustificare una lettura così anomala rispetto ai canoni tradizionali, supinamente accettati dagli accademici, ma anche suscitare un rinnovato interesse nei confronti della Divina Commedia, che rischia altrimenti di essere confinata nel limbo delle venerande memorie, appannaggio di un ristretto stuolo di specialisti.
L’ultima visione
Nell’esaminare brevemente l’ultimo canto del poema, ci rifaremo dunque ad antichissime dottrine orientali, ispirate alla metafisica pura. Eviteremo, così, di antropomorfizzare il Principio divino, come erroneamente è stato fatto dall’exoterismo cattolico.
La luce purissima che brilla al centro dell’Empireo rappresenta la Meta a cui tende tutto il viaggio oltremondano di Dante. Ad essa s’appuntano gli occhi del poeta-iniziato ai Grandi Misteri che, trascesa l’esperienza sensibile, risale fino all’Origine del Tutto.
L’essenza dell’insondabile Divinità sconosciuta ed indicibile (Parabrahman) si può penetrare tuttavia solo attraverso il deìfico Principio astratto femminile che ne costituisce il primo involucro; in Oriente è definito Mulaprakriti, cioè Radice (mula) della Natura (Prakriti). Noi potremmo parlare di Materia Primordiale o di Noumeno della Natura.
Il Noumeno della Materia Primordiale, esistente prima della manifestazione sensibile, è paragonabile dunque ad un velo che copre la Divinità Assoluta (Parabrahman).
Esso è l’eterna sorgente delle proprietà sottili ed invisibili della materia visibile. Esso è anche l’Anima dello Spirito Uno Infinito, la base di ogni fenomeno fisico, psichico o mentale, è la fonte da cui s’irradia Akàsa, lo Spazio della manifestazione cosmica ed è materia per Parabrahman.
L’aspetto primario di Mulaprakriti è il Caos indifferenziato, che si suddividerà in tre Principi: la Tetraktys di Pitagora.
Nella simbologia antica, la figura del cerchio indica la manifestazione cosmica; Parabrahman è all’esterno e Mulaprakriti all’interno. Essa è la Presenza attraverso cui vibra il suono del Verbo ed al suo interno evolvono le Gerarchie degli esseri.
La sua essenza è la Forza spirituale, la sua sostanza sono gli elementi ed il suo corpo gli Atomi primordiali. Mulaprakriti è inerte, passiva; è la Forza (Fòhat) che la vivifica. Essa diviene cosi la Vergine fecondata dallo Spirito.
Ora, questa prima manifestazione del Principio divino – come dice Dante – è vergine; tuttavia, è anche madre, perché non ancora fecondata dal raggio divino Fòhat, ma potenzialmente capace di dare la vita ad altre manifestazioni differenziate e non più metafisiche, bensì cristallizzate e disposte nei vari piani dell’Essere. Essa è figlia del Principio divino assoluto, che animerà l’ulteriore manifestazione, restando ad essa immanente ed apparendo, quindi, a sua volta come figlio.
In realtà, si tratta di un tutt’Uno, perché i due aspetti Padre-Madre sono inscindibili. Solo così si può spiegare il mistero cosmogonico della Trinità in termini razionali e non puerili.
Mulaprakriti, quindi, è si creatura, ma nello stesso tempo appare più elevata rispetto alle altre; essa rappresenta la realizzazione di un Piano eternamente stabilito.
Entrando a far parte della natura umana, l’ha nobilitata; infatti, il suo Fattore, cioè l’Assoluto, non ha disdegnato di manifestarsi in essa, in qualità di Atman, lo Spirito, attraverso opportuni veicoli sempre più densi. All’interno della Radice della Natura, dunque, s’è manifestato quell’Amore divino che può intendersi pienamente solo nello stadio finale dell’evoluzione, quando l’Unità assoluta verrà ristabilita (vv. 1-9).
La preghiera del mistico Bernardo non è utilitaristica (in tal caso, non avrebbe valore e non otterrebbe risultati – Purg. VI vv. 27 segg.), ma altruistica, perché volta ad ottenere il bene di un altro individuo (vv. 28-39).
Dante, del resto, non formula una “preghiera” nell’accezione comune del termine, ma agisce, moltiplicando gli sforzi della sua volontà. In lui non si nota la passività del mistico, ma l’azione solare dell’iniziato (vv. 45-54).
In questo canto, più che altrove, il Poeta sottolinea l’insufficienza della ragione ad illustrare i misteri divini (vv. 55-75) e si ribadisce ancora il valore essenziale dell’azione, per ottenere l’illuminazione (vv. 75-84).
Si perviene così a percepire la suprema Unità del Tutto (vv. 85-93). La mente individuale non s’annulla però, nell’unione con l’Assoluto, come spesso si ripete erroneamente (vv. 97-105).
Dante si scusa ancora con il lettore per l’inadeguatezza della parola umana e ribadisce l’ineffabilità della sua visione (vv. 106-108).
Si cerca di spiegare, comunque, l’eterna stabilità dell’Uno e l’apparente modificazione del contenuto della visione; in realtà, è la personalità terrena che, purificandosi dalle sue scorie, assume stati di coscienza sempre più elevati (vv. 109-114).
Il Dio di Dante non è certo teistico, ma viene inteso come suprema armonia e perfezione (vv. 115-120).
Si torna a sottolineare i limiti dell’espressione umana, perché il lettore non prenda alla lettera anche tali simboli matematici e geometrici (vv. 121-123).
Si ribadisce l’identità sostanziale dello Spirito con la Materia, un’affermazione apparentemente blasfema; in realtà essi rappresentano i due poli di un’unica Essenza (vv. 127-138). La ragione, però, non può concepire l’unione di ciò che è infinito con il finito (vv. 139-141).
Infine, si chiarisce come la mente umana non s’annulli nello stato di suprema beatitudine, nel Nirvana. La coscienza individuale, invece, si espande all’infinito, così che il sé personale si fonde col Sé universale (vv. 141-145).
Conclusione
Con questo canto del “Paradiso”, Dante ha tentato di far accostare il lettore ai contenuti vertiginosi della metafisica pura. Compito arduo, sottolineato continuamente dall’Autore nel titanico sforzo di adeguare l’insufficienza della parola umana al contenuto della mirabile visione.
Ci auguriamo che la nostra sintesi, inevitabile per forza di cose, non abbia reso ancor più oscuro il messaggio del Poeta-veggente che, aldilà dei secoli, proclama: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani” (Inf. IX, 61 segg.).
Alfredo Stirati