“Yoga la dolcezza del suono immortale Amrtanadopanisat”
commento alle strofe di Paramahamsa Svami Yogananda Giri
Di seguito alcune illuminanti “Strofe”, per i ricercatori-praticanti, dell’”Amrtanadopanisat” commentate da Paramahamsa Svami Yogananda Giri del Gitananda Asram.
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Strofa 1
I mezzi come lo studio
Il savio, avendo studiato le sacre Scritture e praticato con costanza gli insegnamenti ancora e poi ancora, fino al germogliare della conoscenza del supremo Brahman, abbandoni tutto questo, così come avviene con la fiaccola [nell’attimo in cui l’oscurità si dirada] | | 1 | |
Commento
Nella prima strofa si pone in evidenza la funzione propedeutica e purificante delle Scritture (sastra). Esse sono lo strumento evolutivo per l’uomo intelligente (medhavin) la cui mente tersa distingue, attraverso la discriminazione (viveka), l’utile dal dannoso, il vero dal non vero, e sa perseguire con determinazione e intensa continuità (abhyasa) lo scopo prefissato: la realizzazione del Brahman.
Per compiere pienamente lo studio occorre una guida sapiente che ne sveli gli insegnamenti segreti, che illumini dall’oscurità dell’ignoranza; infatti, di fondamentale importanza è il Guru, il principio intrinseco proprio al termine Upanisad che significa “sedere vicino” da sad, “sedere”, più il prefisso upa, “vicino”, e ni, “giù”. Quindi parafrasando, “sedere vicino, con atteggiamento devozionale, a un Guru per ricevere l’insegnamento (upadesa)”.
Se quindi, da un lato, le Scritture fanno sorgere il desiderio di conoscenza, mostrano i principi ed enunciano la verità, il Maestro fornisce i mezzi per attuare ciò che è enunciato e per intraprendere concretamente il cammino verso quella consapevolezza superiore, per mezzo della quale si raggiunge l’Indistruttibilità, l’Assoluto.
Il saggio, dunque, inizia il lungo percorso attraverso lo studio delle sacre Scritture munito del requisito fondamentale che consiste nel praticare con costanza, senza interruzione, gli insegnamenti sino al raggiungimento della percezione della Realtà suprema; allora avviene la sublimazione della parola, l’assorbimento dell’opera nel suo artefice, lo splendore di una luce, mai spenta, che tutto illumina senza che da nulla sia illuminata. Le Scritture, in assenza di un vero Guru, sono per l’uomo saggio come una lampada che illumina la notte scura, ma che diventa inutile con il sorgere del sole.
Strofe 2 | 3 | 4
Il culto del pranava
Monti il carro del pranava, con Visnu come auriga, dedito interamente all’adorazione di Rudra, colui che cerca lo stato del sommo Brahman. | | 2 | |
Su questo sentiero inceda sul carro e lo abbandoni solamente dopo aver conquistato la meta. | | 3 | |
Emancipandosi infine dagli stadi delle sillabe e dei simboli, andando al di là delle vocali e delle consonanti, egli raggiunge lo stato sottile grazie alla risonanza della M, il cuore dell’Aum. | | 4 | |
Commento
La strofa inizia con una magnifica metafora. La figura del carro, frequente nelle Upanisad, trova diversi impieghi: si riferisce al corpo (il corpo è il carro, la ragione l’auriga, la mente le redini e i cavalli i sensi) e al sole che con il suo carro trainato da sette cavalli percorre la volta celeste; esso inoltre associato al concetto di tempo. Il ratha è legato anche all’idea di qualcosa che delizia (in realtà ratha deriva da una radice r- che vuol dire “muoversi” mentre la radice ramh “andare, muovere in avanti”) in virtù del fatto che esso veniva usato anche per scopi ludici, per viaggi o nelle processioni svolte in onore delle divinità nei templi. “Samkridarthe yane ca puspa-rathah”.
Il Kurma-purana descrive quaranta differenti tipi di carri per le varie divinità. Nel simbolismo classico, il ratha rappresenta il monte Meru, le sue due ruote il sole e la luna, e i quattro cavalli i quattro Veda. L’auriga è Brahma, il creatore.
Nelle strofe sopra riportate, tale immagine è presentata in una tinta inusuale: il carro è il pranava e, in quanto suono creativo, può rappresentare Brahma dunque la creazione, il mondo; il carro è guidato da Visnu, colui che preserva il mondo; il carro è altresì il mezzo attraverso il quale il devoto ritorna alla dimora, allo stato supremo, il Brahman, grazie all’ardore della devozione a Rudra (Siva) che ha il potere di trasformare. Il pranava è il veicolo che trasporta dal mondo a Dio. Esso è il Brahman inferiore e superiore, è sia il trascendente sia l’immanente; nella sua triplice natura esso costituisce il mondo, lo preserva ma, allo stesso tempo, lo trascende accompagnando il devoto alla dimensione suprema piena di pace, non tormentata dalla vecchiaia, dalla morte e dalla paura.
Salire sul carro significa assorbire e unire la mente con il soffio nel suono dell’omkara composto dalle tre lettere A-U-M (Brahma-Visnu-Rudra).
Nel sistema del Siddha Siddhanta Yoga vi sono 216 omkarakriya con appropriate mudra che corrispondono a relativi stadi dell’evoluzione cosmica, dal più grossolano al più sottile.
La prima kriya è un esempio significativo. In essa, il suono del pranava inizia a fluire nel vahni-mandala in cui dimora Brahma, la relazione è con la vocale A; il flusso quindi si erge ed entra in surya-mandala, sede di Visnu, in rapporto con la vocale U per dissolversi poi in candra-mandala ove risiede Rudra, la sillaba è ora la M.
Il suono, sebbene dissolto, persiste nella trascesa della risonanza nasale, procede in stati sempre più sottili attraverso bindu, ardhacandra, nirodhana e così via, fino a giungere al supremo Paramasiva. Naturalmente, quando il pranava raggiunge bindu, esso rientra nella sua causa potenziale e viene “abbandonato”; allo stesso modo in cui, nella ricerca dell’amato ne invochiamo il nome ma, dopo averlo trovato e a Lui essendoci uniti, il nome si scioglie nel cuore.
Pranava è il sinonimo della sillaba Om composta da A-U-M. Immensa è la vastità delle definizioni di pranava che si possono apprendere solo ai piedi del Guru.
Il suddetto tema richiederebbe una trattazione specifica quindi in questa sede esporremo una breve sintesi di alcuni dei suoi contenuti.
Secondo l’etimologia tradizionale, la parola è formata dalla radice nu, sinonimo di stutau che significa “pregare, adorare, elogiare”, dal prefisso pra che significa “bene, qualcosa che soddisfa, perfettamente”. L’etimologia del termine pranava si può perciò rendere con “perfetta adorazione”. Il pranava è il nome di Dio (Isvara), è l’eterna vibrazione e sostanza del potere creativo divino.
L’essenza triplice del pranava trova nella visione tradizionale indiana assonanze poliedriche di simbologie. Simile a un grembo, la sillaba Om avvolge l’intero universo; in essa sono compresi il passato, il presente, il futuro e ciò che, dalla natura triplice, sconfina la misura del tempo.
Tutto è infatti Brahman; l’Atman, nei quattro modi, è il Brahman.
A = Brahma o Sé universale; è chiamato anche Vaisvanara o la sostanza intima, comune a tutti gli esseri. Il sole è il suo occhio, il cielo è il suo capo, lo spazio è il suo corpo, la Terra i suoi piedi, l’acqua il suo ventre e l’aria il suo respiro. Egli possiede i sensi sottili, gli elementi, la mente e l’intelletto. Brahma controlla le funzioni dei prana e agisce in cinque modi. La veglia (jagrad-avastha) è il suo stato. Gli otto Vasu sono le paradevata, il metro è la gayatri e il suo fuoco è garhapatya. Il suo colore è l’arancio.
U = Tejas, lo splendore, è il suo aspetto; questa vibrazione è la natura psichica dell’universo. Il suo stato è il sogno, svapna-avastha. Esso è cosciente solo del sogno e gode del mondo sottile impresso nella sua mente. Visnu è la divinità presiedente; la regione è l’antariksa. Gli undici Rudra sono le paradevata, il metro è il tristubh e il suo fuoco è daksina. Il suo colore è il blu notte.
M = Prajna, sapienza o conoscenza di sé. Il suo stato è il sonno profondo, susupti-avastha. Essa opera dove le impressioni sottili della mente riposano. È pura conoscenza e felicità. Rudra è la divinità che presiede, i dodici Aditya sono le paradevata, il metro è la jagati mentre il suo fuoco è ahavaniya. Il suo colore è il bianco.
Vi è un quarto stato, oltre ogni descrizione, non è conscio né inconscio, è oltre l’esperienza di soggetto-oggetto; è pura, quieta, immodificabile consapevolezza. La divinità è il Samurtakagni, il suo stato è turiya-avastha, le paradevata i sottili Marut, il metro è il viraj e il fuoco ekarsi. Il suo colore è come l’arcobaleno.
Il quinto stato o bindu è oltre ogni percezione. Lo stato in cui è negato e nulla può essere affermato. Causa in-causata, esso supera i limiti dell’infinito. Il suo colore è il vuoto, paravyoman.
È ammirevole la vastità del pensiero indiano in cui l’aspetto divino penetra il tutto. Le teologie relative alla metafisica del suono s’intrecciano, infatti, con la grammatica, scienza anch’essa d’origine sacra e, ancora, con la rappresentazione emblematica della matrice triplice del mondo che sconfina nell’infinito universo del simbolo.
Pranava è l’inizio, il mezzo e la fine di ogni cosa; è l’incomprensibile eternità presente in ogni essere.
“L’intero universo è pervaso dall’indistruttibile AUM che è l’origine di ogni nome e forma”.
Il Brahman ha due forme, una materiale e una immateriale. La prima è priva di verità mentre la seconda è reale. Il Brahman manifestandosi si divide in tre, A-U-M; come luce del sole, la sillaba Om irradia l’intera manifestazione.
L’uomo illuminato ottiene i tre mondi con il solo pranava e, attraverso l’omkara, raggiunge “Quello”, che è la suprema meta, che è quieto e oltre l’antico, la paura e la morte.
Strofe 16 | 16a
Definizione di tarka
Il ragionamento che inferisce la verità in armonia con le Scritture si contraddistingue con l’appellativo di tarka. | | 16 | |
Definizione di samadhi
Allorquando si sperimenta l’intima e inscindibile identità con il supremo Sé, si è nel samadhi.
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Commento
Nella Amrtanadopanisat, tra gli anga, viene inserito il tarka che significa “ragionamento, logica, argomentazione, ecc.”. Il suo scopo è quello di indagare su ciò che è sconosciuto per trovarne la vera natura. Il tarka è impiegato per risolvere i dubbi relativi alla natura specifica di un particolare soggetto. Esso è di cinque tipi:
1 atmasraya conclusione irrilevante in relazione al tema;
2 anyasraya mostra l’infondatezza della reciproca dipendenza;
3 cakrika riguarda invece la debolezza di una supposizione che vuole spiegarne un’altra;
4 anavastha mostra l’illusorietà del regresso infinito;
5 pramanabadhitartha-prasanga mostra indirettamente la validità della logica la quale attesta la contraddittorietà delle conclusioni erronee o assurde.
Le deduzioni conclusive (uhana), che non sono in contraddizione con le Scritture della tradizione (Agama), sono chiamate tarka. Gli yogin sono perfettamente consapevoli che la realtà ultima è oltre la ragione, oltre la mente e, per questo motivo, spesso usano argomenti razionali per mostrare i limiti inerenti alla logica e all’intelletto; lo scopo è spingere il sadhaka a immergersi nell’esperienza pratica dove può raccogliere il frutto del suo desiderio di verità.
Le Scritture sono il mezzo di riflessione sulle verità in esse contenute, sono l’orientamento e la stella polare per chi si avventura nel mare del pensiero. Il ragionamento conclusivo, in armonia con gli sastra, equivale al porre il sestante sulla stella che guida il navigante verso la meta.
Non bisogna scordare che la riflessione sulle Scritture va sempre fatta ascoltando gli insegnamenti, seduti ai piedi dei Maestri (upasana). Il termine tarka, nello sadanga-yoga, si riferisce a uno stato della mente chiamato savitarka-samapatti.
Avendo esposto il tarka, il quinto livello dello sadanga, si arriva alla definizione del sesto, il samadhi, termine assai arduo da definire nonostante le numerose traduzioni quali “concentrazione, assorbimento, unione, calma”. Anche in questo caso, si riscontrano cospicue etimologie.
Una di queste deriva dalla radice verbale dha, “trattenere, sostenere”, a cui si aggiunge il prefisso sam, corrispondente a “totalmente insieme”, e, infine, a.
Il termine samadhi, tuttavia, è stato soprattutto interpretato in modi differenti dai commentatori; tradizionalmente è stato definito come samyag adhiyate asmin che significa “equilibrio della mente” considerando adhi “preoccupazione, ansietà, disturbo mentale”. Secondo la metafisica del Samkhya, così come dello Yoga, lo stato originale della prakrti è l’equilibrio o samatavastha. Quando questo equilibrio viene disturbato, ha inizio il processo della creazione. Allorché si riporta la mente alla sua sorgente, si ottiene il samadhi. Se si considera, invece, il termine adhi nel senso di “superiore, alto, supremo”, allora samadhi indica lo stato di identità con il Supremo.
Nella presente Upanisad, il samadhi viene definito come la completa consapevolezza di sé senza l’influenza di alcuna identificazione. Lo yogin ha coscienza del Sé (Brahman) e non altro; si tratta di una visione indubbiamente non dualistica. Si potrebbe anche affermare che l’esperienza è, che tutto è identico al Sé e non altro, perché il Brahman è sostanza di tutto, nulla è al di fuori di Esso. La Gheranda Samhita (7.4) dichiara: “Io sono Brahman, non altro, solo Brahman io sono; non patisco sofferenza; io sono sostanziato di essere, coscienza e beatitudine; io sono perennemente libero, auto-esistente”.
Il testo continua con una dettagliata descrizione tecnica del samadhi che classifica in sei tipi:
1. dhyanayoga-samadhi associato a sambhavi-mudra;
2. nadayoga-samadhi associato a khecari-mudra;
3. rasanandayoga-samadhi associato a bhramari-mudra;
4. layasiddhiyoga-samadhi associato a yoni-mudra;
5. bhaktiyoga-samadhi associato alle precedenti mudra e a manonmani-mudra;
6. rajayoga-samadhi associato a manomurccha-mudra.
L’esposizione descritta da Patanjali negli Yoga Sutra, distingue il samadhi in stadi che corrispondono alla progressione dei livelli di identificazione.
Una prima bipartizione è quella in samprajnata e asamprajnata.
Lo studio tradizionale della parola afferma che essa è la sintesi di sam, “bene, proprio, profondo, armonizzato, bilanciato, olistico”, di pra, “espansivo, perfetto, completo” e jna, “conoscenza. Nel secondo caso si aggiunge una a privativa che indica, dunque, “l’assenza di”.
Di queste due categorie, che a loro volta contengono ulteriori sottoinsiemi rispondenti a differenti fasi della mente nel processo di assorbimento, il primo, samprajnata-samadhi, contiene ancora tracce di contenuti mentali (samskara); l’altro, l’asamprajnata, è caratterizzato da un’assenza assoluta di contenuti nel campo della coscienza. Solo l’asamprajnata-samadhi reca con sé l’autorealizzazione; tutti gli altri tipi sono propedeutici a quest’ultimo il quale porta alla totale trascesa di ogni sorta di gnosi, di ogni esperienza di soggetto-oggetto, e allora la completa consapevolezza di sé splende nell’assoluta pienezza.
(SUL LIBRO VEDI TAVOLA 2-3-4)
Molte tradizioni tantriche hanno una visione più advaita, non duale, rispetto a quella di Patanjali e spiegano il samadhi come la prolungata unità tra il sé individuato e il Sé supremo in una visione metafisica non dualista.
“Secondo tutti i Tantra, il samadhi è la forma di concentrazione in cui viene rivelata l’identità (samata) del sé incarnato (jiva) e del Sé supremo”.
“Samadhi è lo stato in cui sorge la coscienza dell’identità (ekata) tra il sé incarnato e il Sé supremo”.
“Come il sale gettato nell’acqua, con essa diventa uno, così lo stato in cui si realizza l’identità tra la Coscienza e il Sé supremo è chiamato samadhi”.
Ad ogni modo, tutte le tecniche copiosamente descritte dagli yogasastra conducono a samadhi, a quello stato che nessun linguaggio può descrivere, laddove, come dicono le Scritture, le parole arretrano, dove tutto svanisce in un oceano di nettare. Chi raggiunge il samadhi è liberato da ogni tipo di dolore perché raggiunge l’immortale dimora del Brahman.
Strofe 17 | 18
I mezzi per l’ottenimento del samadhi
Si elegga con sagacia un luogo gradevole e comodo; si distenda un tappeto d’erba darbha sulla terra. Avendo quindi compiuto, nella mente (Questo è un processo mentale che prevede la purificazione degli elementi e del suolo su cui si pratica lo yoga), i gesti di protezione per la purificazione degli elementi e del suolo e, recitati il pranava (Qui la parola ratha fa riferimento al pranava come menzionato nella seconda strofa. La parola rathamandala è data in accusativo duale denotando la sillaba Om nelle vyahrti come citato) e le vyahrti (rathamandala),
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si assuma una delle posture (yoga sana) dette padma, svastika o bhadra; volto lo sguardo verso il nord si mantenga l’immobilità;
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Commento
L’importanza del luogo nel quale lo yogin svolge la propria pratica non deve essere sottovalutato. Un luogo piacevole e comodo stimola emozioni positive e predispone la mente a uno stato felice; viceversa, luoghi scomodi, non puliti, con insetti, o sgradevoli alla vista evocano nella mente sensazioni ed emozioni negative quali timore, malinconia, inquietudine, ecc. Un altro fattore importante relativo al luogo è l’orientamento prescritto verso nord, che rappresenta simbolicamente il luogo della liberazione (mukti). L’allineamento del corpo verso nord sfrutta le correnti elettromagnetiche della superficie terrestre risultando estremamente positivo per tutte le tecniche di polarizzazione.
Dopo aver scelto il luogo adatto, ‘ si distenda un tappeto di erba sulla terra ’; l’erba darbha o kusa è considerata sacra per la sua capacità di proteggere il sadhaka da ogni influenza negativa; la procedura descritta nella strofa è quella tradizionale la quale precisa ulteriormente che, una volta scelto il luogo e purificato il suolo (sthana-suddhi), si dovrebbe distendere l’erba kusa, ponendole sopra una pelle o di antilope o di tigre, in base alla condizione dello yogin. L’uso di un tipo di pelle, piuttosto che di un altro, può essere stabilito a seconda che lo yogin sia celibe, samnyasin, asceta o sposato e a seconda della natura della sua mente (guna) o altre caratteristiche specifiche. L’utilizzo della pelle di animale deve rigorosamente rispettare l’ahimsa o non violenza; l’animale deve essere dunque deceduto di morte naturale; quest’uso è però raro, adatto soltanto a persone altamente qualificate; più comunemente vengono usate stoffe particolari come lana o altri materiali isolanti. La pelle di animale ha molteplici funzioni come quella di isolare lo yogin dal terreno, mantenere una condizione di equilibrio elettrostatico che consente la continua rigenerazione del campo bioelettrico, aiutando così la mente a rimanere più stabile, e a mantenere l’allineamento dei kosa o involucri. Successivamente avviene la purificazione dell’asana, sedile, e si sceglie una postura stabile; la strofa diciotto ne elenca tre: padmasana, svastikasana o bhadrasana; naturalmente la scelta della posizione sarà condizionata dalla capacità del praticante, dallo scopo e dal tipo di kriya, dharana o dhyana che si dovranno compiere. Gli asana come siddhasana, guptasana, vajrasana, samasana e altre posture sedute sono eccellenti per i dhyana suggeriti in questa sede.
(SUL LIBRO VEDI TAVOLE 5-6-7)
Dopo avere eseguito le precedenti purificazioni, avvengono le invocazioni ai Guru, a Ganapati, alla Madre Divina, Mahasakti, e a Siva. La procedura segue con i gesti stabiliti per la purificazione e divinizzazione di corpo e mente (nyasa), la purificazione degli elementi (bhuta-suddhi); dopo di che si recita il pranava con le relative vyahrti.
Strofa 21
Allora, colui che conosce i mantra e la cui mente brilla essendo risvegliata, mediti come si è esposto or ora; dirigendo il soffio verso l’alto a cominciare dalla regione dell’ombelico, e, iniziando dal corpo grossolano, si trascenda sia il livello grossolano sia il sottile (Questo è un processo unico che non si trova in altri testi dello yoga). | | 21 | |
Commento
Il conoscitore dei mantra è colui che ne ha realizzato la rivelazione (rsi), il potere (sakti), l’espressione divina (devata), la specificità (bija), l’armonia (chandas) sino all’identità con l’Istadevata del mantra.
Il termine mantra tradizionalmente deriva dalle radici man con valore di “pensare, riflettere” (man è la stessa radice di manas, “mente”) e trayate o trana, “proteggere”, dunque “ciò che protegge la mente”. Il mantra è quindi ciò che protegge e libera la mente dall’ignoranza, dalle fantasie e dai vincoli del karman, inoltre determina un cambiamento positivo delle inclinazioni mentali. Le impressioni (samskara), accumulate in innumerevoli cicli di incarnazioni, lasciano segni profondi nel nostro subconscio (citta). Questi samskara individuali, alimentati continuamente attraverso le nostre esperienze, guadagnano grande forza e generano vasana potenti. Queste ultime diventano poi i propellenti delle scelte consce e delle inclinazioni, che determinano la qualità e la natura delle situazioni nella vita.
Il karman è costituito da tutte le impressioni prodotte da pensieri, parole, azioni, quindi è facile comprendere la misura in cui queste esercitano un forte condizionamento o determinano gli avvenimenti della vita. Tuttavia, attraverso la pratica di mantra, antarakriya e della meditazione, possiamo portare a nuova dimensione la nostra esistenza.
La pratica costante e corretta del mantra porta a un cambiamento radicale nell’intera struttura dei samskara e dà consapevole impulso spirituale a essi.
Mantra Vidya è ciò che conduce alla profonda conoscenza dei sacri suoni, della loro origine, uso, significato e applicazione.
Il mantra, per essere efficace e manifestare la sua piena potenzialità, deve essere trasmesso da un vero siddha-yogin, avere vita (caitanya), energia (sakti), consapevolezza (vacya), ed essere alimentato da giusta attitudine mentale (bhavana) e profonda devozione.
Attraverso l’upadesa, dal Guru è indispensabile apprendere: il corretto modo di recitare il mantra, conoscere inoltre rsi, chandas, devata, sakti, mantradrasta, il significato esoterico, kala del mantra, yoganga-varnana, suddhi, asana, prana-kriya, mudra, tarpana, dhyana, yantra, tantra, ecc.
Quando conoscenza, azione e devozione saranno fuse nella meditazione sul mantra, l’ottenimento di mantrasiddhi sarà assicurato.
“Privi di questa consapevolezza i mantra rimangono mere lettere, anche milioni di ripetizioni non daranno alcun frutto”.
Tradizionalmente i mantra sono menzionati in numero di 70.000.000 divisi in sette gruppi e rappresentano ogni possibile espressione del potere divino, ma il mantra per eccellenza è l’omkara, origine e causa di ogni mantra e di ogni cosa manifesta.
La strofa ventuno mette in luce la dinamica dell’ascesa della consapevolezza (cit-sakti dall’aspetto più grossolano al più sottile. Il pranava comprende tutti gli stati che la coscienza esprime nella sua variegata capacità creativa: questa esperienza è ciò che si acquisisce dalla sua pratica.
Le numerose correlazioni simboliche, che spaziano dai piani più metafisici ai più grossolani, lo dimostrano. Sebbene la tabella in appendice (SUL LIBRO VEDI TAVOLA 1) proponga un ampio schema sulle corrispondenze delle sillabe costituenti il pranava, si ritiene utile un ulteriore approfondimento che può aiutare a cogliere meglio il legame sottile tra il processo creativo cosmico e quello individuale.
Akara corrisponde alla funzione di emanazione (srsti), rappresenta lo stato manifesto e agisce sui primi tre cakra e sui primi tre elementi, terra, acqua e fuoco; la vocale ukara è legata alla funzione di mantenimento o protezione (sthiti), agisce sui successivi due cakra e sugli elementi aria e spazio; la sillaba makara è in relazione con la funzione di assorbimento e dissoluzione (samhara), agisce sul sesto cakra (ajna) e sugli stati della mente. Omkara, l’espressione completa del pranava, si esprime pienamente nel settimo cakra (sahasrara-kamala) e comprende tutti i piani o mondi di luce detti saptaloka, da bhu fino a satya, e tutti gli stati di coscienza, da jagrad- fino a turiyatita-avastha; esso rappresenta l’Assoluto, il Parabrahman.
Analogamente, per attraversare tutti gli stadi che il pranava manifesta, vengono impiegate tecniche quali pinda pranavadi suksma kriya.
Avvenuta la contemplazione del pranava in muladhara e avendo attraversato i fuochi nell’ascesa ai cakra successivi, si giunge al manipura. Il manipura è il centro dove le impressioni dell’inconscio (citta) vengono offerte come oblazione nel fonema del fuoco (vahnibija). L’ascesa di prana-sakti dal muladhara al manipura è relativamente lenta mentre, oltre il manipura, superando Visnu-granthi, la sakti si eleva rapidamente.
Dirigendo il soffio verso l’alto a cominciare dalla regione dell’ombelico, continua il processo di dissoluzione nel seguente ordine: dal manipura-cakra, akara si dissolve in ukara in anahata-cakra, il quale a sua volta si fonde in makara in visuddha-cakra; quest’ultima, a sua volta, si dissolve in bindu, in talu, quindi ardhacandra in ajna, e nada in brahmarandra, e ancora in sahasrara in nadanta e oltre (SUL LIBRO VEDI TAVOLA 8).
Strofa 27
L’abbandono della paura e altro
Lo yogin eviti sempre la paura, la rabbia, la letargia (Anche la letargia – alasya – è uno dei nove impedimenti dello yoga, secondo Patanjali, …), il sonno eccessivo o le vie sregolate, l’assunzione smoderata di cibo o i digiuni esagerati. | | 27 | |
Commento
Nella tradizione dello yoga, il sadhaka viene avvertito in merito agli ostacoli o agli impedimenti per l’ottenimento del successo nella pratica dello yoga. Essi sono molteplici e variano in relazione alle differenti Scritture e tradizioni. Patanjali nei suoi Yoga-sutra (I.30) elenca nove viksepa: malattia (vyadhi), apatia (styana), dubbio (samsaya), negligenza (pramada), indolenza o pigrizia (alasya), inclinazioni mondane (avirati), illusione o confusione (bhrantidarsana), non ottenimento di uno scopo (alabha-bhumikatva), l’instabilità o incapacità di mantenere un risultato (anavasthitatva).
Si trovano simili consigli anche nella Bhagavad-gita:
“O Arjuna, lo yoga non è possibile per colui che mangia troppo né per colui che non mangia affatto, né per chi dorme troppo né per colui che rimane sveglio”.
La Amrtanadopanisat mette l’accento su un ostacolo di grande influenza, la paura; essa rende l’uomo insicuro, vittima delle sue ossessioni, in una condizione in cui la forza degli opposti (raga e dvesa) impedisce al sadhaka di ottenere lo stato di tranquillità necessaria per intraprendere il percorso spirituale.
L’ira, che sorge dall’attaccamento, determina una disposizione confusa della mente e l’incapacità di mantenere uno stato di equanimità.
La letargia è quell’attitudine soporosa della mente che ci impedisce di agire con energia ed efficacia. Essa può anche avere origine somatica ed essere dovuta a disfunzioni ormonali, ghiandolari, obesità, ecc. La letargia è un atteggiamento negativo verso se stessi, un’indulgenza verso il piacere passivo.
L’eccesso di sonno è un ritrarsi, una perdita di consapevolezza, un bisogno inconscio di trovare un rifugio. Chi dorme troppo non partecipa al dharma della vita ed è incapace di affrontare la necessaria disciplina di corpo e mente, indispensabile nella pratica yoga.
Similarmente, l’eccessivo perdurare della veglia provoca allucinazioni, instabilità mentale, continua sovreccitazione della mente sensoriale (manas) e l’indebolimento della capacità di concentrazione e dell’energia pranica.
La sovralimentazione determina una progressiva avidità per il cibo, uno squilibrio dell’attività metabolica con conseguenti malattie dell’apparato digestivo e cardiaco nonché stati di intossicazione che possono danneggiare l’intero sistema organico. Viceversa, l’astenersi dal cibo provoca un indebolimento fisico e mentale rendendo il sadhaka incapace di intraprendere ogni tipo di sadhana, in quanto il corpo, troppo emaciato, non è in grado di sostenerlo nella sua disciplina.
Strofe 28 | 29
I benefici della pratica
L’esecuzione corretta della pratica quotidiana dello yoga favorirà il graduale sorgere spontaneo della vera conoscenza; essa emergerà senza alcun dubbio nell’arco di tre mesi. | | 28 | |
Allo scoccare dei quattro mesi [di pratica], egli avrà la visione dei Deva; in cinque mesi, la sua percezione si espanderà ulteriormente; per sua volontà, giungerà infine, in sei mesi, all’ottenimento dello stato più alto, il kaivalya. | | 29 | |
Commento
La strofa dà dei riferimenti temporali in rapporto al successo nella sadhana, in relazione ai tempi della pratica: dopo tre mesi, la sadhana regolare ed eseguita secondo le prescrizioni ‘favorirà il graduale sorgere spontaneo della vera conoscenza’. Bisogna tenere presente che i tempi qui riportati, come in tutta la letteratura yoga, fanno riferimento a praticanti estremamente qualificati (adhikarin) le cui qualità fisiche, morali, intellettuali e spirituali sono al sommo grado; solamente una sadhana estremamente rigorosa e sostenuta con regolarità porta ai risultati citati.
Eseguire la pratica correttamente comporta l’ottemperanza minuziosa degli insegnamenti del Guru. È bene ricordare che l’autorità delle Scritture è sempre subordinata a quella del Guru. Quindi, l’osservanza secondo le regole della sadhana yogica con l’asservimento delle impressioni mentali (samskara) appartenenti alle categorie di rajas e tamo-guna, determina il sorgere nel campo della buddhi di quella conoscenza immacolata, riflessa come i raggi del sole in uno specchio terso.
Vengono elencati, con il progredire della pratica, i vari ottenimenti conseguenti alla graduale purificazione e perfezione della buddhi sino al superamento, all’abbandono della stessa con il risultato che il Sé riposa in se stesso, in uno stato di completa assenza di contenuti e attributi (kaivalya).
Strofa 38
Il beneficio ultimo
Colui il cui prana, dopo aver attraversato le regioni, raggiunge la sommità del capo (Ovvero tutti i cakra) e attraverso di essa penetra, vince la morte, ovunque sopraggiunga, per non rinascere mai più. Penetrata questa regione, noncurante del luogo della morte, non rinasce più.
Egli non rinasce più, così afferma la Upanisat. | | 28 | |
Commento
…
tratto da “Yoga la dolcezza del suono immortale Amrtanadopanisat”
Edizioni Laksmi – Collana Upanisad Dello Yoga –
a cura di Stefano Piano professore ordinario di Indologia nell’Università di Torino