In una nostra opera abbiamo citato, a proposito del Ming-tang e della Tien-ti-Huei, una formula massonica secondo la quale il compito dei Maestri consiste nel “diffondere la luce e riunire ciò che è sparso”. Di fatto, l’accostamento che facevamo allora riguardava soltanto la prima parte della formula; in quanto alla seconda, che può sembrare più enigmatica, siccome essa ha nel simbolismo tradizionale notevolissime connessioni, ci sembra interessante fornire su questo punto alcune indicazioni che non avevano potuto trovar posto in quella occasione.
Per capire nel modo più completo possibile la cosa, conviene innanzitutto riferirsi alla tradizione vedica, che è più esplicita di altre a tale riguardo: secondo essa, infatti, “ciò che è sparso” sono le membra del Purusha primordiale che fu diviso nel primo sacrificio compiuto dai Deva all’inizio dei tempi, e da cui nacquero, grazie a tale divisione, tutti gli esseri manifestati. È evidente che si tratta di una descrizione simbolica del passaggio dall’unità alla molteplicità, senza di cui non potrebbe effettivamente esserci alcuna manifestazione; e ci si può già rendere conto così che la ‘riunione di ciò che è sparso’, o la ricostituzione del Purusha quale esso era ‘prima dell’inizio’, se è consentito esprimersi così, cioè nello stato non-manifestato, non è altro che il ritorno all’unità principiale. Purusha è identico a Prajapati, il “Signore degli esseri prodotti”, essendo questi ultimi tutti derivati da lui e di conseguenza considerati quasi come la sua ‘progenie’; è anche Vishwakarma, cioè il “Grande Architetto dell’Universo”, e, in quanto Vishwakarma, è lui a compiere il sacrificio pur essendone nello stesso tempo la vittima; e, se si dice che è sacrificato dai Deva, ciò non comporta in realtà alcuna differenza, poiché i Deva non sono in definitiva nient’altro che le ‘potenze’ che egli porta in se stesso.
Abbiamo già detto a varie riprese che ogni sacrificio rituale dev’essere considerato un’immagine di questo primo sacrificio cosmogonico; e sempre in ogni sacrificio, come ha fatto notare Coomaraswamy, “la vittima, come mostrano con evidenza i Brahmana, è una rappresentazione del sacrificante, o, come dicono i testi, è il sacrificante stesso; in accordo con la legge universale secondo cui l’iniziazione (diksha) è una morte e una rinascita, è evidente che l’’iniziato è l’oblazione’ (Taittirya Samhita, VI, 1,4,5), ‘la vittima è sostanzialmente il sacrificante stesso’ (Aitareya Brahmana, II, II)”. Questo ci riporta direttamente al simbolismo massonico del grado di Maestro, nel quale l’iniziato si identifica effettivamente con la vittima; si è d’altronde spesso insistito sui rapporti fra la leggenda di Hiram e il mito di Osiride di modo che, quando si tratta di ‘riunire ciò che è sparso’, si può immediatamente pensare a Iside che riunisce le membra disperse di Osiride; ma in fondo la dispersione delle membra di Osiride è appunto identica a quella delle membra di Purusha o di Prajapati: sono soltanto, si potrebbe dire, due versioni della descrizione del medesimo processo cosmogonico in due forme tradizionali diverse. È vero che nel caso di Osiride e in quello di Hiram non si tratta più di un sacrificio, almeno esplicitamente, ma di un assassinio; ma questo non cambia nulla essenzialmente, poiché è la medesima cosa considerata sotto due aspetti complementari, come sacrificio sotto l’aspetto ‘devico’, e come assassinio sotto l’aspetto ‘asurico’; ci accontentiamo di segnalare questo punto di sfuggita, perché non potremmo insistervi senza addentrarci in argomentazioni troppo circostanziate ed estranee al problema che ora stiamo trattando.
Sempre allo stesso modo, nella Cabala ebraica, per quanto non si parli più propriamente né di sacrificio né di assassinio, ma piuttosto di una specie di ‘disintegrazione’ le cui conseguenze sono del resto le stesse, è dalla frammentazione del corpo dell’Adam Qadmon che si è formato l’Universo con tutti gli esseri che contiene, di modo che questi ultimi sono quasi particelle di tale corpo, e la loro ‘reintegrazione’ nell’unità appare come la ricostituzione stessa dell’Adam Qadmon. Esso è l’”Uomo Universale”, e Purusha, secondo uno dei significati di questa parola, è pure l’”Uomo” per eccellenza; si tratta quindi esattamente della stessa cosa. Aggiungiamo a questo proposito, prima di procedere, che poiché il grado di Maestro rappresentava, almeno virtualmente, il termine dei ‘piccoli misteri’, bisogna quindi considerare in questo caso propriamente la reintegrazione al centro dello stato umano; ma è noto che lo stesso simbolismo è sempre applicabile a livelli diversi, in virtù delle corrispondenze che esistono fra di essi, di modo che lo si può riferire sia a un mondo determinato, sia a tutto l’insieme della manifestazione universale; e la reintegrazione nello ‘stato primordiale’, che è d’altronde anche ‘adamico’, è quasi una figura della reintegrazione totale e finale, per quanto essa sia ancora solo, in realtà, una tappa sulla via che vi conduce.
Nello studio che abbiamo citato sopra, A. Coomaraswamy dice che “l’essenziale, nel sacrificio, è in primo luogo dividere, e in secondo luogo riunire”; esso comporta dunque le due fasi complementari della ‘disintegrazione’ e della ‘reintegrazione’ che costituiscono il processo cosmico nel suo complesso: il Purusha, “essendo uno, diventa molti, ed essendo molti, ridiventa uno”.
La ricostituzione del Purusha è operata simbolicamente, in particolare, nella costruzione dell’altare vedico, che comprende nelle sue diverse parti una rappresentazione di tutti i mondi; e il sacrificio, per essere compiuto correttamente, richiede una cooperazione di tutte le arti, il che assimila il sacrificante a Vishwakarma stesso. D’altra parte, poiché si può considerare che ogni azione rituale, cioè in definitiva ogni azione veramente normale e conforme all’”ordine” (rita), sia dotata di un carattere in certo modo ‘sacrificale’, secondo il senso etimologico di questa parola (da sacrum facere), quel che è vero per l’altare vedico lo è anche, in una certa maniera e in una certa misura, per ogni costruzione edificata conformemente alle regole tradizionali, poiché quest’ultima procede sempre in realtà da uno stesso ‘modello cosmico’, come abbiamo spiegato in altre occasioni. Si vede come ciò sia in diretto rapporto con un simbolismo ‘costruttivo’ come quello della massoneria; e d’altronde, anche nel senso più immediato, il costruttore riunisce effettivamente dei materiali sparsi per farne un edificio che, se è veramente quel che dev’essere, avrà un’unità ‘organica’, paragonabile a quella di un essere vivente, se ci si pone dal punto di vista microcosmico, o a quella di un mondo, se ci si pone dal punto di vista macrocosmico.
Per concludere, ci resta ancora da parlare un poco di un simbolismo d’altro genere, che può sembrare assai diverso nelle sue apparenze esteriori, ma è nondimeno, in fondo, equivalente nel significato: si tratta della ricostituzione di una parola a partire dai suoi elementi letterali presi dapprima isolatamente. Per comprenderlo, bisogna ricordarsi che il vero nome di un essere non è altro, dal punto di vista tradizionale, che l’espressione della sua essenza stessa; la ricostituzione del nome equivale quindi, simbolicamente, alla ricostituzione dell’essere stesso. È anche noto il ruolo che svolgono le lettere in un simbolismo come quello della Cabala riguardo alla creazione o alla manifestazione universale; si potrebbe dire che questa è formata dalle lettere separate, che corrispondono alla molteplicità dei suoi elementi, e che, riunendo tali lettere, la si riconduce per ciò stesso al suo Principio, sempre che la riunione venga operata in modo da ricostituire effettivamente il nome del Principio. Da questo punto di vista, ‘riunire ciò che è sparso’ è lo stesso che ‘ritrovare la Parola perduta’, poiché, in realtà, e nel suo senso più profondo, tale ‘Parola perduta’ non è altro che il vero nome del ‘Grande Architetto dell’Universo’.
tratto da “Simboli della Scienza Sacra” – di Réne Guénon – Adelphi Edizioni
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