Vi sono due modi di studiare l’animo umano. Il primo è quello della psicologia empirica, analitica e sperimentale che esamina la psiche umana, gli elementi, le forze che la compongono, considerandoli, per così dire, dall’esterno, oggettivamente.
Ma vi è un altro modo di studiare e di conoscere noi stessi: un modo più diretto e vitale, che parte dall’interno, dal centro del nostro essere, che non studia tanto i fenomeni psichici nella loro molteplicità, quanto l’unità profonda che li collega, il soggetto vivente in cui si svolgono e senza cui non potrebbero esistere.
Questo metodo d’indagine non elimina, ma integra opportunamente l’altro che da solo resterebbe troppo materialistico ed esteriore.
Col metodo interiore si parte da’esperienza più sicura, dalla constatazione più diretta, dalla certezza più immediata che abbiamo: la coscienza di noi stessi, del nostro Io. Infatti di tutto possiamo dubitare, fuorché di esistere e di sentirci esistere.
Ma se da questa semplice e diretta consapevolezza di noi vogliamo passare ad una conoscenza più profonda, ad una chiara realizzazione della natura, dell’essenza, dei poteri del nostro Io, sporge subito una folla di dubbi, di incertezze, di apparenti contraddizioni.
Noi diciamo “Io” ad ogni istante, eppure se ci fermiamo a coglierlo in noi, se cerchiamo di sentirlo nella sua purezza, nella sua essenza, esso sembra eluderci e dileguarsi. A momenti l’Io ci sembra la realtà più immediata e sicura; ed a momenti ci pare invece qualche cosa di vago, di inafferrabile, di inesistente, quasi come un punto matematico; qualche cosa di lontano come il coincidere di innumerevoli parallele all’infinito.
A momenti abbiamo vivo e chiaro il senso della nostra identità personale attraverso ogni mutamento esterno ed interno; a momenti invece ci sentiamo trasformati, diversi, estranei al nostro Io di ieri, ci pare di “non riconoscerci più”.
Talvolta sentiamo fortemente l’unità del nostro essere, la coesione delle sue parti in un tutto organico, in una “personalità”; altre volte invece percepiamo in noi stessi profonde differenze, aspri contrasti, sembra che due anime alberghino nel nostro petto e che lo dilaniano con le loro lotte accanite.
A volte il nostro Io ci sembra intimamente collegato con il nostro organismo, dipendente da esso, sottoposto all’azione di ogni mutamento fisiologico; a volte invece ci appare assolutamente eterogeneo dal corpo, fatto di una sostanza spirituale semplice ed immutabile, indipendente da ogni influsso.
Talvolta sentiamo chiaramente, duramente, la differenza fra l’io ed il non-io, vediamo un abisso senza ponti fra noi e gli altri, ci pare d’essere terribilmente soli, isole lontane da ogni terra, talvolta invece ci sembra di fonderci intimamente, di diventar tutto con un essere amato, o con una moltitudine, o con la natura, o con Dio.
Ogni sera il nostro Io sembra spegnersi, svanire nel sonno, ed ogni mattina esso riappare miracolosamente, quasi emergente dal nulla …
Eppure non possiamo rassegnarci a conoscerlo in modo sì vago ed imperfetto. La nostra insaziabile sete di sapere, che ci spinge a scrutare gli immensi mondi lontani e gli esseri che pullulano in una goccia d’acqua, non può lasciarci incuranti e indifferenti di fronte all’ignoto che alberga in noi stessi, di fronte a questo che sentiamo costituire il mistero centrale dell’Essere.
Ma non il solo desiderio di sapere ci spinge ad indagare questo mistero: vi siamo indotti anche – e più urgentemente – da motivi personali che hanno una portata pratica immediata.
Noi tentiamo di portar luce, ordine, armonia in noi stessi; tentiamo di riconoscere fra gli innumerevoli pensieri, sentimenti, impulsi che si avvicendano e contrastano nel nostro animo, quelli che sono l’espressione del nostro essere, del nostro Io più vero e profondo, e quelli che provengono invece da suggestioni esterne e da tendenze istintive, per dominare ed eliminare tutto ciò che riconosciamo non nostro o non degno di noi.
Ma dobbiamo riconoscere, se vogliamo essere sinceri, che tali tentativi hanno spesso risultati ben poco soddisfacenti. Le opinioni e le tendenze suggeriteci dall’ambiente si mascherano con facilità per nostre senza che ce ne accorgiamo; mentre invece spesso mettiamo in dubbio o respingiamo le intuizioni ed i moti della nostra anima. Gli intenti, le passioni, le abitudini che tentiamo di signoreggiare resistono ostinatamente ai nostri sforzi, sfuggono facilmente alla nostra presa, celandosi nell’oscurità del subconscio donde poi si insinuano subdolamente in noi e ci assalgono violentemente di sorpresa.
Questi nostri insuccessi dipendono da varie ragioni profonde: in primo luogo dalla reale complessità e difficoltà dell’opera; in secondo luogo dal nostro precedere inabile ed a tentoni, per ignoranza dei metodi precisi ed efficaci di indagine e di disciplina interiore, che pure esistono e che meriterebbero invero non minor interesse ed apprezzamento di quelli ora sì largamente diffusi e giustamente usati, di cultura fisica.
Infine quegli errori e quegli insuccessi dipendono – e non in minor parte – dalla concezione troppo incerta, confusa, rudimentale, che abbiamo intorno alla natura ed ai poteri del nostro intimo essere: del nostro Io.
Anche per queste ragioni pratiche dunque s’impone – non ad una classe speciale di studiosi, ma ad ognuno che voglia vivere consapevolmente, degnamente, che voglia essere signore e non schiavo nella propria dimora interiore – la conoscenza di noi stessi.
Ma se per apprendere che cosa è il nostro Io ci rivolgiamo alla psicologia scientifica positiva, che ha dominato incontrastata o quasi fino a poco tempo fa, restiamo completamente delusi.
A questa domanda essa sa rispondere meno che ad ogni altra.
Non sa perché, in un certo senso, non vuole!
Essa si è chiusa la via, negando l’esistenza di un soggetto reale e sostanziale; ha voluto essere, secondo la curiosa espressione del Lange “una psicologia senz’anima”.
Tale negazione però non è affatto giustificata. Perché lo fosse bisognerebbe che venisse data la prova di fatto che l’anima non esiste, ed è, invece, questa prova che non esiste. Ciò è riconosciuto implicitamente da alcuni psicologi più prudenti i quali, non negano l’esistenza dell’anima, ma dicono che tale questione non riguarda la psicologia! Questa riserva agnostica è però puramente teorica: in pratica essi studiano la vita psichica come se non ci fosse un’anima.
Ma concediamo pure che si possa fare, fino ad un certo punto, uno studio analitico dei fenomeni psichici, prescindendo dal loro riferimento all’Io, resta il fatto che passando dall’anatomia alla fisiologia della vita psichica, dall’analisi alla sintesi, l’ammissione di un principio unificatore, di un Centro attivo, di un Io reale, insomma, si impone in modo imprescindibile.
Per comprendere veramente le varie manifestazioni della vita psichica, bisogna considerare questa come l’espressione di un essere vivente il quale si propone certi fini, attribuendo loro un valore, vuole raggiungerli e si sforza di farlo, superando le resistenze esterne ed interne che ostacolano quel raggiungimento.
Ammesso dunque un Principio Unificatore, un centro attivo nella vita psichica, dobbiamo cercar di determinarne il più possibile la natura ed i poteri. Il compito è arduo, perché la natura ed i poteri dell’Io non si rivelano almeno di solito, direttamente alla nostra coscienza. Ciò di cui noi siamo coscienti ordinariamente è solo ciò che si può chiamare l’”io fenomenico”, al quale si riferiscono tutti i mutevoli stati di coscienza, pensieri, sentimenti ecc.
Ma questo io fenomenico non è che la manifestazione della coscienza ordinaria, il riflesso dell’Io reale; Principio attivo, permanente, vera sostanza del nostro essere.
Se ricordiamo qual è lo stato del nostro io empirico cosciente, in altre parole della nostra coscienza ordinaria in condizioni normali, cioè quando non ci osserviamo di proposito, non riflettiamo su noi stessi, ma ci “lasciamo vivere spontaneamente”, possiamo constatare due fatti importanti.
In primo luogo vediamo che la nostra coscienza ordinaria, il nostro io cosciente, si identifica via via con il contenuto della coscienza in un dato momento. Se ad esempio un sentimento triste viene ad occupare la nostra coscienza, noi diciamo: “Io sono triste”; se una sensazione di stanchezza la occupa, diciamo: “Io sono stanco”; se proviamo un senso di languore allo stomaco, esclamiamo: “Io ho fame”; e così via …
Allo stesso modo ci identifichiamo con particolari caratteristiche fisiche, morali, intellettuali e sociali che rispecchiano solo aspetti parziali di noi stessi: così diciamo, via via “Io sono stanco”, “io sono bello”, oppure “brutto” – “io sono forte” oppure “debole” – “io sono uomo” oppure “donna” – “io sono marito e padre” – “io sono figlio” o “io sono positivista o spiritualista” – ecc.
Ma non sempre il particolare contenuto o aspetto della nostra personalità è abbastanza ampio e forte da occupare tutta la coscienza. Ad esempio possiamo dire “io sono stanco”, eppure pensare ad altro, avere sentimenti e preoccupazioni d’altro genere. Ma se lo stato d’animo è abbastanza intenso, come una profonda tristezza prodotta da una delusione o da una perdita grave, esso occupa per un certo tempo tutto il campo della coscienza e l’identificazione dell’io col contenuto della coscienza è – per quel tempo – completa. La persona che è in preda ad una tristezza profonda non solo dice “io sono triste”, ma dimentica per il momento di essere stata tante altre volte serena ed allegra; non sa quasi concepire come si possa essere lieti e se vede altri ridere e scherzare prova un senso di sorpresa e quel contegno le sembra strano, come irreale. Essa tende a generalizzare, ad obbiettivare, per così dire, lo stato d’animo soggettivo e transitorio col quale si identifica e dice “La vita è triste, solo il dolore è vero, tutto il resto è illusione”.
Supponiamo ora che questa persona riceva una buona notizia, ad esempio la perdita annunciata non era vera, che la persona creduta morta è invece salva. Vediamo subito cambiare lo stato di coscienza: la tristezza cede il posto alla gioia e la persona, identificandosi col nuovo stato d’animo, esclama: “Come sono contenta”! la vita le appare buona, sente che merita di essere vissuta e non di rado nell’esuberanza della gioia dimentica quasi l’esistenza del dolore. Se qualcuno o qualcosa le rammenta la sua recente tristezza, questa le pare lontana ed irreale e le vien fatto di dire: “Ora mi sembra di essere un’altra persona”.
Questa esclamazione del tutto spontanea e naturale, che ognuno di noi ha udito più volte, è assai significativa. Infatti da un lato essa dimostra come l’identificazione dell’io col contenuto della coscienza fosse apparentemente completo. Ma la persona nell’istante stesso in cui pronuncia quella frase sa di non essere veramente un’altra persona; in altre parole, non ha perso il senso della propria identità personale. Ciò significa che mentre l’io fenomenico, cosciente, si identifica via via con i vari contenuti della coscienza, vi è qualcosa in noi che non s’identifica, che non cambia col cambiare degli stati d’animo, che resta sempre uguale, fisso, inattaccabile; questo è il nostro vero io, il Centro della nostra individualità, e la sostanza stessa del nostro essere.
Senza l’ammissione di questo Io profondo o superiore, è ben difficile spiegare in modo soddisfacente il perdurare del senso della coscienza dell’identità personale attraverso il mutare degli stati di animo, attraverso le interruzioni della coscienza ordinaria che si producono durante il sonno, gli svenimenti, l’ipnosi, la narcosi.
Il fatto che ordinariamente non abbiamo coscienza dell’io superiore non deve certo sorprenderci: ordinariamente la nostra coscienza è sempre occupata dal continuo fluire dei vari stati d’animo, il nostro io empirico si identifica via via con essi; come sarebbe possibile aver nello stesso tempo coscienza dell’Io superiore? Non si può sentire ad un tempo – salvo in condizioni speciali, dopo un lungo allenamento – il transitorio ed il permanente, il mutevole ed il fisso, l’apparente ed il reale.
Ma se si riesce ad arrestare per qualche istante la “corrente mentale”, a tenere il campo della coscienza libero dagli stati d’animo che di solito lo occupano, si può giungere ad avere una certa coscienza dell’Io profondo.
È un’esperienza non facile: continuamente sensazioni esterne ed interne cercano di invadere il campo della coscienza; continuamente sorgono in noi sentimenti, emozioni, pensieri, ed è assai arduo respingerli, distogliere da essi l’attenzione e rivolgerla a tenerla fissa sull’Io.
Per poterlo fare occorrono pazienti esercizi di raccoglimento e di meditazione, oppure condizioni psichiche eccezionali in cui si produca la cessazione dell’attività mentale ordinaria. Ciò spiega come la maggioranza degli uomini non abbia avuto occasione di acquistare coscienza dell’Io profondo e che quindi tenda a dubitare della sua esistenza ed anche a negarla.
Ma tutti coloro che, per circostanze speciali ed in seguito ai loro sforzi, hanno raggiunto quella coscienza, hanno una profonda, incrollabile sicurezza, dell’esistenza dell’Io reale, dell’Anima.
Quando si sia così riconosciuta l’esistenza dell’Io reale, dell’Anima e dei suoi poteri, l’ammonimento inciso sulla porta del Tempio di Dreale, dell’Anima e dei suoi poteri, l’ammonimento inciso sulla porta del Tempio di Delfi
“CONOSCI TE STESSO”
acquista un nuovo e più profondo significato.
Esso non vuol più dire soltanto:
“Analizza i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, esamina le tue azioni”, esso significa anche e soprattutto “studia il tuo sé più intimo; scopri il tuo vero Essere; apprendi le sue meravigliose potenzialità”.
A questo punto desidero prevenire una possibile obiezione, eliminare un eventuale malinteso.
Il parlare di Io ordinario e di Io profondo non deve indurre a credere che vi siano due Io, separati ed indipendenti e quasi due esseri in noi.
L’Io in realtà ed in essenza è unico. Ciò che chiamiamo “Io ordinario” è quel tanto o quel poco dell’Io profondo che la coscienza di veglia può accogliere, assimilare, attuare in un dato momento.
Esso è qualcosa di contingente e di mutevole, una quantità variabile. È un “riflesso”; ma che può divenire sempre più vivido e luminoso e che potrà un giorno arrivare ad unificarsi con la Sua Sorgente.
Per avere un’idea più chiara e quasi sensibile di questi rapporti fra l’io ordinario empirico, e l’Io Superiore e delle loro connessioni con gli altri elementi della nostra vita psichica, può essere utile un diagramma.
Premetto subito che ogni schema con cui si cerchi di obiettivare e fissare una realtà complessa, sottile, dinamica, quale è la vita psichica, non può non apparire grossolano, inadeguato, incompleto. Ma, con questa riserva, ritengo che, come prima approssimazione, lo schema proposto possa arrecare qualche chiarificazione, dare una prospettiva, una inquadratura iniziale in cui disporre le nostre conoscenze.
1 Io Superiore, Spirituale
2 Subcosciente superiore o Supercosciente
3 Subcosciente medio
4 Subcosciente inferiore
5 Io empirico, coscienza normale di sé
6 Campo della coscienza di veglia.
SUE DIVISIONI
Subcosciente inferiore: Impulsi, istinti, passioni. Psiche organica – sogni caotici, automatismi psichici – suggestioni morbose – fobie, deliri.
Subcosciente medio: Fatti ed attività psichiche simili a quelle di veglia.
Subcosciente superiore o Supercosciente: Creazione artistica, scientifica – intuizione – coscienza mistica e spirituale.
È opportuno ora prevenire un altro errore o malinteso.
Non si creda che questa concezione, questo riconoscimento del nostro più alto essere debba portare ad un’esaltazione, ad una deificazione dell’Io individuale.
Ciò avverrebbe se lo si considerasse isolato, avulso dalle sue naturali ed intime connessioni con la Realtà, cioè con gli altri esseri e con l’Essere Supremo, con Dio. Esso invece dà il modo di renderci più chiaro conto di tali connessioni e quindi di accoglierlo e di inserirvi in modo più consapevole e volenteroso.
La concezione spirituale dell’Io e dell’Anima è stata generalmente ammessa dalla filosofia cristiana, pur usando una terminologia diversa, e dalla tradizione religiosa. Già Sant’Agostino affermava l’assoluta e trascendente unità dell’Io; i vari mistici parlano con espressioni assai simili della “scintilla” e dell’”apice dell’Anima” oppure del “fondo”, del suo “centro” che è la sua intima realtà ed in cui viene in contatto con Dio.
Nella sua mirabile opera “La Connaissance de l’Ame” il Gratry dice:
“L’Anima porta in sé dei tesori impliciti e non ne vede nulla, non ne sa nulla, non se li spiega” (pag. 47). Egli aggiunge però che noi possediamo “un senso interno il quale in certi momenti speciali in cui riusciamo a sottrarci dall’abitudine delle distrazioni e delle passioni, ci dà una diretta e chiara coscienza della nostra Anima”. (pag. 198).
“ Io sentivo – egli scrive – come una forma interiore … piena di forza, di bellezza e di gioia … una forma di luce e di fuoco che sosteneva tutto il mio essere; forma instabile, sempre la stessa, spesso ritrovava nella mia vita, dimenticata negli intervalli e sempre riconosciuta con trasporto e con l’esclamazione ‘Ecco il mio vero essere’ ” (pag. 199).
È questo Centro superiore che costituisce il legame, il punto di contatto fra l’Anima e Dio. Infatti la filosofia religiosa afferma che lo stato di grazia consiste nell’avere Dio presente e vivente in noi, ma tale presenza non è di solito percepita direttamente dalla coscienza ordinaria del fedele.
A questo proposito così si esprime il Cardinal Mercier:
“È una verità che Dio vive in noi … ma molti ignorano questo mistero e per tutta la vita vi dimorano estranei”.
Perciò egli consiglia: “Fate degli atti di fede volontari, espliciti, frequenti a questa Presenza reale e stabile di Dio dentro di voi” (Vedi Padre PLUS “Dio in noi”, pp. 5-6).
Ma dov’è questa Presenza reale e pure ignorata dalla coscienza?
Evidentemente nella parte più elevata dell’essere, nel supercosciente, nell’Io Superiore.
Il riconoscimento dell’esistenza della vera natura dell’Io ha un immenso valore spirituale ed un’importanza pratica incalcolabile. Tale riconoscimento costituisce una vera rivelazione; è l’inizio di una nuova vita, è la chiave per comprendere tanti fatti, per risolvere tanti problemi; è la base per l’opera di auto dominio, di liberazione e di rigenerazione interna.
Archimede disse: “Datemi un punto d’appoggio ed io solleverò il mondo”.
Ebbene, per sollevare il nostro mondo interno il punto d’appoggio è costituito dall’Io, dal Centro fisso e dinamico del nostro essere.
La causa generale delle nostre debolezze, delle nostre limitazioni, dei nostri errori, sta nell’identificazione suaccennata del nostro io empirico e della nostra coscienza ordinaria con i vari suoi contenuti, con le idee, i sentimenti, le passioni, gli impulsi che la invadono.
Quell’identificazione espressa nell’ammissione: “io sono ciò” produce l’accettazione passiva di quel contenuto e quindi l’asservimento ad esso. Ad esempio, se uno dice: “io sono irritato” con ciò stesso aderisce all’ira, si immedesima con l’ira, lascia agire l’ira in lui. Se invece egli ha la vera coscienza di sé, appena avverte quello stato d’animo dice: “in me sorge un moto d’ira”.
Lo stesso può dirsi per ogni altro ostacolo, difficoltà e limitazione interiore.
È strano invero come l’uomo trascuri di servirsi di un’arma sì potente e benefica; come ai giovani si insegnino tante cose, ma non questa, che pure sarebbe per loro la più importante.
È ora veramente che questa deplorevole inerzia morale cessi, che questa colpevole lacuna dell’educazione venga colmata; è ora che gli uomini degni di tal nome si accingano volenterosi all’opera di esplorazione e di conquista del mondo interiore – mondo non meno vasto, vario ed affascinante di quello esterno; mondo che largisce, a chi sa divenirne padrone, tesori preziosi, più nobili, più appaganti, di quelli che possono offrire i continenti e gli oceani.
tratto dalla Rassegna bimestrale dell’Accademia di Studi Gnostici “Conoscenza”
ANNO XXIX, N. 6, Dicembre 1993