Introduzione al libro
“Femminilità della Parola – Miti e simboli dell’India antica – ”
Intervista con Martine van Woerkens e Jean-Daniel Dubois
La dea Parola
Nelle sue opere precedenti, Cuire le monde [tr. It. Cuocere il mondo: rito e pensiero nell’India antica, Adelphi, Milano, 1994] e Le Jumeau solaire [tr. It. Il gemello solare, Adelphi, Milano, 2007], le questioni del sacrificio e della morte erano centrali. Questa nuova indagine intorno alla parola, la partner femminile del sacrificio, si allinea alle precedenti e le completa. Però ce ne allontana anche, perché qui lei non è più l’esegeta della morte ma della vita. Infatti, i personaggi dominanti della scena sacrificale che lei qui esplora, non sono più gli specialisti del rito, i sacerdoti, ma i poeti vedici, plasmatori di una Parola senza la quale il rito non esiste.
Sì, certo, ma bisogna fare qualche precisazione cronologica. È vero che, nel Jumeau solaire, pubblicato nel 2002, il tema è il dio della morte, Yama. D conseguenza, la morte lì è il motivo principale. Ma poiché Yama è il fratello gemello di Yami, ho dovuto aggiungere alla disamina della morte quella della gemellarità e dei rapporti tra fratelli e sorelle. Se in Cuocere il mondo parlo di sacrificio, esploro non di meno la seduzione, la memoria e i “fini dell’uomo”. È vero che il sacrificio è sempre in gioco quando si prendono in esame i testi indiani del periodo antico, ma occorre avere una visione esatta dei rapporti fra sacrificio e morte. Al rischio di lasciare a volte in ombra la violenza intrinseca al sacrificio nella varietà dei suoi aspetti, e quindi il pathos e il lato tragico che lo riguardano, quel che cerco di mostrare è il ruolo strutturante, per riprendere un’espressione di Madeleine Biardeau, del rito sacrificale nel pensiero vedico. Nei testi vedici, non è mai in questione la sofferenza della vittima, e meno ancora il valore potenziale di redenzione della sofferenza stessa. In realtà tutto ruota attorno al sacrificante e all’idea che il vero protagonista del sacrificio è colui che trarrà beneficio, quaggiù e nell’aldilà, dall’immolazione della vittima. Attenendomi fedelmente agli autori dei Brahmana, ho affermato che il sacrificio è sempre una messa a morte, un atto radicalmente violento anche quando sono solo delle materie vegetali a venire offerte e immolate. In un certo senso l’intero rito vedico è assimilabile a un sacrificio; d’altro canto, nella riflessione indiana il sacrificio è anzitutto un rito, una costruzione mentale, costruzione di sé (del Sé del sacrificante) e costruzione del mondo. In altri termini: la messa a morte è presente anche quando non si vede; e quando invece la violenza è evidente e persino spettacolare, essa non è il tutto e nemmeno l’aspetto cruciale della cerimonia. Generalmente i termini tradotti con “sacrificio” sono yajna e yaga. Una traduzione corretta che mi sta bene. Ma certi esegeti indiani, imitati da taluni indiani moderni, adottano il termine “rituale” per evitare di caricare lo yaina vedico dei caratteri e delle connotazioni proprie del “sacrificio” nelle religioni del Libro. Detto questo, resta il problema di capire per quale motivo i brahmani stabilirono che tutto ciò che era da dire sul corpo e lo spirito, la società e il cosmo, doveva prendere la forma di un’analisi e un’esegesi instancabile del rito sacrificale. Come se il dispositivo sacrificale fosse anche una macchina per decifrare la realtà.
Per tornare al mio lavoro e alle questioni di cronologia, bisogna tener conto del fatto che le opere da lei menzionate, Cuocere il mondo, poi Le Jumeau solaire e adesso Féminité de la parole, raccolgono studi per la maggior parte pubblicati in precedenza nel corso di molti anni e rimaneggiati in seguito. Non è possibile stabilire una cronologia lineare dei miei interessi o dei miei modi di accostare le idee indiane solo sulla base dell’ordine di successione di questi libri: bisognerebbe entrare nel dettaglio, tener conto delle date dei lavori che li compongono. Detto diversamente, non c’è da immaginare che all’inizio mi sia occupato della morte perché tutto sommato la vedevo lontano da me, e che poi, col passare degli anni, mi sia aggrappato alla vita!
In Femminilità della parola, ogni capitolo si richiama al titolo generale, ma in modo ineguale. La maggior parte tocca il tema e lo sviluppa in maniera esplicita, altri capitoli vi si ricollegano indirettamente, come nel caso di “Psicoanalisi e scienze delle religioni” e “L’animale sacrificante”. Nell’uno e nell’altro testo l’argomento centrale è la parola, ma la polarità femminile della parola non è trattata in modo esplicito. Ed ora alcuni chiarimenti sul titolo. Nei testi vedici (ed anche nella letteratura sanscrita post-vedica), la parola è oggetto di un discorso infinito, e infinitamente complesso: è un discorso poetico sui “poteri della parola”, un discorso teorico sulla natura e la struttura del linguaggio nei suoi rapporti con la conoscenza, ci sono poi discorsi estetici e mistici sulle emozioni suscitate dalla parola quando diventa un’opera d’arte ecc. d’altro canto gli autori indiani , il che non è affatto sorprendente, hanno idee tutte loro sulla donna, le donne, il femminile. All’intersezione fra questi due discorsi si delinea il campo di quello che ho definito la femminilità della parola. Ovvero non che cosa le donne dicono o che tipo di parola è proprio delle donne? Bensì, una volta che la parola sia personificata, quali sono le caratteristiche femminili che le vengono attribuite? Non tutti i nomi della parola sono femminili, ma sono femminili solo i nomi usati per designare la parola personificata e divinizzata: esiste una dea parola, ma non un dio “linguaggio” o un dio “vocabolo”. Ciò mi ha portato anche a studiare quel che c’è di femminile nella parola vista sia come entità divina sia come concetto. E infine, tornando di nuovo al sacrificio, mi sono interrogato sul ruolo della donna nei riti sacrificali. È esatto dire, e lei fa bene a sottolinearlo, che nel sacrificio, nella messa a morte sacrificale, il ruolo della moglie del sacrificante è quello di restaurare le ferite, di far sì che esse siano cicatrizzate, che le membra dell’animale squartato siano ricomposte simbolicamente, e che i suoi spiriti vitali circolino di nuovo. La moglie del sacrificante ridà la vita, sempre sulla base dell’idea che agli dèi debba essere offerto un essere vivente.
Perche ha voluto tradurre vac con Parola e non con “verbo”, “vocabolo” oppure “discorso”?
Ho sentito la necessità di trovare per vac un equivalente francese anch’esso di genere femminile. Vac che etimologicamente corrisponde alla vox latina, designa una realtà di cui vengono costantemente messe in luce le qualità femminili. Se avessi tradotto “verbo”, si sarebbe pensato a logos. Però nel vocabolario corrente, a prescindere da quel che se ne può dire quando è personificata e divinizzata, vac designa la parola come emissione di suoni dotati di senso, dunque non sta per “discorso argomentato” né inclina verso l’idea di “ragione”. D’altro canto, a partire da Saussure, noi distinguiamo la parola dalla lingua. Con questo criterio vac in sanscrito corrisponde esattamente a ciò che Saussure chiama parola, cioè il linguaggio in quanto si realizza in prodotti concreti. La lingua come sistema di segni (la tal lingua rispetto a un’altra) è designata con termini diversi da vac. Per dire “vocabolo” [mot] si usano nomi come sabda; e per “suono” linguistico aksara e varna. Vac però è “parola” in tutto e per tutto.
In inglese, dove il genere (per farla breve) non si distingue, vac si traduce con word, e più correttamente con speech.
Il tedesco, che i generi li ha, rende vac con Rede, che è femminile. Ora, “voce” nel senso di “emissione sonora prodotta dagli organi della fonazione” si dice vani, un termine femminile (che è anche sinonimo di vac). La poesia sanscrita esalta la voce come veicolo della parola. Penso al famoso verso di Bhavabhuti: “Lodiamo la voce, parte immortale dell’anima” (vandemahi ca tam vanim amrtam atmanah kalam). Se sia una parte o la parte immortale dell’anima, la lingua sanscrita, così com’è fatta, non lo discrimina …
Nella misura in cui coincide col Veda, questa parola è vera. Come facoltà di linguaggio è “bicefala”, capace di dire sia il vero che il falso. In quanto figura mitologica femminile, è soprattutto frivola, pronta a lasciarsi sedurre e al tempo stesso inafferrabile. È in virtù della sua femminilità che è compartecipe del sacrificio. I testi che vengono recitati nel rito appartengono alla (dea) Parola, mentre gli atti, i gesti incorporano l’aspetto maschile del sacrificio. Quanto ai silenzi, essi sono ora modalità della parola, ora elemento di contrasto nei suoi confronti. Un tratto notevole è che, sul terreno del sacrificio, la moglie del sacrificante, la cui presenza è necessaria, parla pochissimo, e le formule che recita sono assai scarse: la Parola sacrificale è donna, ma la moglie del sacrificante non è persona “parlante”.
L’articolazione fra la Parola e i riti da lei messa in evidenza suggerisce l’idea di una connessione molto stretta fra grammatica e atti rituali. Del resto, il fatto che i Veda siano stati a lungo trasmessi oralmente, “a memoria”, come lei intitola uno dei capitoli di Cuocere il mondo, si accompagna alla fioritura di una serie di discipline che garantiscono l’esattezza del testo trasmesso. Si tratta di un aspetto della dea Parola che lei considera di particolare rilievo?
Infatti, la parola dev’essere pronunciata esattamente quando si concretizza, si realizza nei testi dei Veda, in particolare nei mantra, che sono strofe e formule capaci di conferire efficacia rituale e soprannaturale ai gesti e agli oggetti del sacrificio. Non si tratta solo di trasmettere un testo o dei testi fedelmente, senza il minimo errore. Questa preoccupazione è realissima, ed è all’origine di tutte le tecniche della memoria, in India assai sviluppate. Ma ci sono anche discipline che analizzano la parola per portare alla luce le regole esplicative della forma e dell’uso dei vocaboli. La parola prende corpo in testi ben definiti, che si trasmette senza omettere nulla di ciò che la rende ritualmente efficace, dà luogo a un insieme di scienze, alcune relative al rito, altre al linguaggio e al sistema della lingua. In certo qual modo, sono scienze che si sono sviluppate l’una accanto all’altra. A questo proposito, l’importanza attribuita alla paola, un’importanza religiosa o speculativa, è sicuramente un fattore determinante nell’invenzione in India di una disciplina come la grammatica. Del resto è stata spesso messa in luce la convergenza tra la meta lingua della scienza grammaticale e quella relativa al rito. In questo campo, la parola oggetto di scienza e strumento di conoscenza e tutto ciò che ha a che fare con la poetica e i poteri della parola sono questioni in cui l’opera di Louis Renou ci fa ovviamente da guida. Nell’India antica il rituale è oggetto di ingiunzioni, enunciati di cui si vaglia la struttura linguistica. C’è il legame tra il rito e la parola, e il legame (analogia e influsso reciproco) tra la scienza dei riti e la scienza della parola.
La lingua sanscrita e l’India antica
Per lei il sanscrito, questa lingua che si proclama “perfetta” nel nome che la designa, sarebbe non un mezzo, ma un fine. Potrebbe spiegare questo capovolgimento di prospettiva?
Con “parola” (o la Parola con la P maiuscola) i testi non intendono un mezzo di “comunicazione”. I poeti vedici non usano la parola come uno strumento per comporre i loro poemi, direi piuttosto che sono i poemi a far accedere alla parola il poeta vedico, alla condizione di farla accadere. Penso anche ai miti o, più semplicemente, a tutte le espressioni che ci mostrano come la parola personificata non cessa di fuggire, di sottrarsi, e che per trattenerla o farla tornare occorrono molti sforzi.
È d’accordo che il sanscrito, questa lingua che l’ha così entusiasmata, si autodefinisca perfetta?
Quali mai potrebbero essere i criteri oggettivi, linguistici, che ci consentirebbero di giudicare le qualità di una lingua? Tutt’al più possiamo dire che la tal lingua ha una morfologia e un vocabolario più ricchi di un’altra, che ha prodotto testi più numerosi, differenziati e potenti (lasciamo da parte la sintassi). Da questo unto di vista il sanscrito è indubbiamente impressionante, ma quel che conta non è la nostra impressione, la nostra opinione. Ciò che importa è comprendere in modo adeguato l’idea che i locutori del sanscrito si fanno della propria lingua; e osservare anzitutto che, nella maggior parte dei casi, una lingua porta il nome dell’etnia o del paese in cui è parlata. Nel caso del sanscrito, che si definisce samskrta, le cose non stanno così: la definizione deriva dalle qualità intrinseche della lingua, non dai luoghi o gli ambienti in cui la si parla. La “perfezione” che la caratterizza, secondo coloro che in un certo senso ne sono gli adepti, è una purezza raggiunta attraverso tutta una serie di filtri, e che dipende anche dalla compiutezza di prerogative di perfezionamento (samskara), paragonabili ai “sacramenti” che sigillano per un individuo i riti di un passaggio attraverso le tappe della sua vita.
Si possono individuare queste prerogative di perfezionamento che fanno del sanscrito una lingua perfetta?
Ci sono due registri. Anzitutto, la natura di ciò che è espresso nei poemi vedici e che è metaforica: i poeti arrivano a articolare i loro i loro poemi, o piuttosto la lingua di cui son fatti, attraverso filtri paragonabili alle modalità con cui la bevanda soma viene chiarificata tramite setacci di lana. In secondo luogo c’è quella che si può chiamare l’attitudine grammaticale: le regole della grammatica sono il risultato della messa in forma dell’uso; esse, però, una volta formulate, diventano norme ed è perfetta lingua che obbedisce ad esse. È come se una bruta materia linguistica di partenza venisse lavorata grazie ai perfezionamenti che sono le norme. Le altre lingue dell’India, i diversi pracriti, sono stimate grossolane perché non hanno raggiunto il grado di perfezionamento del sanscrito. Avendo deviato dalla norma, sono de-formate, aberranti. Credo che il prestigio straordinario della lingua sanscrita nel mondo indiano, spiegabile con ogni sorta di fattori storici e sociali, si fondi per i parlanti sanscrito, sulla base dei due seguenti segni di perfezione: è la lingua dei Rsi (i veggenti) vedici, ed è la lingua i cui testi risultano dall’applicazione delle regole grammaticali di Panini.
Il sanscrito è l’unica lingua in cui la dea Parola occupa una posizione eminente?
In India Sarasvati, che è una delle manifestazioni divinizzate della Parola, dalle origini vediche fino ai giorni nostri è sempre stata oggetto di grande venerazione da parte degli indù, e non solo della ristrettissima minoranza che parla sanscrito. È la dea che protegge le arti della parola, compreso il canto e, per estensione, la musica. La si invoca ogni volta che si deve dar prova di intelligenza, un’intelligenza destinata a tradursi in un’espressione verbale. Al favore di Sarasvati ci si appella quando si deve passare un esame! Dunque il rango divino della Parola in india non è legato esclusivamente all’eccellenza della parola che si esprime nella lingua perfetta. D’altro canto, lei mi pone anche una domanda comparativa. Esistono in altri contesti indiani, dei pantheon che accolgano una divinità eminentemente femminile come la parola? Non saprei. Penso che, in un modo o nell’altro, in tutte le società gli uomini provino stupore, anche inquietudine in presenza della facoltà di parola. Ovviamente la musa ha un ruolo eminente nella poesia omerica, non è per essa un mero ornamento retorico. Senonché non è onnipresente nel rito e nelle attività umane fondamentali alla stessa stregua dell’India. Se la musa greca è la dea che ispira i poeti, Vac, la Parola indiana è alla base di ogni e qualsiasi attività dell’uomo. In quanto essere parlante e sacrificante, l’individuo ha costantemente, inevitabilmente a che fare con la dea Parola.
Il sanscrito è una lingua che si può tradurre?
Non c’è mai stato un tabù esplicito che impedisce di tradurre un testo sanscrito in un altro idioma dell’india o in una lingua straniera. Senonchè i testi vedici hanno cominciato a essere tradotti solo a partire dal XVII secolo, e con molta parsimonia. Per i Veda il lavoro vero e proprio di traduzione si è avviato con la colonizzazione europea. Invece i testi buddhisti composti in sanscrito o in pali, annoverano traduzioni lungo tutto il corso del primo millennio della nostra era, effettuata da esperti di madrelingua cinese, tibetana ecc. più precisamente, sappiamo che i cinesi ebbero informatori indiani che dovevano a loro volta avere dimestichezza con le lingue esogene e farsi consulenti di chi andava a tradurle. Inoltre è noto che in Cina, alla corte dell’imperatore così come a Baghdad nell’VIII secolo risiedevano dei dotti indiani, matematici e astronomi, impegnati necessariamente, per insegnare, ad apprendere la lingua dei loro ospiti e interlocutori. Questi fatti ci sono noti grazie a documenti cinesi e arabi. In India, invece, non ci sono tracce di impegno a rendere accessibili agli stranieri i testi più prestigiosi con opere di traduzione. Sullo scarso interesse che gli indiani di osservanza brahmanica manifestano verso il mondo esterno rinvio agli studi di Wilhelm Halbfass, alle sue ricerche sulla “xenologia”, così egli chiama il discorso sullo straniero. Piuttosto sono stati stranieri a fornire ragguagli dei loro viaggi in India e a sforzarsi di apprendere i diversi idiomi indiani. Per lo meno, lo ripeto, mancano in India prove di sforzi compiuti in patria per padroneggiare testi non indiani. Nel teatro sanscrito non tutti i personaggi parlano la stessa lingua. I caratteri maschili di alto rango, i brahmani e gli dèi parlano sanscrito, ma le donne, persino le regine e i servi, si esprimono in varianti pracrite. La convenzione vuole che tutti si capiscano perfettamente. Ciascuno parla la propria lingua e intende le lingue degli altri. La rappresentazione di un dramma sanscrito ci mette dunque alla presenza di spiccate situazioni di poliglossia. In compenso, nelle edizioni delle opere drammatiche i passi in lingua diversa dal sanscrito sono sempre accompagnati da una versione sanscrita. In questo caso la traduzione prende il nome di “ombra”, chaya. Ma i passi sanscriti non vengono tradotti in pracrito.
La bellezza indiana
Torniamo alla dea Parola: tenendo conto di quanto ha detto sui poeti vedici, può spiegarci che cosa la attrae nel poeta e nel cultore di poesia dotta, il kavya-rasika? Per caso la bellezza è diventata, o magari è sempre stata, il filo conduttore della sua passione per l’India?
Quante domande in una domanda simile! Per quanto riguarda l’innodia vedica, ci risulta molto difficile sapere se, imparando la Sruti o recitandola, gli antichi indiani provassero un’emozione propriamente estetica, se un certo poema fosse giudicato da loro più “bello” di altri. In compenso i poeti si proclamano o si vogliono loro stessi ispirati e non smettono di chiamare “opere” i loro poemi, desiderosi che siano ben riusciti, ben torniti, fatti ad arte. E la dea Parola, che si aspettano venga a ispirarli, è invocata come una bella e giovane donna innamorata e ricca di ornamenti. Del resto, un novero di inni, un piccolo gruppo di essi viene esplicitamente designato nella tradizione vedica con il nome di silpa, “opera d’arte”.
E noi, lettori moderni? Ebbene sì, lo ammetto: per quanto mi riguarda, avverto tratti di folgorante bellezza nella poesia vedica, almeno per quanto mi è dato coglierne il senso letterale, e anche nella minima misura in cui riesco a farmi un’idea delle soronità e del ritmo. Questi tratti di bellezza non dipendono dalla sola forza e audacia delle immagini, ma da quella che definirei la sublimità del pensiero. Tuttavia, insisto, non so se l’emozione che provo io abbia qualcosa in comune con quella che si presume provassero i destinatari originali di quei poemi. Mi sembra anche che le grandi avventure poetiche del nostro tempo, da Mallarmé in poi, per prendere un punto di riferimento, ci abbiano resi più inclini ad ammirare ciò che, in passato, poteva risultare bizzarro ed assurdo (il famoso galimatias vedico).
Ed ora veniamo al kavya. È la poesia dotta dell’India classica, perfettamente consapevole dei propri mezzi, scopi e del proprio rilievo. Intorno ai suoi temi si aggrega un sapere teorico, uno sastra: si tratta di una branca importante del pensiero speculativo indiano. Il campo studi al quale mi sono consacrato, è noto, è l’India vedica. Ma mi capita a volte di farmi coraggio dedicandomi anche al kavya, soprattutto al Naisadhacarita di Sriharsa. Vi faccio spesso riferimento. Nella primavera del 2004, in una cornice davvero inattesa, l’Institute for Advanced Studies di Gerusalemme, ho partecipato ad una lunga sessione di studio sul kavya. Eravamo in una decina a concentrarci su testi assai lambiccati che celebravano la bellezza, in particolare la bellezza poetica, e sono presi a esempio di tale bellezza speciale. Emerge da testi del genere un’idea di bellezza che possiamo fare nostra? Sì, certamente: ci è dato, se così posso dire, entrare nelle ragioni di questa poesia.
Ora, per cercare di rispondere alla sua domanda, devo spendere qualche parola sul mio rapporto con l’India vivente. E dal momento che il tema di cui ci stiamo occupando è la bellezza, ce la vedo nell’India d’oggi? Lei sa che, nella mia generazione e in quelle precedenti, parecchi erano gli occidentali a trovare il paese insopportabile … Per quanto mi riguarda, non credo di avere un cuore più insensibile o un occhio meno perspicace di quelli altrui, ed è ovvio che sono costantemente indignato, disgustato dalla miseria, dalla violenza endemica, dall’umiliazione e lo sfruttamento dei deboli, dai mali atavici e dalle nuove minacce e, su un piano totalmente diverso, mi urtano il cattivo gusto moderno, la pessima e sdolcinata arte sacra, il kitsch che non riesce ad essere commovente. Ma al tempo stesso, poiché sono stato sicuramente ben guidato sin dal mio primo soggiorno in India, mi ha subito colpito la formidabile forza vitale di cui vibra l’umanità indiana. L’India di cui mi sono innamorato, me ne rendo conto adesso, è in fondo quella del film di Rossellini. La bellezza indiana che sorge ad ogni istante come un’apparizione, nei profili, negli sguardi, nei gesti, nella fugace disposizione degli oggetti, negli accostamenti dei colori. Il modo in cui le vacche si adagiano sui gradini di un tempio, le sparse chiazze di giungla nella foresta di Bhimbedka, nel cuore del Madhya Pradesh … E lei ha osservato, come me, che gli indiani approfittano di ogni occasione festiva per trasformare ciò che li circonda in qualcosa di bello. E così una vacca, immagine di quell’essere divino e femminile che è la parola, diventa una superficie da dipingere.
tratto da “Femminilità della Parola – Miti e simboli dell’India”
di Charles Malamoud Ed. La parola