Sono molti gli argomenti spinosi sui quali un magistrato impegnato nella lotta alla criminalità organizzata è spesso costretto a intervenire. Tra i temi cruciali c’è senz’altro quello delle intercettazioni. Sulla stampa, in proposito, sono rimbalzate molte mie dichiarazioni allarmate, soprattutto quelle rilasciate in occasione della presentazione del mio libro C’era una volta l’intercettazione. Mi sono più volte indignato di fronte allo sfregio di verità che si è fatto negli ultimi anni polemizzando su questa materia. Rovesciare la realtà per nascondere i fatti è gravemente irresponsabile nei confronti dei cittadini. E in questi casi è compito del magistrato segnalare i rischi cui vanno incontro lo Stato di diritto e la democrazia del nostro Paese. Ebbene, i molti disegni di legge presentati sull’argomento negli ultimi anni, trasversali ai vari schieramenti politici, sono sintomo di una classe dirigente che non si rassegna al principio di uguaglianza e di responsabilità garantiti dalla Costituzione. Nel 2009, ad esempio, mi sembrò grave il ddl Alfano che contemplava il divieto di intercettazioni per alcune categorie di reati. Lo trovai grave benché il ministro ribadisse che il divieto non valeva per i reati di mafia. E questo perché so bene che le indagini per mafia sui colletti bianchi, sui politici e gli uomini d’affari, di solito non iniziano con intercettazioni per reati di mafia; alla mafia si arriva dopo, attraverso intercettazioni su altri reati, i cosiddetti “reati satellite”. Ho anche criticato il progetto di togliere ai pm l’iniziativa penale e lasciarla alla polizia giudiziaria: i processi Andreotti, Contrada, Mannino, Dell’Utri sono tutti nati su iniziativa dei pm, e grazie alle indagini della polizia giudiziaria. Poi, nel 2010, lanciai nuovi allarmi sui rischi del ddl Alfano, soprattutto riferendomi al limite della durata delle intercettazioni: per le indagini sulla criminalità organizzata, così come per la cattura di importanti latitanti, occorrono infatti molta pazienza e molto tempo. Spiegati i motivi della mia preoccupazione, legata al fatto che la “controriforma” progettata dal governo non cadeva, a mio avviso, come un fulmine a ciel sereno, ma faceva parte di un lucido disegno tendente a ridisegnare l’architettura costituzionale del Paese, eliminando i poteri di controllo che sono competenza della magistratura. Perché ho scritto addirittura un libro su questo tema? Non solo perché sono un pubblico ministero “affezionato” a questo tipo di strumento investigativo, visto che ne conosco l’immensa utilità, ma anche per l’indignazione che provo nei confronti delle “bufale della politica”. Si, dalla postazione palermitana vivo con preoccupazione il fatto che lo spazio dell’informazione sia sempre meno plurale e sempre più ristretto, per il fatto che ai cittadini arrivino sempre più opinioni e sempre meno fatti. Sicché sono veramente tanti i luoghi comuni che è necessario smascherare. In primis quello secondo il quale tutti gli italiani, o la stragrande maggioranza, sono intercettati. Se contiamo il numero dei decreti di intercettazione, ci sono infatti al massimo ventimila persone intercettate ogni anno. Molto meno dell’uno per mille della popolazione. Con questa restrizione degli spazi informativi va a finire che si parla di cose importanti senza sapere che si prendono decisioni gravi sull’onda di un dibattito truccato, se non dalla mala fede, da un dilettantismo irresponsabile. Io stesso d’altronde, sono vivo, potrei dire, proprio grazie a una disciplina sensata delle intercettazioni. L’arresto, a qualche centinaio di metri dalla mia casa di campagna, del boss latitante di Altofonte di cui ho parlato nel capitolo precedente, Domenico Raccuglia, ha impedito che venisse portato a compimento l’attentato contro di me da lui organizzato. L’ho scampata, ma sarebbe forse andata diversamente se fosse stato nel frattempo approvato il disegno di legge di riforma partorito dal governo Berlusconi. L’ho scampata grazie a una telecamera. Oggi l’installazione di una telecamera in un luogo pubblico viene autorizzata dal pubblico ministero per esigenze investigative; con il disegno di legge Alfano, invece, ci sarebbero voluti gli stessi gravi indizi di reato previsti per le intercettazioni ambientali e telefoniche. Ma come si fa ad avere la certezza che dentro un casolare ci sia un latitante se non si piazza una telecamera che controlla chi entra e chi esce? Palermo un tempo, all’epoca delle stragi, era come un grande microfono. Con il ddl Alfano per infilare una cimice in un’automobile sarebbe occorsa la prova dello svolgimento in quel luogo di un’attività criminale. E come si fa concretamente a dimostrare che vi è in corso un’attività criminale dentro un’auto se all’interno della stessa non è stato prima piazzato un microfono? E di fronte a queste assurdità io non avrei dovuto parlare?
Anche alcune mie dichiarazioni sull’attenzione altalenante dello Stato nei confronti della mafia hanno scatenato polemiche. Non ho mai nascosto la mia profonda convinzione che dopo le stragi si sia progressivamente e notevolmente abbassata la guardia. Ricordo di averlo denunciato anche in un’intervista a Lamberto Sposini per il Tg5, nel 2001. L’allentamento della strategia d’attacco di Cosa Nostra ha fatto illudere probabilmente che il problema fosse stato risolto con la cattura di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, insomma tutti i più famosi boss. Da quel momento la questione mafia è andata in coda all’agenda politica delle priorità nazionali, mentre prima era in testa. La legislazione antimafia è diventata meno efficace, gli strumenti a disposizione dei magistrati e delle forze dell’ordine meno efficienti. Nonostante ciò, a maggior merito delle forze dell’ordine, si sono realizzati risultati importantissimi soprattutto sul fronte della cattura dei latitanti. Sappiamo però, in primo luogo, che Cosa Nostra non può fare a meno di un rapporto con la società esterna e quindi anche con il mondo della politica. In secondo luogo, che Cosa Nostra ha adottato negli ultimi anni una strategia più morbida, rinunciando appunto agli attacchi diretti allo Stato. Meno contrapposizione e più ricerca di contrattazione per una tregua. E in questa tregua possono entrare anche patti inconfessabili. Niente di nuovo da parte della mafia, un ciclo storico che si ripete. È grave però che lo Stato, invece di mantenere continuità nell’azione di contrasto, si adegui ai cicli mafiosi, producendo una reazione massima quando la mafia mette le bombe, ma poi effettuando una sorta di ritirata quando essa accorda la tregua.Il 2001, tra l’altro, fu anche l’anno in cui il ministro Pietro Lunardi affermò pubblicamente che “con mafia e camorra bisogna convivere”, per poi correggersi poche ore dopo bollando le sue parole come battuta “forse imprecisa o infelice”. A me, a dir la verità, quelle parole sembrarono messaggi rassicuranti per i boss latitanti e in carcere. Da magistrato che si occupa di indagini di mafia non potevo che essere allarmato da una simile dichiarazione pubblica da parte di un rappresentante del governo. Affermazioni rese gravissime dal fatto che proprio lo spirito di convivenza con la mafia ha consentito a Cosa Nostra di essere per decenni l’organizzazione criminale più pericolosa in Italia, al punto di trasformarsi in una macchina da guerra, in un vero e proprio potere criminale che costantemente ha cercato (e regolarmente trovato) i rapporti con la politica e con le istituzioni.
Ma c’è un altro problema che è tornato spesso, negli anni, nel dibattito politico-istituzionale con la stessa virulenza, diciamo così, dilettantesca. Mi riferisco alla questione dei pentiti. Nel 1997 esplose una polemica sulla riforma dell’articolo 513 del Codice di procedura penale. La riforma prevedeva la validità delle sole accuse ripetute in aula: le dichiarazioni rilasciate ai pm in fase istruttoria sarebbero state nulle se non confermate nel corso del dibattimento processuale. È ancora la vecchia storia, pensai; sui temi dell’antimafia c’è sempre grande disattenzione da parte della politica. Il rischio era chiaro ed enorme: che si potesse intimidire in vista del dibattimento il testimone scomodo. La soluzione tecnica c’era ed era perfetta: bastava ispirarsi al modello americano, salvaguardando da un lato il diritto al controinterrogatorio, dall’altro le esigenze di tutelare la collettività dal pericolo della mafia. Bisognava equiparare l’imputato di reato connesso, il pentito al testimone, privandolo della facoltà di non rispondere al dibattimento. Così facendo, una ritrattazione o una versione diversa da quella resa in istruttoria diventava oggetto di valutazione da parte del giudice terzo. Più efficace di così … invece si volle seguire un’altra strada. Perché non lo so, non riesco ancora a spiegarmelo. In quegli anni io e Gian Carlo Caselli denunciammo spesso la necessità di riformare la legge sui pentiti. Come possono godere dello stesso trattamento un piccolo spacciatore o un grande boss che collaborano con la giustizia e i semplici testimoni di mafia, come le vittime delle estorsioni? Il collaboratore di grossa caratura criminale deve essere meglio protetto perché corre più rischi, ma deve anche essere meglio controllato. Negli Stati Uniti si usa un braccialetto elettronico che viene incollato al braccio di chi si trova agli arresti domiciliari. Se costui esce di casa, scatta il segnale alle forze dell’ordine. Con Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale a Caltanissetta, appoggiammo l’uso di questo strumento. Per i pentiti in libertà invece sarebbe bastato imporre l’obbligo di segnalare i propri spostamenti all’autorità di polizia. In quel periodo scoppiò il caso di Balduccio Di Maggio, l’ex autista di Totò Riina, “pentito assassino”, organizzatore di trame di vendetta dal suo rifugio segreto. Si ripropose lo spinoso problema dei collaboratori di giustizia. Spiegai che la materia, a mio avviso, andava regolata in modo più efficiente. Ma la nuova disciplina governativa andò nella direzione opposta a quella auspicata: nel disegno di legge fu previsto anche un termine di sei mesi entro il quale il pentito doveva dire tutto quello che sapeva. Un termine troppo breve. E poi, in ogni caso, stabilite un termine in generale può essere comunque pericoloso. Si rischia di perdere informazioni importanti. Il tema comunque si presta a molte argomentazioni pretestuose. Non si possono scarcerare immediatamente i collaboratori di giustizia responsabili di reati di sangue, questo è vero, è giusto che subiscano una parte della pena. Ma è anche vero che lo Stato deve dare degli incentivi: il “pentito” collabora ma in cambio vuole la libertà, il bene più alto. Se si chiudono questi spiragli e si decide che i collaboratori non debbano più ottenere la libertà, non parlerà più nessuno tra loro. Ho subito diversi attacchi per aver sempre mantenuto una linea coerente su una materia così “sensibile”. Ricordo che nel 2010 l’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sconfessò il senatore Pdl Giuseppe Valentino e il suo disegno di legge sui pentiti di mafia che mirava a rendere le rivelazioni dei testimoni e dei collaboratori di giustizia inutilizzabili in assenza di specifici riscontri esterni. Dissi allora che la norma avrebbe avuto effetti devastanti sulle inchieste e sui processi in corso, che con una legge così Falcone e Borsellino non avrebbero potuto fare il maxiprocesso. La definii la “pietra tombale” dei processi di mafia. Il promotore della legge, un avvocato, per tutta risposta, bollò nettamente le mie critiche come “stupidaggini”. Ma alla fine il progetto di legge non passò.
Purtroppo, o per fortuna, la trincea palermitana mi consente di avvertire con più precisione e in tempo reale i rischi di determinate decisioni e di metterli in relazione con quel che accade nel mondo di Cosa Nostra. Così all’inizio del 2011 tornai a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla ricerca della verità sulle stragi. Verso la metà degli anni Novanta, infatti, al culmine della stagione dei cosiddetti “nuovi pentiti”, si erano aperti degli squarci di verità. Però, dopo un momento di grande tensione e passi in avanti nelle indagini, c’erano state delle battute di arresto. Era cambiato il clima nel Paese, e in particolare era stata approvata la già ricordata nuova legge sui pentiti. Una legge che di fatto ha imbavagliato i pentiti, svolgendo un ruolo quasi intimidatorio nei loro confronti, tanto da ridurre drasticamente il numero. È da quel momento che è passato il messaggio che fare rivelazioni su certi temi, come quello delle complicità nella stagione delle stragi o del rapporto mafia-politica, può essere pericoloso. Ecco, siccome in questi ultimi due anni si sono fatti dei passi avanti proprio su questa strada, non vorrei che di nuovo ci fossero delle battute d’arresto. Non è dunque per spirito di polemica che vado ripetendo l’appello a tenere alta l’attenzione. Il rischio che alcuni pezzi delle istituzioni non vogliano fare luce sugli attentati del ’92 – ’93 è forte e comprensibile. Pezzi delle istituzioni di allora ancora presenti nelle istituzioni di oggi: che, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, faranno di tutto perché ci si fermi nell’anticamera della verità.
Ma non posso tralasciare un altro aspetto che mi sta molto a cuore del modo in cui si fa la lotta alla mafia. E riguarda un ambito un po’ diverso da quelli di cui ho parlato finora. Mi riferisco alla cultura, al ruolo che essa può assumere nel prestare il fianco o, al contrario, nel combattere il potere mafioso, nell’intaccarne l’aura di prestigio. In diverse occasioni ho espresso le mie perplessità su alcune fiction, tra cui Il capo dei capi. Il rischio che si corre è di creare iconografie sbagliate dei mafiosi. In una scuola del palermitano chiesi ai ragazzi se avessero visto la serie tv: l’avevano vista tutti. Quindi ho domandato loro quale fosse il personaggio più simpatico. Risposero: Totò Riina. Erano, si noti, gli stessi studenti che avevano partecipato a un sondaggio in cui dicevano di non voler far parte della mafia. In uno speciale di Duellanti (rivista di approfondimento sul cinema, ndc) sul rapporto tra film, fiction e mafia affrontai ancora questo tema, che, da magistrato cinefilo, mi sta davvero a cuore. Non va sottovalutato infatti l’impatto che certe rappresentazioni possono avere sul lavoro di chi fa la lotta alla mafia. È accaduto, accade e accadrà che certe rappresentazioni per propagare, spesso al di là delle migliori intenzioni, il fascino sinistro dell’eroe del male. E dunque in quell’occasione, facendo riferimento ancora a Il capo dei capi, dissi che veicolava un’idea dell’eternità della mafia, difficile da vincere in una terra incline al fatalismo come la Sicilia. Al contrario, altri film (Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, quelli di Damiano Damiani e di Elio Petri) e altre fiction (come l’americana The Sopranos) sanno descrivere il fenomeno in tutta la sua complessità senza cedere a facili ammiccamenti. Film come Gomorra e Il Divo sono la prova che si può raccontare la mafia con una narrazione della realtà che rovesci gli stereotipi. Raccontare, cioè, i retroscena del potere mafioso piuttosto che la sua dimensione folcloristica.
Al centro delle mie piccole o grandi polemiche mediatiche ce n’è però una di cui non ho ancora detto. Si tratta di una polemica che mi accompagna da sempre, forse la più importante. Non c’è, io credo, peggior insulto che si possa rivolgere a un magistrato che quello di non essere imparziale per ragioni politiche; o di fare politica con i suoi provvedimenti. Ecco, molti giornalisti hanno dato voce a questo tipo di critica e non solo nei miei confronti. L’accusa di fare politica è stata il refrain di una campagna mediatica di linciaggio da parte di Vittorio Sgarbi nei confronti dei pm della Procura di Palermo e del pool di Gian Carlo Caselli: un attacco mediatico che in realtà aveva come obiettivo le loro inchieste e i risultati di quelle inchieste. C’è un limite entro il quale si può parlare di legittima critica politica, ma al di là del quale si entra nella diffamazione. La Cassazione, ritenuto che il limite fosse stato valicato, ha sentenziato che definire “politico” un provvedimento della magistratura è reato. Ma la polemica era destinata a proseguire. Piero Ostellino, sul Corriere della Sera, definì “politica” la sentenza della Cassazione, poiché suonava come una difesa corporativa; azzardò addirittura un paragone col fascismo che, per non danneggiare la magistratura ordinaria, aveva istituito i Tribunali speciali per i reati d’opinione. Successivamente,, sempre dalle colonne del Corriere, Pierluigi Battista criticò la partecipazione mia e di Roberto Scarpinato a un forum di presentazione del quotidiano Il Fatto, obiettando che, dopo un episodio simile, sarebbe stato impossibile negare il diritto del presidente del Consiglio Berlusconi di considerare me e Scarpinato come avversari politici. Battista esprimeva perplessità sul fatto che due magistrati portassero il proprio “contributo alla fondazione di quel giornale così politicamente e culturalmente connotato”. Ma la sua critica si fondava su un presupposto erroneo. Noi non abbiamo affatto portato il nostro contributo alla fondazione di quel giornale ma, essendoci stata proposta una collaborazione sui temi della giustizia e della lotta alla mafia, abbiamo aderito all’invito ad assistere al forum per poter conoscere preventivamente la linea editoriale di un nuovo giornale, che veniva in tale occasione esposta pubblicamente per la prima volta.
Ma quella del “magistrato che fa politica” non è l’unica accusa professionale che mi è stata indirizzata. C’è anche la questione della partecipazione a confronti pubblici. Vincenzo Carbone, allora primo presidente della Corte di Cassazione, nel 2010 invitò le toghe a evitare i processi mediatici. Più e più volte sono stato criticato per i miei interventi in video e, come sempre, anche in quella circostanza ho invitato a distinguere tra apparizione in tv e partecipazione a processi mediatici. Se si tratta di presenziare a dibattiti sui problemi della giustizia, sono favorevole. I cittadini devono poter sentire il punto di vista tecnico dei magistrati e farsi un’opinione. D’altro canto, riconosco che le sovraesposizioni mediatiche non fanno bene alla giustizia. Ma c’è anche chi quotidianamente attacca e denigra i magistrati anche questo, io credo, non fa bene alla giustizia. Ricordo ancora la bufera che si scatenò sui giornali nel ’99, dopo la sentenza su Andreotti. L’atmosfera alla Procura di Palermo era carica di tensione. Per noi quell’esito fu sorprendente e inatteso. Ma ciò che personalmente mi fece più male fu il clima unanime con cui fu accolta la sentenza più che la decisione in sé. Rappresentando l’accusa nel processo a Dell’Utri ero anche preoccupato per i tentativi di strumentalizzazione finalizzati a travolgere tutto e tutti. Furono messi sotto dura accusa i pm del processo e in particolare Caselli, ex capo dell’ufficio. Pensai che quando Giovanni Falcone venne messo in discussione, additato come magistrato che voleva costituire un centro di potere nel pool antimafia, si erano dimenticati dei risultati ottenuti appena qualche anno prima con il maxiprocesso. Provavo amarezza perché la storia si ripeteva nonostante Falcone e Borsellino non ci fossero più. Lessi una sorta di diffidenza generalizzata nei confronti di ogni iniziativa dei magistrati che non riguardasse soltanto i mafiosi con la coppola. Capii che questo è il prezzo da pagare quando si scopre una società intrisa di illegalità, dove condizionamenti, compiacenze, alleanze e complicità si realizzano a tutti i livelli, anche nella borghesia dei salotti buoni. Ma un magistrato ha il dovere di garantire ai cittadini un buono stato di salute della giustizia, di vegliare su di esso. Anche per questo nel marzo 2011 sono sceso in piazza in difesa della Costituzione. E ho parlato della riforma della giustizia del governo Berlusconi come di una “controriforma”. La posta in gioco d’altronde era molto alta: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Tutti i paesi e i contrappesi previsti dalla Costituzione sono funzionali a quell’equilibrio tra i poteri che assicura appunto il principio di uguaglianza davanti alla legge. Ma se il potere giudiziario viene schiacciato e controllato dal potere politico allora il gioco è fatto, i cittadini non saranno più eguali di fronte alla legge e addirittura davanti alla Costituzione. In quell’occasione, Giuliano Ferrara mi accusò di fare comizi, invocando addirittura un intervento del capo dello Stato, in quanto presidente del CSM. Per quel gesto ho ricevuto attacchi e denigrazioni di ogni tipo. Ma ho risposto spiegando che, nel rispetto del potere legislativo, un magistrato può ben esprimere il suo punto di vista tecnico su scelte che rischiano di essere uno strappo rispetto ai principi dell’assetto costituzionale della giustizia e ai diritti fondamentali dei cittadini. E che gli italiani sono spesso vittime di una disinformazione massiccia. La stessa che dovette subire, con relativi attacchi, Paolo Borsellino quando nel 1988 fece una denuncia pubblica sul calo di tensione nella lotta alla mafia. Era una denuncia che investiva contemporaneamente la politica e la magistratura. Ma la reazione alla sua denuncia non avvenne sui contenuti che Borsellino esprimeva, bensì fu indirizzata direttamente contro la sua persona. >Ecco, oggi vedo la stessa intolleranza. Con uno spiegamento di uomini e mezzi molto più massiccio. Il Giornale ha scritto in occasione del “C-day” che gettavo la maschera attaccando il governo in piazza e che mi sarei dovuto dimettere. Eppure quella non era nemmeno una manifestazione politica o di partito, ma solo un’iniziativa in difesa della Costituzione. Non vedo nulla di strano nel fatto che un magistrato dica la sua su un progetto di riforma costituzionale della giustizia. Ricordo che il presidente dell’ANM aveva invitato un messaggio d’adesione all’evento, eppure le critiche pesanti sono arrivate solo dopo il mio intervento, nel quale ho ripetuto gli stessi concetti degli altri esponenti dell’ANM. Rivendico insomma il diritto alla libertà di espressione, e davanti a riforme che riguardano la giustizia quel diritto è un dovere. Mancherei a questo dovere se tacessi. E aggiungo che mi piacerebbe se io e altri colleghi messi nel mirino solo perché esprimiamo opinioni potessimo avere un diritto di replica agli attacchi che spesso riceviamo da alcune reti televisive. Non voglio pensare che in questi attacchi ci sia in realtà un collegamento con le indagini e i processi di cui mi sto occupando, però il dubbio è quantomeno lecito.
A questo punto si sarà capito. Sì, ho il “pallino” della Costituzione. Così a fine ottobre del 2011 sono tornato a difenderla. L’ho fatto dal palco del congresso del Partito dei Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto, ex ministro della Giustizia. Perché tornare a parlare di questo argomento? Perché tornare a schierarmi rischiando attacchi e offese, che puntualmente sono poi arrivati? Perché la mia prima preoccupazione è quella di difendere la Carta suprema, anche a costo di essere investito da polemiche. Io so da che parte stare ogni qual volta vedo qualcuno che vuole distruggere la nostra Costituzione. Siamo da tempo in una fase estremamente critica. Che fare? I magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste. È vero, un magistrato dev’essere imparziale quando esercita le sue funzioni. Ed è vero che non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è. Ma io lo confesso: sotto un certo e grande profilo non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’ANPI, ma soprattutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare. Su queste parole si è scatenata la bufera, su più fronti. Nuovi accusatori, con le accuse di sempre. Dalla maggioranza politica del tempo, di fare “comizi politici”, o addirittura di voler preparare un mio “ingresso in politica”. Dalle colonne de il Giornale Alessandro Sallusti ha tuonato che “Ingroia andrebbe allontanato dalla magistratura, da subito” e ha spiegato, cito quasi a memoria essendo la vicenda molto recente, che una tale ammissione da parte mia – quella appunto di non essere imparziale in quanto partigiano della Costituzione – fa sì che qualsiasi cittadino elettore di centrodestra che capitasse in una mia inchiesta potrebbe e dovrebbe ricusarmi per dichiarata imparzialità. È accaduto quello che temevo, o meglio, che mi aspettavo che accadesse. In questo, come in altri casi, il tema centrale, meritevole di confronto, era il rapporto tra un magistrato e la Costituzione del suo Paese, soprattutto quando questa Costituzione sia posta continuamente sotto assedio. Invece il tema è diventato un altro: chi lo ha detto? Il pm che si occupa anche di indagini su mafia e politica. E dove lo ha detto? Al congresso di un partito. Al direttore di Libero Maurizio Belpietro ho spiegato che, se m’invitassero, io andrei a un dibattito del Pdl a ribadire esattamente lo stesso pensiero. Ma non mi invitano. Temo seriamente, lo ripeto, che si stia andando verso un riassetto dell’architettura istituzionale del nostro Paese, con l’obiettivo di mortificare la separazione dei poteri e concentrare i poteri nel governo. E allora dico che io sì, mi sento imparziale nell’amministrare la giustizia e sfido chiunque a provare che non lo sia stato o non lo sia ora. Ma, sui principi di fondo di una democrazia, non debbo né posso essere neutrale. Nel senso che ho delle opinioni cui far riferimento che non sono né ideologiche né politiche, ma costituzionali. E sono quei valori consacrati dalla Carta su cui ho solennemente giurato. Giurato, lo sottolineo. In difesa di questi valori mi schiero e sempre mi schiererò. Ecco, in questo senso sono e sempre sarò fieramente partigiano.
tratto da “Palermo”, di Antonio Ingroia – Editore Melampo (2012)
Libri consigliati dello stesso autore:
Nel labirinto degli dèi. Storie di mafia e di antimafia – Editore Il Saggiatore, maggio 2012
Altri Libri consigliati:
Giovanni Falcone/Marcelle Padovani Cose di Cosa Nostra – Editore Rizzoli Lo Bianco/Rizza – Antonio Ingroia. Io So – Editore Chiarelettere, novembre 2012
Luigi Ferrajoli – La sovranità nel mondo moderno – Ed. Laterza 2004
Luigi Ferrajoli – Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale – Ed. Laterza 2008
Luigi Ferrajoli – Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia vol. I, II e III – Ed. Laterza
Piero Mantero La Faccia Nascosta della Storia – Segno Edizioni
Marco Pizzuti Rivoluzione non autorizzata – Ed. Il Punto d’Incontro
Daniel Estulin L’Impero Invisibile – Editore Castelvecchi
Daniel Estulin L’Istituto Tavistock - Arianna Editrice
Tzvetan Todorov I nemici intimi della democrazia – Edizioni Garzanti
Stefano Zamagni Per una economia a misura di persona – Edizione Città Nuova
Stefano Zamagni Economia ed etica. La crisi e la sfida dell’economia civile – Ed. Città Nuova
Stefano Zamagni Avarizia. La passione dell’avere. I 7 vizi capitali – Editore Il Mulino 2009
Maurizio Viroli La Libertà dei servi - Editore Laterza
Ferdinando Imposimato La repubblica delle stragi impunite - Newton Compton Editori 2012