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337. Antonio Ingroia. IO SO di G. Lo Bianco e S. Rizza

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Di seguito presentiamo degli stralci del libro “Antonio Ingroia. Io So” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, di Chiarelettere Editore.

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Sinossi del libro. “Ai lettori dico di non fidarsi delle ricostruzioni distorte delle indagini sulla trattativa. Sarà un processo foriero di tensioni: guardate ai fatti, non alle versioni delle parti in causa. E lo stesso chiedo ai giornalisti. Una parte del paese non vuole la verità sulle stragi, e mi stupirei del contrario: non la voleva vent’anni fa, non la vuole adesso.” “C’è una verità indicibile nelle stanze del potere, un potere non conoscibile dai cittadini che si nasconde, che si sottrae a ogni forma di controllo. La ragion di Stato rischia di diventare un ombrello difensivo sotto il quale proteggere la parte oscura del potere, il suo volto osceno, e la storia occulta dei patti inconfessabili, compreso quello tra Stato e mafia.” Le stragi e le bombe del ‘92-93, la nascita della Seconda Repubblica, la corruzione come sistema, l’attacco alla Costituzione e alla magistratura, la debolezza della sinistra, le indagini sulla trattativa, il conflitto con il Quirinale. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto della Procura di Palermo, racconta vent’anni di berlusconismo e la difficoltà di ricostruire la verità sui rapporti tra mafia e Stato.

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Le stragi

Sono passati vent’anni dall’orrore delle stragi del ’92. A un ragazzo nato in quell’anno, come spiegherebbe quello che è successo allora e che ha condizionato questo ventennio? Perché, come lei ama spesso dire, “la Seconda Repubblica fonda i suoi pilastri sul sangue dei servitori dello Stato”?

Partirei dal significato che ha assunto negli anni l’espressione “lotta alla mafia” inserita in un contesto culturale di riferimento. La cultura istituzionale italiana è stata per secoli di tolleranza e legittimazione della mafia, sia a livello periferico che centrale. Non è un caso che la storia del confronto mafia-Stato sia stata ipocritamente raccontata come una storia di guerra, mentre in realtà dietro le quinte è sempre stata una storia di convivenza. È stata una cultura per decenni largamente dominante e supinamente accettata all’interno di varie articolazioni istituzionali: politica, magistratura, chiesa, forze di polizia, apparati burocratici-statali.

La convivenza con Cosa nostra, insomma, l’abbiamo nel nostro Dna culturale e sociale. Qualche esempio?

Possiamo dire, facendo un passo indietro nella storia, che veniamo da una realtà nella quale in Sicilia i capimafia erano le autorità riconosciute. In ogni piccolo centro siciliano c’era il sindaco, il pretore, il parroco, il comandante dei carabinieri e poi c’era l’autorità extraistituzionale: il capomafia. L’anomalia del piccolo centro rappresentava il microcosmo di una realtà molto più estesa. Questo ha avuto un riflesso nella cultura del paese. I testi di diritto sui quali ho studiato dibattevano se la mafia era un’associazione criminale o tutt’al più un’associazione immorale. Questo tipo di cultura giuridica ha svolto un ruolo egemonico nel panorama nazionale. Pian piano, è cresciuta nel paese una consapevolezza collettiva, anche se per un certo periodo il cambiamento ha giustificato la tolleranza del passato, raccontando di una vecchia mafia buona e di una nuova mafia cattiva. Anche all’interno delle élite politico-istituzionali del paese si è registrato un processo evolutivo. In questo processo un settore della magistratura di Palermo è stato un passo avanti, e per ciò ha pagato duramente. Falcone e Borsellino, non lo dobbiamo mai dimenticare, erano isolati dentro il Palazzo di giustizia di Palermo. Solo recentemente quella cultura ha contagiato le parti più sensibili della società siciliana e nazionale. Tuttavia, non è mai stato cancellato quell’altro tipo di atteggiamento inclusivo di uno spirito di convivenza con la mafia. Diciamo che le istituzioni spesso hanno fatto antimafia sostenendo una fazione della mafia contro un’altra. È il principio della trattativa. Ma è solo negli ultimi tempi che alcune sorprendenti novità investigative hanno messo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica un tema rimasto per anni colpevolmente sfocato. È bene essere consapevoli, infatti, che non si tratta di una novità dell’ultima ora. Che dire, ad esempio, dell’uso massiccio della trattativa in passato? Che dire della strumentalizzazione che il neonato Stato unitario fece del potere mafioso sul territorio per frenare le spinte filo borboniche e antiunitarie? E non fu forse frutto di trattative il patto di non belligeranza, reciproco sostegno e copertura, in virtù del quale i gabellotti mafiosi mantennero il loro potere sul territorio?

Questa è la premessa. Da dove partiamo per raccontare la stagione stragista?

Da una considerazione certa: le stragi siciliane sono la risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, ha messo in crisi l’impunità dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dell’organizzazione criminale mafiosa. Il programma stragista nasce dalla necessità per i boss di ristrutturare totalmente il rapporto con la politica. Questo scontro ha portato il paese a un capovolgimento politico e istituzionale. Due sono le frasi chiave che ci fanno capire cosa i capi di Cosa nostra avrebbero voluto che accadesse (e in buona parte accadde). Una è quella di Totò Riina, che spiega ai suoi soldati: “Dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace”. L’altra è del boss Leoluca Bagarella: In futuro non dobbiamo più correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle”. Le stragi sono la premessa necessaria, il secondo passo è la ristrutturazione del rapporto dialettico con la politica. Bagarella all’inizio pensa di rifondare il rapporto con la politica tramite il progetto separatista di “Sicilia libera”, un movimento che è diretta espressione della mafia, per conquistare un più immediato controllo della politica da parte di Cosa nostra. Ma il progetto risulta troppo elementare e rozzo, e quindi fallisce.

Al ’93 arriveremo dopo. Qual è, secondo lei, l’effetto più dirompente nella vita democratica italiana del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica a suon di bombe?

Salta in generale il ruolo di mediazione della politica. Gli interessi privati irrompono e strumentalizzano la politica. Scompare il politico di professione. I nuovi volti che affollano il parlamento sono professionisti prestati alla politica, uomini d’affari che portano nel mondo della politica i loro interessi personali e quelli dei loro clienti, e infine politici di seconda o terza fila, sorta di prestanome nell’interesse altrui. Mentre nella Prima Repubblica nella relazione tra mafia e politica prevaleva il “modello Lima”, nella Seconda Repubblica il “modello Ciancimino” diventa vincente.è il modello mafioso direttamente protagonista della politica. In questo senso, don Vito è stato l’assoluto precursore di una sorta di modernità politico-criminale. Quello che credo sia avvenuto è che gli interessi mafiosi si sono realizzati per l’intrusione diretta nel mondo della politica.

Lei sostiene, insomma, che il passaggio politico-istituzionale che si snoda attraverso le stragi apre la strada alla Seconda Repubblica e rafforza Cosa nostra, in direzione di una “legalizzazione” degli interessi criminali passata attraverso l’azzeramento della vecchia classe politica. Ma com’è potuto accadere questo, in un paese che ha appena assistito al martirio di Falcone e Borsellino, immolati sull’altare della legalità?

Nel piano criminale di quella stagione non c’è una progressione predeterminata, almeno da parte di Cosa nostra. C’è, al contrario, la capacità di adattarsi, momento dopo momento, agli eventi. E per rispondere compiutamente alla vostra domanda bisogna mettere a fuoco il ruolo di Marcello Dell’Utri. La trovata più importante è quella di Dell’Utri. L’uomo che per anni è stato il portatore degli interessi finanziari della mafia nel Nord Italia diventa anche il portatore degli interessi politici di Cosa nostra: è lui l’artefice principale dell’idea e della creazione del nuovo soggetto politico, Forza Italia. Come si è sufficientemente accertato (e questa è stata l’impostazione della Procura di Palermo nella requisitoria del processo Dell’Utri), Forza Italia è un partito nato anche da un’ispirazione di favore rispetto agli interessi di Cosa nostra. Da quel momento cambia tutto. È la nascita della Seconda Repubblica, nella quale l’elemento principale del ventennio berlusconiano è la scomparsa della politica. Ma tutto inizia nell’87.

Il Sistema Criminale

Alla luce di tutto quello che è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, la vostra indagine denominata “Sistemi criminali” (poi conclusasi con un’archiviazione) che individuava tra i mandanti occulti delle stragi un’intelligenza collettiva, una lobby criminale non mafiosa e facente parte della classe dirigente del paese, è ancora attuale?

Si, direi di sì. Quell’indagine è stata la cornice investigativa dentro la quale si sono incastonati poi tanti frammenti di ulteriori indagini, che hanno acquisito maggiore spessore probatorio e maggiore concretezza, trasformandosi in processi. Quell’indagine voleva far luce su un arco temporale che partiva dalla seconda metà degli anni Ottanta e arrivava sin quasi alla fine degli anni Novanta, attraversando il prima, il durante e il dopo della stagione stragista. Alcuni dei procedimenti penali che hanno per oggetto le strategie politico-criminali di Cosa nostra e dei suoi alleati sono nati da quell’indagine. Il processo Dell’Utri non si potrebbe capire se non inserito nella storia più ampia tracciata nell’indagine “Sistemi criminali”. L’inchiesta sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina o quella sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano sono tutti frammenti che in realtà erano già dentro le risultanze di “Sistemi criminali”. Era un’indagine molto ambiziosa, che spingeva fino al limite le potenzialità dello strumento della giurisdizione penale, e forse anche per questo non siamo riusciti ad arrivare sino in fondo con un processo. Occorreva trovare prove concrete nei confronti di persone determinate rispetto a reati specifici e non ci siamo riusciti. Ma le strategie, le relazioni, i protagonisti di quell’indagine poi ce li siamo ritrovati negli anni successivi persino in indagini di altre autorità giudiziarie, in altri contesti investigativi, ad altre latitudini. Le versioni odierne delle varie P3 e P4, e “cricche” annesse, stavano già in quel coacervo di relazioni illecite individuate da “Sistemi criminali”. Il che dimostra – e lo dico senza presunzione – che noi avevamo già individuato con un po’ di anticipo quel passaggio in cui sistemi criminali diversi si sono saldati e integrati per raggiungere obiettivi comuni.

Chi c’è in questa lobby criminale che alla fine non è mai stata raggiunta da alcun provvedimento giudiziario? E che ruolo ha avuto nello stragismo? Ha diretto o affiancato Cosa nostra nel piano stragista?

La nostra indagine aveva individuato un sistema criminale non mafioso, costituito da vari settori della classe dirigente del paese: massoneria deviata, finanza criminale, destra eversiva e frange dei servizi segreti. Una lobby sotterranea che faceva capo a Licio Gelli, il Gran Maestro della P2. Che ruolo aveva questa lobby? Prima di rispondere, voglio dire che ogni schematismo è lontano dalla realtà. Come già a suo tempo Falcone, non sono mai stato convinto dell’ipotesi di terzi, quarti o quinti livelli, e dell’esistenza di un rapporto gerarchico tra organizzazione militare e livelli superiori. La grande intuizione di quella indagine era data dalla capacità di vedere per la prima volta la coesistenza di tanti sistemi criminali dentro un Sistema criminale complesso. Nel senso che ci sono varie organizzazioni, con professionalità e competenze diverse, dentro lo stesso contesto nel quale Cosa nostra, ovvero la mafia militare, ha le sue strategie, le sue finalità. Quando Cosa nostra avverte il bisogno di ristrutturare il rapporto con la politica, la stessa esigenza è sentita all’interno di quel mondo (massoneria, finanza e imprenditoria criminale, destra eversiva) non necessariamente mafioso. A quel punto si crea una convergenza di interessi tra questi sistemi di illegalità che si ritrovano ad avere il medesimo obiettivo: rifondare il rapporto con la politica, rifondare la politica. Si crea un’interazione, una sinergia che alla fine funziona alla perfezione. E qui il ruolo fondamentale ce l’hanno gli uomini-cerniera: gli uomini di Cosa nostra che si incontrano con gli uomini del sistema criminale non mafioso per sollecitarsi a vicenda.

Quindi l’obiettivo dei sistemi criminali integrati è lo stesso?

L’obiettivo è il ricambio del referente politico. L’omicidio Lima è il momento clou di azzeramento con il passato, per poter costruire un futuro diverso basato su nuovi rapporti di forza con la politica, con tutti gli strumenti a disposizione, dal ricatto all’intimidazione, fino alla strage. La classe dirigente mafiosa ha bisogno di nuovi referenti politici e si muove per raggiungere quest’obiettivo fino a quando si rende necessaria la creazione di un nuovo soggetto politico: il nuovo soggetto politico è uno strumento della strategia criminale.

Questo vale per Cosa nostra. Ma Gelli e i suoi “fratelli” della P2 coltivano da tempo l’obiettivo di inserire un soggetto politico nuovo, che impedisca l’avanzata dei comunisti e sia funzionale ai propri interessi economici. Lo dice chiaramente il Piano di rinascita democratica. Quello del nuovo partito, tra l’altro, è un vecchio progetto del capo della P2. Già nel ’76 aveva buttato giù un promemoria che tratteggiava le caratteristiche del nuovo soggetto politico da lanciare nell’agone istituzionale italiano, nel caso di una crisi della Dc. Quella memoria, detto per inciso, sembra il ritratto di Forza Italia: un partito che si basa sulla de ideologizzazione degli appartenenti e degli elettori, e fondato sui club territoriali. Non sembra un caso che Forza Italia, il nuovo soggetto politico che si afferma dopo le stragi, sia guidato proprio da un personaggio iscritto alla P2. Vent’anni dopo, che idea vi siete fatti?

Certamente un ruolo chiaro in tutta questa vicenda lo ha avuto Dell’Utri, questo è acclarato.

Martelli, l’uomo che all’indomani della strage Borsellino ha personalmente firmato le misure di invio al 41 bis per centinaia di boss, non resiste a lungo in via Arenula e viene silurato di lì a poco

All’inizio del ’93 l’inchiesta giudiziaria denominata “Tangentopoli” coinvolge all’improvviso l’”uomo nuovo” del Psi, Claudio Martelli, in una vecchia storia degli anni Ottanta legata al crac dell’Ambrosiano e alla P2: la maxitangente pagata da Roberto Calvi, su sollecitazione di Gelli, al Psi di Craxi. Le confessioni dell’architetto craxiano Silvano Larini (titolare del conto svizzero “Protezione”), ma soprattutto di Gelli, mettono fuori gioco Martelli, che viene indagato e si dimette dal governo il 10 febbraio, sostituito da un tecnico: l’ex presidente della Consulta Giovanni Conso. Due giorni dopo, il 12 febbraio, si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. E qui – racconterà Nicolò Amato – il capo della polizia Parisi esprime “riserve sull’eccessiva durezza” del 41 bis per i mafiosi detenuti a Pianosa e all’Asinara.

Perché tanta fretta? Cosa succede esattamente?

Bisogna tener conto che a quel punto lo Stato è debitore di Cosa nostra che ha salvato i politici, e in cambio deve dare alla svelta alcuni segnali. Lo fa con l’ammorbidimento del 41 bis. Comincia una complicata altalena istituzionale sulla gestione del carcere duro, che fa da contrappunto alle bombe del ’93.

Chi ha paura della Verità

L’intervento di Napolitano, le critiche di Cicchitto e Gasparri, l’attacco frontale di Scalfari, il coro avverso degli editorialisti: in questi ultimi mesi, si sono verificate una serie di cose che dimostrano come, da parte delle massime istituzioni del paese, ci sia una grande attenzione all’inchiesta sulla trattativa. La classe politica guarda al lavoro del pool di Palermo con i nervi scoperti. Chi ha paura dell’indagine sui rapporti mafia-Stato?

Le dichiarazioni di Napolitano sono tutte nel senso di sostenere le ragioni della verità. Eppure, è difficile negare l’amarezza per aver notato che le iniziative di un imputato come l’ex ministro Mancino che, con un’escalation di telefonate, ha chiesto più volte sponda e copertura al Quirinale, non sono state sufficientemente tamponate. E oggi posso dire che solo la ferma determinazione del procuratore nazionale Piero Grasso ha impedito che vi fossero interventi più significativi e più incidenti sulla nostra attività. Io non ho mai detto, per sgomberare il campo degli equivoci, che quello che la Procura di Palermo ha sin qui ipotizzato sia la verità rivelata. Sul piano giudiziario, le verità si acquisiscono con le prove, e sarà il giudice del processo a verificare le prove che abbiamo raccolto. Ma se si ostacola l’attività giudiziaria, si ostacola il cammino della verità. Il mio intervento costante non è finalizzato, come alcuni dicono, al riconoscimento di una verità processuale appiattita sull’ipotesi del pm, ma all’emersione di nuovi tasselli che ci facciano conoscere sempre più elementi della verità reale, in modo che questa si possa avvicinare alla verità processuale.

tratto da “Antonio Ingroia. Io So” di G. Lo Bianco e S. Rizza – Chiarelettere Editore.

 

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