Presentiamo, di seguito, dei salienti stralci del saggio “Metafisica e Libertà”, di Maurizio Barracano, tratto da “L’Anarchia del Sacro”, l’interessante proposta offerta dall’Associazione Ricerche Spirituali (ARS).
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“Chi ama senza sensazione e sa senza conoscenza è detto a buon diritto più Dio che uomo”, Angelo Silesio.
“Libertà non è fare quello che vuoi ma volere quello che fai”.
“La vita non consiste nel nascere ma nel prendere coscienza, e il mutamento non si risolve nella morte ma nell’oblio”, Discorso di Ermete a Tat sull’intelletto comune, par. 18
Spesso siamo inconsapevolmente invischiati dalle parole, e le levate di scudi che si percepiscono non appena si usi, o anche solo si sfiori, il termine “metafisica” la dicono lunga.
È sempre utile sgombrare in anticipo il campo dai possibili equivoci semantici. “Metafisica è qui usato in senso squisitamente etimologico ma, allo stesso tempo, si vogliono evitare certi purismi sterili che, sempre, servono alla “cultura” e non al sapere reale e trasformante. La metafisica è solitamente vista poter riassumere due approcci: uno ontologico ed uno teologico. Il secondo, l’approccio teologico, viene poi visto come esprimere essenzialmente due ottiche: apofatica (La teologia apofatica è detta “negativa” perché dispone la sua analisi del divino per viam negations, eliminando, passo passo, tutti quegli elementi che sono “altro” rispetto al concetto indagato. Un sistema simile è presente originariamente pure nel Sanatana-dharma – Induismo – , e poi raccolto pragmaticamente anche dal Buddhadharma – Buddhismo – . Nella religione del Sanatana-dharma, il processo cognitivo, e liberante eo ipso, passa per il neti-neti – non questo-non questo –, eliminando da ogni illusione di nome-e-forma e dalla ignoranza ontologica) e catafatica, “negativa” e “affermativa” (sebbene, data comunque l’ineffabilità del divino, queste “affermazioni” si risolvano con un obbligatorio linguaggio simbolico). Il modo con cui il termine, teologia, è usato nelle opere di Dionigi Areopagita (ci si attiene alla lezione di P. Scazzoso e E. Bellini, in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, ed. Rusconi, Milano 1981) è quello che si abbraccia al presente. Il secondo aspetto della Metafisica è l’ontologia, la scienza di ciò che è (“discorso sull’ente”). Anche in questo caso la cautela è d’obbligo: gli inciampi causati dalle asperità di questo sentiero sono innumerevoli, come si tratti di un argomento, di una discussione cui si creda possano solo partecipare gli “addetti ai lavori”. Pure in questa sede la pressione dei pluridiplomati in spiritualità non può non farsi sentire, un po’ come accade con i mutakallimum (il termine arabo significa “letteralisti” ed indica coloro che si attengano integralisticamente alla shari’ja e non ammettono la haqiqat, la realtà della verità che sfocia nel vero Islam, nel vero abbandono a Dio) di ambito sunnita.
Tra l’altro non pare fuor di luogo il ricordare un antico insegnamento buddhista, che parlava di Avyakrtavastu, di quattordici domande improponibili:
Il mondo è eterno
Il mondo non è eterno
Il mondo è contemporaneamente eterno e non eterno
Il mondo non è né eterno né non eterno
Il mondo è finito
Il mondo è infinito
Il mondo è contemporaneamente finito ed infinito
Il mondo non è né finito né infinito
Il Tathagata esiste dopo la sua morte
Il Tathagata non esiste più dopo la sua morte
Il Tathagata esiste e contemporaneamente non esiste dopo la sua morte
Il Tathagata né esiste né non esiste dopo la sua morte
Il sé è identico al corpo
Il sé è diverso dal corpo (Cf. Tratte da testi del Tripitaka, queste domande, a cui il Buddha volutamente non diede risposta, sono ritrovabili nel Majjhima Nikaya, nel Samyutta Nikaya – recentemente edito in italiano a.c. di Vincenzo Talamo e di Antonella Comba, per i tipi di Ubaldini, Roma – , ed altri scritti ancora, laddove l’asceta errante Vacchagotta interroga il Principe Gotamo. Si veda anche il Dizionario del Buddhismo, di Philippe Cornu, a.c. di Daniela Muggia, ed. Bruno Mondadori, Milano 2003, pag. 481).
Queste domande improponibili non portano ad alcuna conclusione. Semmai, irrigidiscono quella facoltà cognitiva pura che dovrebbe essere scevra da complicazioni e disponibile ontologicamente al sapere autentico.
Una ricerca come quella che prende piede in queste pagine cerca di evitare le troppe teorizzazioni tentando, semmai, attraverso una analisi comparata, di approssimarsi all’idea trascendente di Libertà.
Il tema di questo lavoro verte sul rapporto tra Libertà e Sacro, e su quanto l’indagine metafisica si crede possa fare nell’aiutarci a chiarire i termini. Ma non solo.
È già stato oggetto di un recente convegno (Si vedano gli Atti del convegno “Sotto il cielo della Libertà, culture a confronto”, da noi curato, Santena – Torino, 2009 – ) proprio questo argomento, inerente la libertà: importante spesso, nel presente periodo, drammaticamente dilaniato. Sembra un paradosso che si parli di libertà proprio quando quella che potremmo definire la sostanza della libertà è profondamente inquinata da altro: particolarmente oggi la Libertà, quella vera, quella dell’anima (anemos, vento) pare diventata oggetto da supermercato. Troppo stretta com’è da mitologhemi commerciali, la libertà diventa un bene di consumo, un bene acquisibile seguendo condizioni tutt’altro che impossibili od inaccessibili. La democratizzazione di quanto ha radicale necessità di sacrificio creativo, magari anche di intensa poesia (amore?), è il modo per eccellenza attraverso cui le menti vengono fuorviate. Si crea un feticcio, una parodia luccicante di quanto, forse, potrebbe rendere più nobile (e meno consumista) l’uomo.
Vittima e carnefice, come talvolta accade, sono complici: la ventilata “facilità” delle cose, il rigetto della fatica e del sacrificio, dappertutto, dall’India all’Africa, “soddisfano” molti, e questo è ben altro che frutto di una osservazione da qualunquisti. Ogni moto in discesa è apparentemente più “facile” di quello opposto; l’invito malcelato al totale disinteresse al vivere, al senso del vivere, per rotolarsi nel brago del “benessere” è evidentemente dia-bolico, separativo.
In realtà ogni cosa bella costa, secondo una precisa progressione data dalla sua ofelimità, figurarsi una acquisizione interna, solare, stravolgente, in una parola: bella quanto fulgida. E foriera di felicità totale, appunto di Libertà.
Ma su questo torneremo sotto.
Il costo della Libertà è il superamento dell’illusione, di quella parodia che tiene l’anima in scacco della “roba” di verghiana memoria. Qui, l’illusione ha un nome ed un compito: separare l’uomo dal se stesso autentico e illuderlo che la soluzione del dramma di vivere si trovi nel tempo, nel prima o nel poi poco conta. Il culto della Storia ha costruito mondi interi, con “salvezze” più o meno a portata di mano, con divinità fai-da-te e forme enfatizzate di sacralità, grandi e piccole, svuotate di ogni valore rituale (Il termine latino ritus, dall’avverbio rite, per giusto, corretto, deriva dal sanscrito – rta, che adombrava la perfetta adesione di una realtà alla Norma. Ciò che è giusto, sorgivo, – bene, bello e vero – , era “rito”, riattualizzazione esatta di quanto accade nell’illo tempore, nel qui-e-ora fuor dal tempo fisico e storico. Nell’eterno presente. Si veda in proposito Mario Piantelli, Una ricerca su “ritus” in epoca arcaica, in “Studi in onore di Giuseppe Grosso”, vol.6, “Giappichelli, Torino 1972, pp. 236-303). O con religioni atee che, eo ipso, contengano tutti gli elementi strutturali di una vera e propria religione (riti, testi sacri, verità inappellabili “dogmi”, sacerdoti, messianismo, salvezza, ecc.), forme parareligiose capaci, ancora una volta, di “arrestare” l’uomo impantanandolo in credenze apodittiche.
È, tutto questo, nella natura delle cose. Appresso torneremo anche più approfonditamente sul motivo di questa “fatalità” (che tale, naturalmente, non è). nel mondo sublunare governano gli astri, nel mondo dello spirito governa la Provvidenza.
Socrate, come Platone ci ricorda nel Fedone, ebbe ad insegnare che: “È dunque vero – egli disse – o Simmia, che coloro i quali filosofano direttamente si esercitano a morire e che morte è per loro cosa assai meno paurosa, che per chiunque altro degli uomini” (Cf. Fedone, 67 c. trad. di Manara Valgimigli, in Platone, Opere, ed. Laterza, Bari 1974, vol.I, pagg. 114 e 115). Socrate definisce la Filosofia come l’esercizio alla morte; colui che non cerchi la morte non è filosofo perché non cerca l’unico sapere, radicale, ontologico, trasformante che è con-noscenza, assimilazione del conoscente al cnosciuto, e superamento di ogni diarchia (Su questo il Buddhadharma s’esprime con estrema chiarezza; si veda, in part. l’opera Madhyamaka Karika, di Nagarjiuna, ed. Boringhieri, Torino 1979).
“Devi diventare insensato se vuoi giungere qua, perché la verità diventa manifesta per mezzo della nescienza”, sostiene Enrico Suso.
Superamento della dico-tomia, della dia-lettica su cui si regge la inconsapevolezza del mondo, sostanza su cui si radica il divenire, il sonno ontologico: la separazione tra me e l’”altro”, solo attraverso questa dialettica il me trova modo di verificarsi.
“Quale la natura propria del Tathagata, tale la natura propria di questo mondo. Ma il Tathagata è privo di natura propria: privo di natura propria è questo mondo” sagacemente osservava Nagarjiuna, presumibilmente nel secondo secolo d.C. Con questo si volle intendere l’altro corno del dilemma: dato che tutto esiste in funzione del percettore, annullandosi il percettore il Tutto diventa un Nulla.
“Quanto più esci da te e ti vuoti di te, tanto più Dio fluisce in te con la sua Divinità” è una frase illuminante proferita da Angelo Silesio, facendo eco ad una altrettanto importante considerazione di Eckhart. Il nobile domenicano di Hochheim scriveva ancora: “Un uomo veramente perfetto dev’essere costantemente morto a se stesso, spogliato di se stesso in Dio e trasformato nella volontà a tal punto che tutta la sua beatitudine consista nel non sapere nulla né di sé né di altra cosa ma solo di Dio, nel conoscere soltanto Dio …” (Cf. Trattati e prediche, Il libro della consolazione divina, a. c.. di Giuseppe Faggin, ed. Rusconi, Milano 1988, pag. 123).
La morte, quella vera, non quella morale o, tanto meno, quella romanticheggiante, è una realtà tutt’altro che “spirituale” (nella tragica confusione tra quello che è spirituale davvero e quello che è semplice fantasia o mera psicologia). Ben lo aveva espresso santa Teresa de Avila nel Libro de su vida. Un vero e proprio cambiamento di stato è sotteso da questo termine, morte.
Nel mondo tibetano, ad esempio, le discontinuità della consapevolezza erano chiamati Bardo, ed erano numerosi stati intermedi. Un Bardo era il periodo coscienziale intercorrente tra la nascita e la morte; un altro bardo era composto da periodi intermedi nel post mortem fino ad una stabilizzazione della coscienza, e così via (Sull’argomento è fondamentale la lettura de Il libro tibetano del vivere e del morire, di Sogyal Rinpoche, ed. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1994 e Lo yoga tibetano del sogno e del sonno, di Tenzin Wanghyal Rinpoche, ed. Astrolabio-Ubaldini, Roma 2000).
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Quando Porfirio ebbe a dire che: “La morte è di due tipi: la prima, più conosciuta, che avviene quando il corpo si scioglie dall’anima, e la seconda, quella dei filosofi, che avviene quando l’anima si scioglie dal corpo; e la seconda non segue affatto alla prima” (Cf. Sentenze sugli Intelligibili, 9, a.c. di Giuseppe Faggin, ed. Rusconi, Milano 1996, pag. 77). Medesima intonazione avevano quei testi definiti “la Bibbia orientale dei Neoplatonici”, nei quali, al riguardo, si scriveva: “Levandosi in volo, l’anima dei mortali in se stessa serrerà il dio, e, senza conservare nulla di mortale, dal dio è inebriata tutta quanta. Si gloria di armonia: sotto di essa dimora il corpo mortale” (Cf. Oracoli caldaici, fragm. 97 – Des Places – , a.c. di Angelo Tonelli, ed. BUR, Milano 1995, pag.123).
La morte è unificazione, superamento dell’io e del mentale, cessazione dell’esistere (ex-stare, tenersi fuori) perché il Tutto si fa Uno. Omnia ad Unum convertuntur.
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Quando Filone Alessandrino, San Basilio Magno, San Bonaventura, San Tommaso, si soffermarono sulla “natura del male” (ché natura non può darsi di una cosa che è negazione pura), proprio alla capacità di arrestare l’anima allusero, annettendola come carattere proprio ai mali. Una bella indicazione ci è fornita dal “Fermati dunque” del Faust di Goethe. “Der Vater aller Hindernisse”, il padre di tutti gli ostacoli, di tutti gli impedimenti, ha un compito preciso: negare la vita. Stasi, morte, e accidia (in gr. non-curanza) sono omologhi all’avijja buddhista.
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Discendendo dall’alto verso il basso, decadendo, il sistema fisico (e psichico) obbedisce, in tutto e per tutto, al secondo principio della termodinamica, quello di Carnot-Clausius. Praticamente: in ogni sistema energetico chiuso, l’energia si trasforma in lavoro e calore. Quest’ultimo disperdendosi, la quantità di energia ottenibile dalla riconversione del lavoro sarà minore di prima, e questo avverrà costantemente dando, come risultato, un “avvitamento” del sistema su se stesso. Il termine che indica questo decadimento è entropia (Gr. entrèpo, mi avvolgo verso l’interno).
La teoria dei cicli cosmici, tale quella che troviamo, ad esempio, nel Genesi come nei Veda, obbedisce ad una medesima regola, esemplificata nel Vecchio Testamento dalle simboliche “età” degli uomini, da Adamo e Matusalemme fino a Abramo, Isacco e Giacobbe. Il tempo sembra contrarsi, degradarsi qualitativamente, comportando una diversa lettura anche dello spazio. E così effettivamente è: all’età dell’oro subentra quella dell’argento, poi quella del bronzo e infine quella del ferro (con equivalenza con le epoche krita-yuga, treta-yuga, dvapara-yuga, e kali-yuga che obbediscono, nel mondo induista, ad una medesima logica che vede l’ultima età definita come l’epoca della dissoluzione).
Lo spazio si accorcia (un esempio nella diminuzione drastica delle distanze tra i luoghi), il tempo si contrae (motus in fine velocior).
Ogni cosa, dopo essere nata, tende naturalmente a dissolversi fino a sparire; l’invecchiamento e la morte sono tutt’uno con l’esistere. Così l’atteggiamento che pare più corretto è la presa d’atto del naturale degrado d’ogni cosa, dal corpo fisico alla storia, da un filo d’erba al sole. Lodare i tempi passati è costruire una gabbia che, per quanto possa esser dorata, ben si sa che non lascerà scampo. Qui la spiegazione della logica delle dottrine di palingenesi: non si vuole ricreare un corpo, nuova prigione, o un’altra esistenza, per quanto “bella” possa essere. Bisogna superare la condizione per cui s’è creata l’esistenza e “non fare più ritorno”. Qui ritorna il concetto di libertà, da cui abbiamo preso le mosse.
Il dolore, connaturato all’esistenza, all’ignoranza ontologica che crea ogni vivere, deve essere riassorbito col superamento del senso di sé, che il Buddhadharma chiama samudaya o mamata, che nasce dalla sostanza stessa della nescienza e può esser risolto solo con il percorso della “retta” Via. Superate le condizioni che causano dolore (Duhkha, tra l’altro, indica nel Buddhadharma anche il “friggere”, la tensione irrisolta, l’eretismo, l’inquietudine costante) in quanto altro-da-sé, l’uomo si ricostruisci nella sua interezza e si scopre ontologicamente libero.
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L’etimologia del termine fisica ci riserva una discreta sorpresa: è nella radice sanscrita bhu- (Da cui anche Bhumi, “… esistente, la terra in uno dei tre mondi o sfere dell’esistenza …” – divina, aerea e terrestre – . Cf. Dizionario dell’Induismo, a c. di Margaret Stutley e James Stutley, trad. di Giorgio Milanetti, ed. Ubaldini, Roma 1980, s.v. pag. 67), che il termine greco trova la natura più profonda del suo intero essere: natura è, qui come altrove, ciò che esiste, ciò che sorge, ciò che sorregge, ciò che è plasmato. E proprio Bhu-Devi, Prthivi, è la Natura arcaica (terra personificata) che il dio creatore induista, Brahma-Prajapati, nel mito, solleva dal fondo delle acque primordiali onde farsene un seggio di loti su cui stare in assorta meditazione.
Anche in questo caso corre il sottile filo rosso che ha animato queste considerazioni sin dall’inizio.
Quanto si trova oltre al plasmabile, alla medesima attitudine a ricevere forma, dunque all’esser “due” (ricordiamo Aristotele come, e soprattutto, Pitagora), è materia della trasformazione, dell’iter filosofico. Libero è chi si levi oltre ciò “che sostiene” e, nello stesso tempo, sia passibile di subire ogni forma, nella fantasmagoria dell’Illusione.
Svuotarsi del senso di sé è un altro imperativo che, come petalo di loto, ci porta ad una comprensione ulteriore. Il sé è “materia” sulla quale logicamente, una volta posta sopra le acque, sopra al mondo liquido del divenire, si trova in requie “Dio”.
Proprio per dimostrare quanto certe “conoscenze” siano appannaggio dei filosofi d’ogni dove, senza che possa attecchire nemmeno il dubbio di sincretismo, ricordiamo che, nella mistica islamica, Al’Hallaj ebbe a scrivere: “Uccidetemi, o potenti, poiché la mia vita si compie con l’essere ucciso, e la mia morte si trova nella mia vita così la mia vita è nella mia morte. Essere eliminato è un dono tra i più nobili, per me … Ho rinnegato la religione di Dio, ed il rinnegarla è un dovere per me come un peccato per i Musulmani” (Cf. Poèmes mystiques, a.c. di Sam-Ali, ed. Sindbad, Parigi 1985, pag. 37 e 38), aggiungendo poco dopo: “Mi sono sforzato di pazientare ma il mio cuore può far aspettare il mio cuore? Il Tuo spirito si mescola al mio spirito in vicinanza e lontananza io sono Te a Tuo modo, Tu sei me e ciò che io voglio”, proseguendo: “Il mio Unico mi ha unificato attraverso l’unificazione del Vero, Vero al quale nessun cammino conduce. Io sono il Vero ed il Vero è vero a causa del Vero”.
Un antico darshana indiano, il Samkhya, riportava un insegnamento che oramai può essere tanto conclusivo quanto è da sempre importante: “Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata al pubblico, così la natura cessa la sua attività essendosi manifestata all’anima” (Cf. Le strofe del Samhkya – Samkhyakarika – , di Isvarakrsna, aforisma n° 59, a.c. di Corrado Pensa, ed. Boringhieri, Torino 1978, pag. 116). L’universo materiale e animico, la natura naturans (la Prakriti), veniva considerato come sorretto, portato, da tre grandi principi o “qualità” (guna): Tamas, Rajas e Sattva. Questo era il mondo divenente mentre l’altro aspetto, che dal divenente si distaccava in quanto Essere, era detto Purusha.
tratto da “L’Anarchia del Sacro” a cura di Maurizio Barracano – Bietti Media
Il volume consigliato contiene scritti di:
Stefano Piano, Lea Glarey, Alfredo Luvino, Grazia Mirti, Renzo Guerci, Mauro Biglino, Stefano Minetti, Maurizio Barracano.
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Maurizio Barracano è presidente dell’ARS e coordina la sezione di Philosophia perennis.