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415. Diritti … Democrazia … di Luigi Ferrajoli

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Presentiamo, di seguito, stralci della relazione presentata alle “Primeras Jornadas Internacionales de Derechos Fundamentales y Derecho Penal - Córdoba, 10-12 aprile 2002”, tema attualissimo e di importanza fondamentale, del Prof. Luigi Ferrajoli, da noi apprezzato particolarmente.

*****

Diritti fondamentali e democrazia costituzionale

“Nel paradigma paleopositivistico dello stato liberale la legge, qualunque ne fosse il contenuto, era la fonte suprema e illimitata del diritto, non subordinata, almeno formalmente, neppure alle costituzioni. (…) Le Carte costituzionali erano certamente documenti solenni, politicamente fondativi della convivenza civile. Ma non erano in grado di limitare giuridicamente il potere legislativo. All’inizio, addirittura, la Dichiarazione francese del 1789 non fu neppure, da taluni, considerata una legge positiva, ma solo un documento politico. E anche dopo che ne fu riconosciuta la natura di leggi, le costituzioni furono pur sempre considerate per l’appunto leggi, soggette, come tutte le altre, ai principi della successione delle leggi nel tempo. Basti ricordare lo Statuto Albertino del Regno d’Italia, che fu da tutti considerato una semplice legge ordinaria, sia pure particolarmente solenne, e come tale poté essere travolto, senza un formale colpo di stato, dalle leggi fasciste di Mussolini del 1925.
Giacché non esisteva fino a 50 anni fa, nell’immaginario dei giuristi e nel senso comune, l’idea di una legge sulle leggi, di un diritto sul diritto. Ed era inconcepibile che una legge potesse vincolare la legge, essendo la legge – questo era il paradigma giuspositivistico della modernità giuridica – l’unica fonte, perciò onnipotente, del diritto: sia che fosse concepita come il prodotto della volontà del sovrano, sia che fosse intesa come l’espressione della maggioranza parlamentare. Sicché il legislatore, nella migliore delle ipotesi il Parlamento, era a sua volta concepito come onnipotente. E onnipotente era di conseguenza la politica, di cui il diritto è il prodotto e insieme lo strumento. Con il risultato, altresì, di una concezione tutta formale e procedurale della democrazia, identificata unicamente con il potere del popolo, ossia con le procedure e i meccanismi rappresentativi volti ad assicurare il potere della maggioranza. Per non parlare del diritto internazionale, giunto alla catastrofe delle guerre mondiali anche a causa dell’assoluta mancanza di limiti e di vincoli costituzionali alla sovranità esterna degli Stati.
Tutto questo cambia radicalmente in quella straordinaria stagione costituente che fu il quinquennio 1945-1949, che vide l’emanazione della Carta dell’Onu nel 1945, della Costituzione giapponese del 1946, della Costituzione italiana del ’48, della Dichiarazione universale dei diritti umani nel medesimo anno, della Legge fondamentale tedesca nel 1949. È grazie a queste carte che si realizzano le due grandi conquiste (…) le quali cambiano la natura e la struttura del diritto e delle istituzioni politiche dissolvendo l’una la sovranità interna, tramite i limiti e i vincoli costituzionali imposti al potere legislativo, l’altra la sovranità esterna tramite il divieto della guerra e la stipulazione dei diritti fondamentali in capo ad ogni essere umano.

(…) Parlerò prima, sommariamente, della prima di queste due grandi conquiste: la forma costituzionale conferita, dalla rigidità della costituzioni, alla democrazia. Grazie ad essa la democrazia non consiste più, semplicemente, nel potere illimitato del popolo, e perciò della maggioranza, in grado di degenerare, come mostrò l’avvento del fascismo e poi del nazismo, in forme totalitarie. Essa è bensì potere del popolo nei limiti e con i vincoli imposti dalle costituzioni, e perciò soggezione al diritto, e precisamente ai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, di tutti i pubblici poteri incluso quello della maggioranza. Il potere politico, sia legislativo che di governo, risulta così disciplinato non più solo nelle forme di produzione, rappresentative appunto della maggioranza, con cui devono essere prodotte le decisioni, ma anche nei contenuti delle decisioni medesime, vincolati ai principi di giustizia – uguaglianza, pace e diritti fondamentali – iscritti nelle costituzioni. Fu questo il patto sociale stipulato in tutte le costituzioni del secondo dopoguerra, che ha retto i paesi europei nella seconda metà del secolo scorso, informandone le politiche di Welfare ed orientandone lo sviluppo economico e sociale.
Per comprendere questo mutamento di paradigma della democrazia dobbiamo capire, in tutta la sua portata, la trasformazione della legalità prodotta dalla rigidità delle costituzioni, ossia dal riconoscimento della costituzione come norma suprema, alla quale tutte le altre sono rigidamente subordinate. Grazie a questa rigidità, la legalità cambia natura: non è più solo condizionante e disciplinante, ma è essa stessa condizionata e disciplinata da vincoli giuridici non più solo formali ma anche sostanziali; non è più semplicemente un prodotto del legislatore ma è anche progettazione costituzionale del diritto da produrre e dunque limite e vincolo, quale diritto sul diritto, al legislatore medesimo. Sicché del diritto positivo risulta positivizzato, da quel patto sociale che è la costituzione, non più solo l’“essere”, ossia l’“esistenza”, ma anche il “dover essere”, ossia le condizioni di “validità”; non più solo il “chi” e il “come” delle decisioni ma anche il “che cosa” non deve essere deciso, ossia la lesione dei diritti di libertà, o al contrario dev’essere deciso, ossia la soddisfazione dei diritti sociali.
Si tratta di un mutamento rivoluzionario di paradigma del diritto e, insieme, della giurisdizione e della scienza giuridica; di un mutamento, io credo, di cui tuttora non abbiamo misurato la portata.
Cambiano in primo luogo le condizioni di validità delle leggi, che dipendono dal rispetto non più solo delle norme procedurali sulla loro formazione ma anche delle norme sostanziali sul loro contenuto, ossia dalla loro coerenza con i principi di giustizia stabiliti dalla costituzione. Cambia in secondo luogo la natura della giurisdizione e il rapporto tra il giudice e la legge: che non è più, come nel vecchio paradigma giuspositivistico, soggezione alla lettera della legge qualunque ne sia il significato, ma è soggezione anzitutto alla costituzione, che impone al giudice la critica delle leggi invalide tramite la loro re-interpretazione in senso costituzionale o la loro denuncia per incostituzionalità. Cambia in terzo luogo il ruolo della scienza giuridica, che risulta investita di una funzione non più solo descrittiva, come nel vecchio paradigma paleo-giuspositivistico, ma critica e progettuale nei confronti del suo oggetto. Precisamente, il mutamento di paradigma nella struttura del diritto conferisce alla dogmatica il compito di accertare e criticare le antinomie e le lacune presenti della legislazione ordinaria rispetto agli imperativi costituzionali e alla teoria il compito di tematizzare la virtuale divaricazione tra dover essere ed essere del diritto, ossia tra validità e vigore, e di identificare e magari progettare le tecniche di garanzia idonee a superarla.
 
(…) Ne risulta un mutamento nel rapporto tra la politica e il diritto. Giacché non è più il diritto ad essere subordinato alla politica quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposti dai principi costituzionali: vincoli negativi, quali quelli generati dai diritti di libertà che non possono essere violati; vincoli positivi, quali quelli generati dai diritti sociali che devono essere soddisfatti. Politica e mercato si configurano in tal modo come la sfera del decidibile, rigidamente delimitata dai diritti fondamentali: i quali, proprio perché garantiti a tutti e sottratti alla disponibilità sia del mercato che della politica, determinano la sfera di ciò che non dev’essere o dev’essere deciso, non potendo nessuna maggioranza, neppure l’unanimità, legittimamente decidere di violarli o di non soddisfarli. Sono questi limiti e vincoli che definiscono gli spazi legittimi della politica e dell’economia, in opposizione agli spazi illegittimi rappresentati dall’insieme degli atti illeciti e degli atti invalidi.
Le costituzioni consistono precisamente in questo sistema di regole, sostanziali e formali, su ciò che per i pubblici poteri è indecidibile, ossia è vietato decidere o non decidere. Sotto questo aspetto esse non rappresentano solo il completamento dello stato di diritto attraverso l’estensione del principio di legalità a tutti i poteri, incluso quello legislativo. Esse sono anche un programma politico per il futuro: l’imposizione a tutti i poteri di imperativi negativi e positivi quali loro fonti non solo di legittimazione, ma anche di delegittimazione. Costituiscono, per così dire, delle utopie di diritto positivo, che per quanto mai realizzabili perfettamente stabiliscono tuttavia, in quanto diritto sul diritto, il progetto di trasformazione del diritto medesimo in direzione dell’uguaglianza nei diritti fondamentali.

 (…) La seconda conquista giuridica del secolo appena trascorso è stato il mutamento di paradigma intervenuto nelle relazioni internazionali. Con l’istituzione dell’Onu il diritto internazionale si è trasformato, da sistema di relazioni pattizie tra Stati illimitatamente sovrani, basato sui rapporti di forza e perciò destinato, come mostrò la catastrofe dei due conflitti mondiali, a degenerare nella guerra, in un ordinamento giuridico sovra-statale, fondato sul divieto della guerra e sui diritti fondamentali di tutti gli esseri umani stabiliti quali limiti e vincoli ai poteri degli Stati.
Anche questo mutamento si è espresso nella stipulazione di un patto costituzionale di convivenza: la Carta delle Nazioni Unite del 1945, e poi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e i due Patti internazionali sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali del 1966, che formano, nel loro insieme, una sorta di costituzione embrionale del mondo. Grazie ad esso la sovranità, venuta meno nella sua dimensione interna grazie alle forme dello stato di diritto, viene meno (…) anche nella sua dimensione esterna, essendosi tutti gli Stati assoggettati, anche nei loro rapporti internazionali, ai vincoli della pace e della garanzia dei diritti umani di tutti.
Purtroppo questa conquista è rimasta in gran parte sulla carta: allo stato, appunto, di semplice promessa. Ma ciò non toglie che essa continui ad essere la sola alternativa razionale alla guerra, endemica e globale, e a un futuro di violenze e di terrore.

(…) Tutte le carte costituzionali, si è detto, sono contratti sociali in forma scritta, patti di convivenza intorno a ciò che non può essere deciso e a ciò che deve essere deciso a garanzia dei diritti di tutti e della pace: diritti e pace che equivalgono alla ragione sociale, e perciò al fondamento filosofico delle istituzioni giuridiche e politiche. Ma più che mai è un contratto sociale finalizzato alla pacifica convivenza la Carta dell’Onu: sia perché anche formalmente essa è un trattato, ossia un contratto vero e proprio; sia perché nel suo preambolo, come poi in quello della Dichiarazione del 1948, la pace e i diritti vengono indicati come i fini, tra loro esplicitamente connessi, dell’Organizzazione sovranazionale con essa istituita. Insomma, non solo la pace è il primo fondamento dei diritti umani, ma è vero anche il contrario, esistendo una correlazione biunivoca tra il grado di pace, sia sociale che internazionale, e il grado di garanzie a sostegno di tali diritti.
C’è poi un secondo fondamento assiologico o filosofico dei diritti umani messo in evidenza dalle Convenzioni internazionali dei diritti: il loro ruolo di leggi del più debole contro la legge del più forte che è propria dello stato di natura, ossia dell’assenza di diritto e di diritti. (…) Se vogliamo che i soggetti più deboli fisicamente, o politicamente, o socialmente o economicamente siano tutelati dalle leggi dei più forti, occorre sottrarne la vita, la libertà e la sopravvivenza sia alla disponibilità privata che a quella dei pubblici poteri, formulandole come diritti in forma rigida e universale.

(…) Le costituzioni non hanno lo scopo di esprimere una comune volontà o identità popolare, bensì di garantire i diritti vitali di ciascuno e di tutti, e perciò la convivenza pacifica, anche contro la volontà e gli interessi della maggioranza. Esse sono patti di convivenza nel senso letterale del termine, cioè patti di non aggressione, tanto più giustificati ed anzi necessari quanto più eterogenee e potenzialmente nemiche, sul piano culturale o politico o religioso, sono le soggettività di cui devono garantire la convivenza. Il consenso, conseguentemente, se in una qualche misura è una condizione della loro effettività, non ne rappresenta affatto la fonte di legittimazione, che risiede invece nei valori della pace e dell’uguaglianza che esse, proprio grazie all’universalità dei diritti fondamentali, sono in grado di garantire. (…) L’universalità dei diritti fondamentali si riferisce non già a un improbabile consenso di tutti nei loro confronti, bensì alla loro titolarità, cioè al fatto che essi spettano a tutti, che lo vogliano o meno e quali che siano le opinioni o le culture di ciascuno.
In questo senso i diritti fondamentali hanno un fondamento democratico: nel senso che si riferiscono al “popolo” nella totalità dei suoi componenti ed esprimono perciò, in capo a ciascuno, un frammento di sovranità e in questo senso è democratica una costituzione: perché i suoi contenuti, cioè i diritti in essa stabiliti, garantiscono tutti, e non già per la forma della sua produzione, cioè perché essa sia (stata) voluta da tutti .

(…) Oggi queste due conquiste del secolo appena trascorso – la democrazia costituzionale e il progetto di un costituzionalismo mondiale, quest’ultimo rimasto sempre sulla carta per l’assoluta mancanza di garanzie – sono entrambe in crisi, insieme alle prospettive di innovazione e di progresso da esse prefigurate.

(…) I fattori di crisi del paradigma della democrazia costituzionale all’interno degli Stati nazionali sono molteplici. Sono innanzitutto fattori oggettivi. Il primo di essi è la dislocazione di quote crescenti di poteri e di funzioni pubbliche, tradizionalmente riservate agli Stati, al di fuori dei loro confini nazionali. Nell’età della globalizzazione il futuro di ciascun paese, soprattutto dei paesi più poveri, dipende sempre meno dalla politica interna e sempre più da decisioni esterne, assunte in sedi politiche sovranazionali o da poteri economici globali, sottratti sia ai vincoli della rappresentanza politica che ai limiti e ai controlli propri dello stato di diritto (…). Sta insomma saltando il nesso tra democrazia e popolo e quello tra stato di diritto/stato, tradizionalmente mediati dal principio di legalità, cioè dal primato della legge, espressione della volontà popolare e della politica da essa espressa.

(…) C’è poi un ulteriore ordine di ragioni della crisi, di carattere soggettivo e più propriamente politico: la vocazione crescente all’illegalismo di tutti i poteri, privati e pubblici, confortata dal trionfo delle ideologie liberiste sul terreno economico e plebiscitarie e populiste su quello politico, le une e le altre contrarie ai limiti e ai vincoli garantisti propri del costituzionalismo democratico. Questo illegalismo professato, oltre che praticato, ha in Italia e in Argentina le sue manifestazioni forse più vistose. Esso investe sia la legalità costituzionale che la legalità ordinaria. In Italia, per oltre un decennio la Costituzione repubblicana è stata sottoposta ad attacchi concentrici e a ripetute violazioni che ne hanno minato il ruolo garantista di limite e vincolo, sempre più avvertito e squalificato, dai poteri politici come da quelli economici, come indebito intralcio alla sovranità popolare e al libero mercato. Al tempo stesso è emersa, come del resto nella maggior parte dei paesi avanzati, una corruzione strutturale così dei poteri pubblici come di quelli economici, che in Italia ha provocato dapprima la crisi del vecchio sistema basato sulla loro occulta collusione, e poi la sua rifondazione e la sua rivincita basate sulla loro aperta confusione e concentrazione in capo a un medesimo soggetto.
Ne sta risultando una mutazione dei sistemi politici del tutto coerente con il nuovo credo ideologico oggi dominante: la concezione della libertà e della democrazia – in una parola, della “liberal-democrazia” – come assenza di regole e di controlli, di limiti e vincoli, da un lato all’autonomia privata, e quindi ai poteri economici del mercato, dall’altro alle decisioni della maggioranza e quindi ai poteri politici del governo. In breve, un neoassolutismo di entrambi questi poteri, in contrasto con i principi dello Stato costituzionale di diritto che non ammettono poteri assoluti, cioè non soggetti alla legge e quindi ai controlli giurisdizionali. In Italia, poi, si è prodotta in capo a una medesima persona la più alta concentrazione di poteri economici, nel campo per di più dell’informazione, e del massimo potere politico. Che è di nuovo un fenomeno di regressione: precisamente alla confusione premoderna tra politica ed economia, tra pubblico e privato, tra mercato e Stato: cioè tra due sfere la cui separazione segnò il trapasso dai vecchi stati patrimoniali allo Stato di diritto e rappresenta il presupposto elementare e costitutivo della civiltà giuridica moderna.
È questa concentrazione e insieme questa concezione neoassolutistica dei poteri che sta minando alla radice la democrazia costituzionale. Il principale veicolo di questa mutazione è l’insofferenza per le regole e per i controlli e l’aperta squalificazione della legalità, attraverso non più l’occultamento ma addirittura la rivendicazione e l’esibizione della pratica dell’illegalità. C’è un elemento che accomuna, pur nella loro totale eterogeneità, tutte queste rotture della legalità: dalle terribili leggi anti-terroristiche sui tribunali speciali militari e sulla soppressione dell’habeas corpus approvate recentemente negli Stati Uniti e in Inghilterra, fino alle grottesche leggi ad personam emanate in Italia e alle aggressioni con cui Parlamento e Governo hanno assediato il Tribunale di Milano, le une e le altre dirette a bloccare la celebrazione del processo per corruzione contro il nostro presidente del consiglio. Questo elemento comune è l’ostentazione impudente, senza alcun senso del limite, del disprezzo per il diritto, volta evidentemente ad affermare la superiorità al diritto dei supremi poteri e perciò a rifondarne la legittimazione sul consenso popolare, a sua volta basato sull’esibizione della forza (…).

(…) In secondo luogo, proprio la crisi dello stato nazionale ha reso ancor più drammatica l’assenza di una sfera pubblica internazionale all’altezza dei nuovi poteri extra- e sovra-statali. Il principale risultato di tale crisi sul piano internazionale è stato infatti un vuoto di diritto pubblico, ossia la mancanza di regole, di limiti e di controlli nei confronti dei nuovi poteri transnazionali, sia pubblici che privati, che hanno spodestato i vecchi poteri statali. Penso anzi che la stessa globalizzazione dell’economia possa essere identificata, sul piano giuridico, con questo vuoto di un diritto pubblico internazionale idoneo a disciplinare i grandi poteri economici transnazionali: non, si badi, un vuoto di diritto, che non può mai esserci, ma un vuoto di diritto pubblico riempito, inevitabilmente, da un pieno di diritto privato, cioè da un diritto di produzione contrattuale che si sostituisce alle forme tradizionali della legge  e che riflette, di solito, la legge del più forte. Ne è conseguita una generale anomia e una regressione neoassolutistica così delle grandi potenze come dei grandi poteri economici transnazionali: che è un neoassolutismo regressivo e di ritorno che si manifesta nell’assenza di regole apertamente assunta, dall’odierno capitalismo globalizzato, come una sorta di nuova grundnorm del nuovo ordine economico e politico internazionale”.

del Prof. Luigi Ferrajoli
da “Diritti fondamentali e democrazia costituzionale”

 

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